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13 ottobre, 2024

Il Rosenkavalier di Salzburg (2014) per la seconda volta alla Scala.

Ieri l’argenteo cavaliere straussiano, come originariamente prodotto a Salzburg nell’ormai lontano 2014, è tornato per la seconda volta a far visita al Piermarini, dopo la prima apparizione del 2016. Allora, teatro semideserto, ieri pieno come un uovo! Che sia perchè sul podio c’era il grande Kirill Petrenko?

Alla regìa, scomparso nel 2019 l’ideatore Harry Kupfer, Derek Gimpel. Superstiti delle recite del 2016 la Marescialla Krassimira Stoyanova e il buzzurro Ochs di Gunther Groissbock.

Non sto quindi a commentare la regìa, ennesima e discutibile ri-ambientazione del soggetto al tempo della composizione dell’opera o giù di lì, cosa che non condivido per varie ragioni, già in passato riassunte in queste mie considerazioni, ehm, filosofiche.

Il trionfatore della serata è stato (ma si poteva tranquillamente prevederlo) il Direttore russo, subissato da applausi e ovazioni ai due ritorni sul podio e al termine della recita

Ovviamente i suoi meriti sono squisitamente di natura musicale: non una battuta di Strauss è andata persa o manomessa, o deturpata: tutta l’opera è corsa via con quel carattere fluido che proprio l’Autore riconosceva essere nel DNA di questa musica. Nel saggio pubblicato sul programma di sala, Quirino Principe definisce il Rosenkavalier come opera dominata né da Apollo, né da Dioniso, ma da Hermes, il dio della musica. Ecco, mi verrebbe da dire che Petrenko abbia proprio interpretato così questo capolavoro.   

Di lui va celebrata la modestia e il riserbo: alle tre entrate sul podio ha dato solo un fugace saluto al pubblico; alla fine ha ringraziato ripetutamente l’orchestra, che ha sfoderato una prestazione davvero impeccabile, quasi senza neanche guardare la sala, che lo stava letteralmente sommergendo di ovazioni da stadio! E anche all’ultimissima uscita singola si è rivolto più alla buca che al pubblico.

Detto dell’onorevole prestazione del coro di Alberto Malazzi, rinforzato dai piccoli di Marco De Gaspari, resta da spendere poche parole sulle voci.

I due cugini più maturi non solo non hanno perso nulla rispetto alle loro prestazioni di 8 anni fa, ma mi sento di dire che abbiano acquistato (la Stoyanova in particolare) spessore sia vocalmente che scenicamente.

Kate Lindsey è stata un’ottima Octavian, e una superlativa Mariandel. Con qualche decibel in più di proiezione della voce le avrei assegnato la lode.

Johannes Martin Kränzle ha ben meritato come Faninal: anche per lui il Piermarini è forse troppo vasto!

Benissimo Sabine Devieilhe come Sophie, voce appropriata al personaggio, acuta (qui ha già fatto Zerbinetta!) ma rotonda, e soprattutto ben proiettata.  

Accomuno tutti gli altri (Gerhard Siegel, Valzacchi; Tanja Ariane Baumgartner, Annina; Caroline Wenborne, Jungfer Marianne Leitmetzerin; Bastian-Thomas Kohl, Notaio-Commissario e Jörg Schneider, Maggiordomo di Faninal – Oste) in un generale apprezzamento, ma con menzione per la Wenborne.

Per ultimo (italianità…) lascio Piero Pretti, interprete del Tenore, che deve cantare la famosa arietta di Molière (più… metà) nella sala dei ricevimenti del primo atto. Per dire che non se l’è cavata per niente male… salvo che anche lui, come il 90% dei tenori, non canta tutte le note di Strauss!

Si osservi il brano incriminato:

Il verso in un baleno viene cantato due volte, a breve distanza. La prima volta le parole in un ba… salgono dalla dominante LAb alla sesta SIb percorrendo croma, semiminima, semiminima, croma. Nella ripetizione quelle parole compiono lo stesso balzo in alto, ma con semiminima puntata più sei semicrome.

Della ventina almeno di esempi disponibili in rete, con i tenori più famosi di oggi e di ieri, io ho trovato ad eseguire precisamente il secondo passaggio solo Ben Heppner (59”), Fritz Wunderlich (1’53”) e Josef Traxel (1’25”). Gli altri al massimo, eseguono 4 o 5 delle sei semicrome.

Peccato, perché questa è una delle tante piccole ma preziose perle che Strauss ha disseminato nella sua straordinaria partitura, per evocare la consuetudine - tutta settecentesca - di lasciare all’interprete la libertà di variare le ripetizioni con propri abbellimenti.

Chiudo confermando comunque un voto di eccellenza a questa produzione, di cui il merito preponderante va al piccolo, grande… Cirillo!  

16 aprile, 2022

Arianna torna - col trucco rifatto - alla Scala

Dopo quasi esattamente tre anni è tornata a Nasso alla Scala la straussiana Ariadne, che fu accolta da un buon successo nel 2019 nella produzione targata Wake-Walker / Welser-Möst.

Oggi però l’allestimento è quello di Sven-Eric Bechtolf e sul podio va quel Michael Boder che si fece le ossa proprio in Italia (a Firenze sotto le ali di due autorevoli chiocce: Muti e Mehta).

Curiosamente le vicissitudini di questa produzione ricordano da vicino quelle che caratterizzarono la nascita e la vita dell’opera medesima, sulle quali si è scritto e detto quasi tutto (anch’io ho presuntuosamente dato un modesto contributo). E così è successo che Bechtolf abbia in un primo tempo (estate 2012, centenario della prima assoluta di Stoccarda) allestito l’opera a Salisburgo nella versione originale del 1912 e poi, qualche mese dopo e successivamente nel 2014 a Vienna, abbia impiegato lo stesso allestimento (opportunamente riadattato) per proporre la seconda (e definitiva) versione dell’Ariadne (Vienna, 1916).

Della produzione di tre anni fa sopravvivono oggi due importanti superstiti: la grande Krassimira Stoyanova (Ariadne) e l’altrettanto famoso quanto bravo Markus Werba (Maestro di musica).

Bechtold ambienta il soggetto ai tempi della composizione, come si deduce principalmente dai costumi (di Marianne Glittenberg) prima ancora che dalle scene (del di lei marito Rolf) e la cosa, oltre che non nuova, è anche sensata e convincente. Efficaci sempre - in particolare nel finale - anche le luci curate da Jürgen Hoffmann.

Il regista fa entrare in scena (ovviamente solo come comparse) il Maestro di musica e, ancor più corposamente, il Compositore, anche nell’Opera, oltre che nel Prologo, e lo fa a buon titolo, sia per vivacizzare alcune scene (vedi il lungo assolo di Zerbinetta, che il Compositore en-travesti accompagna virtualmente alla tastiera e alla quale passa premurosamente fogli di spartito per i gorgheggi che precedono il famoso Als ein Gott kam jeder gegangen) ma soprattutto per introdurre mirabili tocchi di filosofia di vita, per così dire. Ecco che alla fine, prima che il sipario cali, vediamo il Compositore riunirsi alla soubrette, evidentemente a sancire un sodalizio esistenziale già prefigurato al momento del loro incontro-scontro nel Prologo.

E, a proposito di rapporti fra esseri umani e fra artisti, e fra vita reale e teatro, ecco un altro colpo di Bechtolf da vero maestro: dopo la loro ascensione finale verso... le stelle, Bacchus e Ariadne, che la finzione teatrale di Hofmannsthal e la sbudellante musica di Strauss hanno miracolosamente e sublimemente unito in modo indissolubile, escono di scena da parti opposte, in aperta lite fra loro, a testimoniare dei comportamenti miserevoli che i due hanno nella vita reale, già intravisti nel Prologo, allorquando ciascuno dei due cercava egoisticamente di far tagliare la parte dell’altro/a.

Ma direi che tutta la recitazione è stata curata con la massima attenzione, anche ai dettagli, e questo si applica alla parte esclusivamente parlata del Maggiordomo, come a quelle dei quattro amanti di Zerbinetta, del Maestro di danza e - nell’Opera - delle tre ninfe. In sostanza, un allestimento di gran pregio che, dopo i precedenti successi all’estero (e a livello di DVD...) meritava proprio di essere proposto anche qui da noi.
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Michael Boder per me (forse un po’ meno per il pubblico, che gli ha riservato applausi di circostanza) ha guidato bene la smagrita orchestra dei Trepper, creando la giusta atmosfera low-profile (ma high-quality) che caratterizza questa partitura straussiana, ricca di raffinatezze quanto parca di slanci eroici.

A proposito di eroismi, l’Heldentenor che qui incarna Bacchus, il sessantenne Stephen Gould, ci ha messo tutto il fiato che ancora gli resta (e non è poco... oltretutto per una parte relativamente contenuta) anche se proprio l’ultimo SIb lo ha ghermito alla bell-e-meglio (in pratica: un’acciaccatura sul LAb). Per lui successo di stima, più che trionfo.

Chi ha trionfato sono le due protagoniste femmine-femmine: la Krassimira Stoyanova ha confermato le sue qualità e la sua capacità di immedesimazione nel ruolo della donna abbandonata; quanto alla Erin Morley, la sua è una Zerbinetta accattivante, brillante ed anche patetica quando serve, poi i RE e i MI acuti li ha strappati con la massima sicurezza, il che le ha garantito un lungo applauso a scena aperta. Entrambe accolte alla fine da meritate ovazioni.

La femmina-maschio era Rachel Frenkel (cui subentrerà la titolare Koch per le prossime recite): prestazione che definirei più che dignitosa, in una parte di per sè difficile, più Singspiel che canto...  

Bene anche le altre tre rappresentanti del gentil sesso (Caterina Sala, Svetlina Stoyanova e Olga Bezsmertna) le ninfe che accompagnano la povera Ariadne dalla disperazione alla finale trasfigurazione, dapprima con accorata partecipazione, poi con cullanti ed eteree melodie.    

Ora resta solo da dire degli altri... maschi: su tutti ovviamente Markus Werba, che mette la sua voce rotonda e passante, ma anche la sua grande disinvoltura scenica, al servizio della figura un po’ anguillesca del Maestro di musica. All’altezza della parte il Maestro di danze Norbert Ernst, efficaci i quattro amanti di Zerbinetta: su tutti, data la parte più corposa, l’Arlecchino di Rafael Fingerlos, ma bravi anche Jinxu Xiaho, Jongmin Park e Leonardo Navarro a completare il quartetto in monopattino. Oneste le prestazioni dei restanti tre della compagnia: Hyun-Seo Davide Park, Paul Grant e Sung-Hwan Damien Park.
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In conclusione: spettacolo godibilissimo e di gran pregio, che personalmente affianco ad altre proposte di ottimo livello di questa stagione scaligera della ripresa post-Covid.

24 aprile, 2019

Un grande Strauss alla Scala


Ieri sera al Piermarini (con parecchi posti vuoti - peggio per gli assenti) è andata in onda la prima di Ariadne auf Naxos, nella nuova produzione targata Welser-Möst / Wake-Walker, una coppia (direttore-regista) che ha presentato l’opera a Cleveland (dove il direttore di Linz è di casa da un bel pezzo...) poco più di due mesi orsono, ma con orchestra, cast e team di regìa completamente diversi (di fatto quella produzione americana nulla ha a che vedere con questa della Scala).

Devo dire subito che il Kapellmeister mi ha abbastanza convinto, portando alla luce gli innumerevoli tesori di questa partitura e guidando orchestra e interpreti con una concertazione accurata e attenta ad ogni dettaglio. E la smagrita (come da copione) compagine scaligera (rialzata opportunamente nella buca di un buon mezzo metro) ha risposto nel migliore dei modi alle sue sollecitazioni: buon equilibrio fra le sezioni, proprietà di fraseggio e sonorità mai sbracate, proprio come è richiesto dalla lettera, oltre che dallo spirito, di quest’opera, che ha nella raffinatezza la sua caratteristica peculiare.

Opera bifronte, sappiamo, con un prologo-Singspiel, dove abbondano i parlati (e Alexander Pereira, che come sovrintendente sarà magari censurabile, ha invece tenuto banco alla perfezione nei panni del maggiordomo viennese, in sfolgorante livrea purpurea e con voce petulante) e dove i momenti musicalmente rilevanti - preludio a parte - si riducono alle esternazioni del Compositore e al suo confronto con Zerbinetta (gli altri cantano in recitativi accompagnati, o poco più); e poi il melodramma serio-farsesco, dove invece la mirabile musica di Strauss la fa da padrona da cima a fondo.    

In compenso la prima parte è quella dove c’è un minimo di azione, anzi di agitazione, causata dalle ripetute sorprendenti pretese del padrone di casa, di cui è portavoce il maggiordomo. La seconda parte è quasi totalmente statica, se si esclude il siparietto della caccia delle quattro maschere. 

Dopo il Preludio, suonato rigorosamente a sipario chiuso, ecco comparire al proscenio il sempre solido Markus Werba (insegnante di musica) e il padrone di casa (pro-tempore) del Piermarini, protagonisti del battibecco che apre il Prologo, durante il quale Pereira fa sventolare sotto il naso di Werba una banconota che gli consegnerà (bontà sua) solo al rientro dietro il sipario dopo gli applausi al termine della prima parte...

E all’apertura del sipario, invece che in austeri corridoi del Palast, siamo in un cortile dello stesso, dove hanno trovato parcheggio le roulottes e i camper delle due troupe ingaggiate per lo spettacolo: bianchi quelli dei melodrammatici e rossi quelli dei commedianti, nel rigoroso rispetto dei colori (nazionali e cittadini) del luogo.

Qui c’è un crescendo di animazione, in una fantasmagoria di colori, quella dei costumi (una mescolanza di antico e moderno) di Jamie Vartan (responsabile anche delle scene): ne è protagonista il compositore, alias la bravissima Daniela Sindram, che ha modo di esternare tutta la sua apprensione, il suo amor proprio ed anche le sue mirabili melodie. Raggiunto, verso la fine, da una Zerbinetta (che si scatenerà poi nell’opera) che qui mostra il lato umano e nascosto della sua esuberante personalità, riuscendo a far tornare nel compositore l’entusiasmo e l’ottimismo, che peraltro dureranno poco, se è vero che il poveretto si trafiggerà con un coltello preso dall’argenteria del palazzo, sui truci accordi di DO minore che chiudono il Prologo.

Nel quale hanno anche cantato meritoriamente il Maestro di danza Joshua Whitener e i tre accademici scaligeri, Riccardo Della Sciucca (Ufficiale) Ramiro Marturana (Parrucchiere) e Hwan An (Lacchè). Quanto ai due protagonisti dell’opera seria (Ariadne e Bacchus) nel prologo si limitano più che altro a lamenti e rimostranze, sfoggiando supponenza e disprezzo per l’altra troupe; i quattro compari di Zerbinetta si muovono senza aprir bocca, così come le tre svampitelle che nell’opera impersoneranno ninfe ed eco.

E l’opera, appunto, vede lo scenario (e la scena) mutare drasticamente: siamo in un ambiente asettico, caratterizzato da luce azzurrognolo-verdastra (evocazione di paesaggio marino, assai azzeccata da Marco Filibeck) e popolato da acutissime guglie (le scogliere di Nasso). Al centro un’enorme vongola tecnologica (la conchiglia del Botticelli) con le due valve aperte sulle quali si muove lentamente Ariadne, e che si richiuderanno poi temporaneamente quando la protagonista si ritirerà all’interno della sua spelonca.

Ma ciò che colpisce è la trasformazione dei personaggi della troupe dell’opera (Ariadne, Najade, Dryade ed Echo, successivamente Bacchus) da individui complessati o insignificanti (come ci erano apparsi - nel prologo - nella vita reale) in grandi artisti, nobilitati dal teatro e soprattutto dalla... musica!

Come non restare ammirati dall’iniziale esternazione di Ariadne, una Krassimira Stoyanova invero commovente e pienamente calata nella parte della donna tradita, privata della cosa più preziosa che si possa desiderare, l’amore! Welser-Möst ne ha accompagnato i lamenti e i ricordi con discrezione, mettendo in risalto le purissime linee melodiche dell’orchestra e dei singoli strumenti.

E che dire della poesia del canto di Christina Gansch (Najade), Anna-Doris Capitelli (Dryade, dall’Accademia scaligera) e Regula Mühlemann (Echo) nelle loro ninna-nanne alla protagonista!

Michael König è stato un convincente Bacchus, voce proprio da Heldentenor, potente e squillante allo stesso tempo, senza sforzo apparente anche sui SIb cui la partitura lo chiama alla conclusione dell’opera. La sua apparizione è accompagnata dall’aprirsi della scena sul fondo, dove compare una ripida scala sulla quale scende il dio e sulla quale risaliranno (verso... le stelle) i due amanti alla fine. Da incorniciare il lungo duetto con Ariadne, una miniatura che ricorda l’enorme quadro del Tristan!

Zerbinetta&C - a differenza dei colleghi, più blasonati ma con puzza-al-naso, dell’altra troupe - sembrano vivere in teatro come vivono da privati cittadini: le quattro maschere hanno modo di farsi valere anche come... cantanti (!) e su tutti spicca (per corposità della parte) l’Harlekin di Thomas Tatzl, che sciorina impeccabilmente la sua infruttuosa serenata alla povera Ariadne. Gli tengono valida compagnia Kresimir Spicer (Scaramuccio), Tobias Kehrer (Truffaldin) e Pavel Kolgatin (Brighella) che inscenano la comica quanto inutile caccia alla soubrette, caccia conclusa invece con pieno successo da Harlekin, che conquista il cuore (e anche altro... ehm, organo!) della disinvolta attricetta.

Della quale è ora il momento di parlare, poichè è sicuramente la protagonista più appariscente dell’opera: e Sabine Devieilhe non si è smentita, lasciando tutti senza fiato con il suo massacrante recitativo-aria-rondò, inclusi i RE e MI sovracuti, che le ha garantito minuti di applausi a scena aperta.

Restano da citare Sylwester Luczak e Ula Milankowska per i filmati che hanno accompagnato la parte finale dell’opera e l’apoteosi dei due protagonisti.

Alla fine solo applausi e bravo! per tutti i protagonisti di questa proposta davvero accattivante, come livello musicale e come spettacolo; insomma, chi appena può, non se la perda!

21 febbraio, 2018

Un Simone di routine alla Scala (gentilonizzata)


Ieri sera: Piazza Scala transennata come neanche a SantAmbrogio. Poliziotti adibiti a maschere-aggiunte cui mostrare il tagliando d’ingresso per poter avvicinarsi al teatro. Ohibò, ci si chiedeva: timori di attentato dinamitardo dell’ISIS? Minacce nucleari dei nord-coreani contro il direttore sud-coreano? Ma no, tutto a posto: c’è solo Gentiloni che, essendo capitato per caso a Milano per sostenere la candidatura di tale Gori a Governatore longobardo, si è fatto invitare dal tenutario-pro-tempore del teatro (tale Sala) nel Palco Reale, così, tanto per vedere l’effetto che fa.

Per la verità il nostro PM è sempre schivo e modesto, e pochi si sono accorti del suo ingresso alla chetichella nel suddetto Palco Reale (ci mancava pure che Chung attaccasse, per par-condicio, Fratelli d’Italia!) Così qualche adepto zelante ha pensato bene di fargli uno spot-tino elettorale. Quando, verso la fine, la regìa di Tiezzi (copiando il DonGiovanni di Carsen) prevede di collocare in quel palco privilegiato il Capitano che declama le sue tre righe di testo, ecco che un occhio-di-bue illumina a giorno il Capitano e, con lui, il  Premier! Evabbè, tanto qui la par-condicio è comunque salva, dato che il nostro è ben visto da (quasi) tutto  l’arco inciucionale costituzionale...
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In questi ultimi anni il corsaro Boccanegra ha infestato veleggiato nel vasto mare del Piermarini con frequenza pari almeno a quella registrata negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso: ben quattro incursioni negli ultimi 8 anni (10-14-16-18). Si tratta della terza ripresa della produzione di Federico Tiezzi, che ha visto sul podio Barenboim, Ranzani e queste ultime due volte Chung. Quanto al protagonista, Domingo si è baritonizzato per le prime tre edizioni, Nucci ha cantato di sua natura nelle ultime tre. 

A parte Nucci, nel cast il decano di queste quattro programmazioni è Ernesto Panariello (Pietro) sempre sul pezzo dal 2010; lo segue Fabio Sartori (Adorno) che torna dopo il 2010 e il 2014; con lui i due accademici Luigi Albani (Capitano) e Barbara Lavarian (Ancella) già in pista nel 2014 e 2016; infine Krassimira Stoyanova (Amelia) e Dmitri Belosselskiy (Fiesco) tornano dopo il 2016. Esordiente il Paolo di Dalibor Jenis. Insomma, una squadra, almeno sulla carta, sufficientemente rodata. 

E ieri sera, alla quinta delle otto recite della stagione, l’affiatamento fra tutti (coro di Casoni e orchestra inclusi) ha prodotto un dignitoso risultato, che un pubblico non oceanico ha accolto con unanimi, pur non esagitati, applausi.

08 giugno, 2016

L’argenteo cavaliere ci riprova alla Scala

 

Ieri sera alla Scala seconda recita del redivivo Der Rosenkavalier, che a più di un secolo di distanza evidentemente continua a non convincere i milanesi (e non). Per carità, ora nessuno ha l’ardire – come accadde in quel lontano mercoledi 1° marzo del 1911 - di fischiare la musica del bavarese, accusandola di lesa maestà al nobile melodramma italico, perchè intrisa di eccessivo walzerismo viennese... O di irridere il testo del raffinato Hofmannsthal, che nella traduzione italiana doveva perdere parecchio dell’appeal che ha nella lingua originale, con tutte le sfumature del dialetto austriaco (che noi non crucchi ci perdiamo comunque anche ascoltando il tedesco). No, la disaffezione oggi si misura in numero di poltrone e di intere file di palchi andate deserte: una cosa, questa sì, al limite dello scandalo.

La nuova (per la Scala) produzione viene – tramite l’intermediario Pereira - da Salzburg ed è firmata dall’oggi 81enne Harry Kupfer. L’ambientazione – cosa che ormai supera il limite dell’abuso – è nella Vienna degli autori, non in quella di 150 anni prima. Quindi nei locali settecenteschi (su fondali di foto della Vienna novecentesca) lo scenografo Hans Schavernoch ci mostra – cito solo due esempi - un fonografo a manovella e una bellissima automobile (quella di Strauss doveva proprio essere così) e i costumi di Yan Tax sono pure da primo novecento, però con qualche tocco... vintage, come il taglio degli abiti di Octavian. (Delle scene c’è da elogiare la piattaforma che scorre da destra a sinistra e viceversa, assai efficace nel creare di volta in volta gli ambienti in cui si snoda la vicenda, mostrandoci anche ciò che avviene fuori scena, tipo l’ingaggio di Valzacchi-Annina da parte di Octavian). Naturalmente è un’ambientazione che deve fare i conti con la parrucca, e in particolare con quella di Ochs, oggetto fondamentale nel testo, poichè determina nientemeno che lo sviluppo della scena tragicomica del terz’atto: come sempre, anche qui il regista deve ricorrere al volgare parrucchino (perso e poi recuperato dal buzzurro di Lerchenau) che trasforma un’invenzione invero raffinata di Hofmannsthal in una gag da avanspettacolo. Come una gag diventa il duello Octavian-Ochs dell’atto secondo, con il nobilastro campagnolo ferito da una spada passatagli al volo dal ragazzo per invitarlo a combattere... O come la torma di ragazzini sedicenti-figli-illegittimi che nell’atto finale circondano Ochs, ben più numerosi dei 4 (quattro) previsti dal libretto. Tutte trovate abbastanza stantie – simili a quelle del precedente allestimento visto qui, a firma di Herbert Wernike, che avevo personalmente criticato assai a suo tempo - che non mi pare proprio valorizzino l’opera, ecco.   

Detto ciò, va comunque riconosciuto al vecchio Kupfer di averci presentato con grande equilibrio lo scenario socio-psico-esistenziale che caratterizza questo capolavoro: ci troviamo tutta l’apologia del regno di Maria Theresia, dal quale era nata l’Austria in cui vivevano (pieni di fama e... quattrini) gli autori, ma al contempo la meditazione sull’eterno fluire del tempo e sulla necessità di accettazione dei mutamenti che esso comporta per gli esseri umani. Tutto è un mistero, un grande mistero, ed esistiamo per questo, (sospirando) per sopportarlo. E nel “come” (con molta calma) sta la vera differenza. E parlo dei mutamenti a livello privato, come a livello pubblico: il futuro di Marie Theres’ come quello della nobiltà illuminata che lei impersona; quello della nobiltà retriva (Ochs); quello dell’emergente borghesia produttiva (Faninal); e infine quello dei giovani eredi (Octavian-Sophie). E al proposito la scena finale (indipendentemente dal mezzo di trasporto) è resa da Kupfer con perfetta aderenza allo spirito dell’opera.
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A Krassimira Stoyanova va indiscutibilmente la rosa d’argento della serata. Un’interpretazione magistrale (grazie anche a Kupfer, certo) e una prestazione vocale di eccellenza, per potenza di suono coniugata con mirabile espressività.

Il travesti è Sophie Koch, che (per me) ha iniziato malissimo, per poi però ritrovarsi e fare una dignitosa figura in particolare nelle prove finali (terzetto e duetto) dove la sua voce (mi) è parsa trovare il giusto grado di morbidezza. Meglio di lei l’altra Sophie (il personaggio): quella di Christiane Karg, che ha sciorinato un bella voce squillante e appropriatissima alla figura della figlia-di-papà, caratterizzata al contempo da ingenuità e slanci battaglieri.

Günther Groissböck è finalmente un Ochs appropriato anche anagraficamente: ha solo pochi anni più del (probabile) 35enne bue che viene dalla campagna a nord di Vienna e che troppo spesso viene cervelloticamente presentato come un vecchio lurido e bavoso. Quanto alla prestazione vocale, mi è parsa più che apprezzabile, a partire dal timbro piuttosto baritonale, anche qui adatto ad impersonare un tipaccio esuberante e non un vecchio mezzo rincoglionito. Qualche decibel in più di volume non avrebbe guastato, tuttavia si son potuti (a fatica) udire anche i MI gravi (e persino l’impossibile DO sotto il rigo, proprio nel momento in cui si accommiata dalla Marescialla nel primo atto, mich tiefst beschämt).


Faninal è Adrian Eröd, che si comporta senza infamia a senza lode: voce non molto penetrante (dovrebbe essere da baritono acuto) che fatica ad arrivare su al loggione. Certamente più udibile (anche troppo...) invece la Silvana Dussmann che impersona la cameriera di casa Faninal, il cui vociferare non è però del tutto inappropriato al personaggio di zitella... accalorata, ecco.

Ora farò indebitamente di ogni erba un fascio, accomunando tutti gli altri numerosi personaggi in un generico apprezzamento per aver dato il loro onesto contributo. Faccio una piccola ma doverosa eccezione per il tenore italiano, che l’italiano di studi Benjamin Bernheim ha impersonato con bella prestanza e sfoderando al meglio gli squillanti SIb e il SI naturale che la particina comporta. Sempre efficace il coro (grandi e piccoli) di Bruno Casoni.

Lascio da ultimo il venerabile Zubin Mehta, capitano di lungo corso su queste rotte straussiane e concertatore sopraffino. Se mi posso permettere un appunto, gli imputerei un filino di rilassatezza nei tempi, che avrei (personalmente, sia chiaro) preferito più spediti e garibaldini. Già l’attacco dei corni (uno dei quali purtroppo non è stato perfetto, ma pazienza...) mi è parso ad orecchio piuttosto al di sotto del metronomo di 60 minime prescritto da Strauss. Ma al grande vecchio si può perdonare questo ed altro, perchè tenere in pugno con consumata maestrìa un oggetto come questo non è da tutti.

Trionfo quindi meritato e... peggio per i disertori.