Ieri sera alla Scala seconda recita del redivivo Der Rosenkavalier, che a più di un secolo di distanza evidentemente continua a non
convincere i milanesi (e non). Per carità, ora nessuno ha l’ardire – come accadde
in quel lontano mercoledi 1° marzo del 1911 - di fischiare la musica del bavarese,
accusandola di lesa maestà al nobile melodramma italico, perchè intrisa di eccessivo
walzerismo viennese... O di irridere
il testo del raffinato Hofmannsthal, che nella traduzione italiana doveva perdere
parecchio dell’appeal che ha nella
lingua originale, con tutte le sfumature del dialetto austriaco (che noi non
crucchi ci perdiamo comunque anche ascoltando il tedesco). No, la disaffezione
oggi si misura in numero di poltrone e di intere file di palchi andate deserte:
una cosa, questa sì, al limite dello scandalo.
La nuova (per la
Scala) produzione viene – tramite l’intermediario Pereira - da Salzburg ed è
firmata dall’oggi 81enne Harry Kupfer.
L’ambientazione – cosa che ormai supera il limite dell’abuso – è nella Vienna
degli autori, non in quella di 150 anni prima. Quindi nei locali settecenteschi
(su fondali di foto della Vienna novecentesca) lo scenografo Hans Schavernoch ci mostra – cito solo
due esempi - un fonografo a manovella e una bellissima automobile (quella di
Strauss doveva proprio essere così) e i costumi di Yan Tax sono pure da primo novecento, però con qualche tocco... vintage,
come il taglio degli abiti di Octavian. (Delle scene c’è da elogiare la piattaforma
che scorre da destra a sinistra e viceversa, assai efficace nel creare di volta
in volta gli ambienti in cui si snoda la vicenda, mostrandoci anche ciò che
avviene fuori scena, tipo l’ingaggio di Valzacchi-Annina da parte di Octavian).
Naturalmente è un’ambientazione che deve fare i conti con la parrucca, e in particolare con quella di
Ochs, oggetto fondamentale nel testo, poichè determina nientemeno che lo
sviluppo della scena tragicomica del terz’atto: come sempre, anche qui il
regista deve ricorrere al volgare parrucchino
(perso e poi recuperato dal buzzurro di Lerchenau) che trasforma un’invenzione
invero raffinata di Hofmannsthal in una gag da avanspettacolo. Come una gag
diventa il duello Octavian-Ochs dell’atto secondo, con il nobilastro campagnolo
ferito da una spada passatagli al volo dal ragazzo per invitarlo a combattere...
O come la torma di ragazzini sedicenti-figli-illegittimi che nell’atto finale
circondano Ochs, ben più numerosi dei 4 (quattro) previsti dal libretto. Tutte trovate
abbastanza stantie – simili a quelle del precedente allestimento visto qui, a
firma di Herbert
Wernike, che avevo personalmente criticato
assai a suo tempo - che non mi pare proprio valorizzino l’opera, ecco.
Detto ciò, va comunque riconosciuto al vecchio Kupfer
di averci presentato con grande equilibrio lo scenario socio-psico-esistenziale
che caratterizza questo capolavoro: ci troviamo tutta l’apologia del regno di Maria Theresia, dal quale era nata l’Austria
in cui vivevano (pieni di fama e... quattrini) gli autori, ma al contempo la
meditazione sull’eterno fluire del tempo e sulla necessità di accettazione dei
mutamenti che esso comporta per gli esseri umani. Tutto è un mistero, un
grande mistero, ed esistiamo per questo, (sospirando) per sopportarlo. E nel
“come” (con molta calma) sta la vera differenza. E parlo
dei mutamenti a livello privato, come a livello pubblico: il futuro di Marie Theres’ come quello della nobiltà illuminata
che lei impersona; quello della nobiltà retriva (Ochs); quello dell’emergente
borghesia produttiva (Faninal); e infine quello dei giovani eredi
(Octavian-Sophie). E al proposito la scena finale (indipendentemente dal mezzo
di trasporto) è resa da Kupfer con perfetta aderenza allo spirito dell’opera.
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A Krassimira
Stoyanova va indiscutibilmente la rosa
d’argento della serata. Un’interpretazione magistrale (grazie anche a
Kupfer, certo) e una prestazione vocale di eccellenza, per potenza di suono
coniugata con mirabile espressività.
Il travesti è Sophie Koch, che (per me) ha iniziato malissimo, per poi però
ritrovarsi e fare una dignitosa figura in particolare nelle prove finali
(terzetto e duetto) dove la sua voce (mi) è parsa trovare il giusto grado di morbidezza.
Meglio di lei l’altra Sophie (il personaggio): quella di Christiane Karg, che ha sciorinato un bella voce squillante e
appropriatissima alla figura della figlia-di-papà, caratterizzata al contempo
da ingenuità e slanci battaglieri.
Günther Groissböck è finalmente un Ochs appropriato anche
anagraficamente: ha solo pochi anni più del (probabile) 35enne bue che viene dalla campagna a nord di Vienna
e che troppo spesso viene cervelloticamente presentato come un vecchio lurido e
bavoso. Quanto alla prestazione vocale, mi è parsa più che apprezzabile, a partire
dal timbro piuttosto baritonale, anche qui adatto ad impersonare un tipaccio
esuberante e non un vecchio mezzo rincoglionito. Qualche decibel in più di volume non avrebbe guastato, tuttavia si son
potuti (a fatica) udire anche i MI gravi (e persino l’impossibile DO sotto il
rigo, proprio nel momento in cui si accommiata dalla Marescialla nel primo
atto, mich tiefst beschämt).
Faninal è Adrian
Eröd, che si comporta senza infamia a senza lode: voce non molto penetrante
(dovrebbe essere da baritono acuto) che fatica ad arrivare su al loggione. Certamente
più udibile (anche troppo...) invece la Silvana
Dussmann che impersona la cameriera di casa Faninal, il cui vociferare non
è però del tutto inappropriato al personaggio di zitella... accalorata, ecco.
Ora farò indebitamente di ogni erba un fascio,
accomunando tutti gli altri numerosi personaggi in un generico apprezzamento
per aver dato il loro onesto contributo. Faccio una piccola ma doverosa
eccezione per il tenore italiano, che
l’italiano di studi Benjamin Bernheim
ha impersonato con bella prestanza e sfoderando al meglio gli squillanti SIb e
il SI naturale che la particina comporta. Sempre efficace il coro (grandi e
piccoli) di Bruno Casoni.
Lascio da ultimo il venerabile Zubin Mehta, capitano di lungo corso su queste rotte straussiane e concertatore
sopraffino. Se mi posso permettere un appunto, gli imputerei un filino di
rilassatezza nei tempi, che avrei (personalmente, sia chiaro) preferito più
spediti e garibaldini. Già l’attacco dei corni (uno dei quali purtroppo non è
stato perfetto, ma pazienza...) mi è parso ad orecchio piuttosto al di sotto del
metronomo di 60 minime prescritto da Strauss.
Ma al grande vecchio si può perdonare questo ed altro, perchè tenere in pugno
con consumata maestrìa un oggetto come questo non è da tutti.
Trionfo quindi meritato e... peggio per i disertori.
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