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consulta e zecche rosse

05 giugno, 2016

Lieber Fritz in Venedig


La Fenice ha ospitato nei giorni scorsi un amico piuttosto riservato (nel senso che si fa vedere in giro abbastanza di rado): trattasi di tale Fritz, animato dalla musica di Pietro Mascagni, che ieri si è accommiatato dopo la quinta ed ultima rappresentazione.

Opera piuttosto singolare: un verismo sui-generis, perlomeno rispetto allo stereotipo classico che vorrebbe per questo genere di opere soggetti sanguigni, se non addirittura crudi e truci. Qui siamo invece alla normale (o quasi) vita di campagna, fra viti e ciliegi, dove due giovani troveranno la felicità dopo qualche vicenda strappalacrime e grazie all’intercessione di un rabbino. L’unico momento drammatico di tutta l’azione (beh, azione si fa per dire...) si riduce alla fuga precipitosa di Fritz dalla campagna verso la città, lasciando con un palmo di naso la poverina Suzel. Qualcuno ha persino parlato di una specie di Elisir d’amore (a ruoli principali invertiti) come dire: una pièce zuccherosa e un po’ patetica, con finale degno di Harmony, ecco.     

Le cronache ci dicono che fosse proprio Mascagni, dopo il clamoroso successo di Cavalleria - che però più d’uno maliziosamente attribuiva in parti uguali alla potenza del libretto e alla musica – a chiedere al suo editore Sonzogno, impaziente di fare altri affari con una nuova opera dell’astro nascente, un soggetto di basso profilo, in modo che, per contrasto, fosse la sua ispirata musica a venire in primo piano. E così ecco che la scelta cadde su L’ami Fritz, un romanzo leggero (ma non banale, attenzione!) in 18 capitoli di Erckmann-Chatrian del 1864, poi ridotto per il teatro nel 1876, dalla quale riduzione il famoso Angelo Zanardini aveva ricavato un libretto, di cui Mascagni irrise a tal punto la poetica da convincere Sonzogno a farne rimuovere le coglionerie (sic) da tale P. Suardon (al secolo il giornalista Nicola Daspuro, anzi D’Aspuro) e infine dai fidati Targioni-Tozzetti&Menasci, onde ricavarne il comunque mediocre libretto dell’opera.



Qualche curiosità sulle differenze di scenario fra il romanzo e il libretto. Il romanzo che indirettamente ispirò Mascagni fu opera di due francesi originari della Lorena: Émile Erckmann, nato a Phalsbourg e Alexandre Chatrian, nato a Soldatenthal (dei due, Erckmann era in effetti l’autore dei romanzi, mentre Chatrian si occupava più che altro della loro... commercializzazione o riduzione per il teatro).

La collocazione geografica della vicenda è abbastanza controversa: è luogo comune parlare di Alsazia (e così sarà infatti nel libretto dell’opera) ma in realtà i nomi delle località citate nel romanzo sono o immaginari o mascherati: la cittadina dove abita Fritz (non citata nell’opera) è Hunebourg, che non esiste come tale (a quel nome corrisponde in effetti un vecchio e isolato castello alsaziano, nei Vosgi) mentre si ritiene, da indizi derivati dal contesto, che si tratti di Landau (o località in quei pressi, come Dahn) che è nel Palatinato meridionale, regione tedesca occupata da Napoleone con tutti i territori tedeschi a sinistra del Reno nel 1797, ma poi tornata tedesca nel 1815 (Congresso di Vienna) con la restituzione di Landau e dintorni al Regno di Baviera. In effetti Fritz (siamo nel 1847) si vanta di essere bavarese e non vede di buon occhio gli imperialisti prussiani che si aggirano dalle sue parti, mentre mostra più simpatia per la Francia (e per i suoi vini, per la verità...)

Anche la descrizione di Bischem, dove Fritz e Suzel ballano alla festa (episodio ignorato dal libretto) corrisponde in realtà alla cittadina di Pirmasens, 30Km circa a ovest di Landau, sempre Palatinato. Nel romanzo troviamo anche la Lauter, fiumiciattolo che scorre nel Palatinato e poi traccia il confine fra lo stesso e l’Alsazia, sfociando nel Reno. Altri due luoghi direttamente connessi con Fritz sono Meisenthal (nell’opera Mésanges, il podere di Fritz, gestito dal padre di Suzel, Hans Christel) e Sonneberg (dove Fritz possiede dei vigneti - oggetto della scommessa con il rabbino David - nell’opera Clairefontaine): a questi nomi corrispondono effettivamente due località della Lorena che però sono (la prima sicuramente) incoerenti con il contesto (Fritz va e torna a piedi in giornata da casa sua a Meisenthal... che però disterebbe almeno 50Km!) Insomma, meglio non fare troppo caso ai riferimenti geografici, oppure pensare che gli autori abbiano consapevolmente voluto mischiare le carte per trasmetterci il concetto che tutta quell’area geografica (Alsazia-Lorena-SudPalatinato) avesse in fondo delle caratteristiche assai simili di civiltà, usi e costumi.

Ciò che infatti importa rilevare è come gli autori del romanzo siano francesi e per di più ardenti patrioti (scrissero diversi lavori di argomento nazionale) ma raccontino qui una storia edificante con personaggi tutti tedeschi, in un luogo storicamente più tedesco che francese. Mostrandoci con sapienti pennellate lo spaccato di una società persino fin troppo felice, tutta dedita al lavoro e al conseguente godimento (rendita compresa, vero Fritz?) delle risorse con esso create. E ciò si spiega con la collocazione temporale della scrittura del romanzo e della vicenda in esso narrata: il romanzo è scritto nel 1864 e narra di avvenimenti del 1847 (il periodo nel quale matura l’amore fra il ricco, nullafacente e impenitente scapolo 36enne Fritz Kobus e la timida, casta e romantica 17enne Suzel Christel, figlia di un suo mezzadro). Si tratta di un periodo storico in cui ancora in Francia si aveva dei tedeschi un’immagine positiva (la vecchia, buona Germania, amica della pace). Per chi, come gli autori del Fritz, proveniva proprio dalle zone di confine, prima del 1870 era quasi normale passare nel vicino Palatinato, venire a contatto con quelle popolazioni, apprezzando la quasi idilliaca convivenza fra etnie, lingue e religioni diverse: basti pensare che Fritz è luterano, Suzel anabattista e David (che fa di tutto pur di vederli sposati) è un rabbino! E che lo stesso David e il violinista gitano Iosef (personificazioni di due figure – ebrei e zingari – che diverranno tristemente famose per le persecuzioni di cui saranno vittime nella Germania del 20° secolo) in quella tollerante società sono invece accettati quasi con naturalezza...

Tutto cambiò dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, la dolorosissima perdita di Alsazia-Lorena e il conseguente insorgere in tutta la Francia, e in particolare nelle regioni annesse dai tedeschi, di sentimenti di revanche contro l’imperialismo d’oltrereno: da allora Erckmann diventò forsennatamente antiprussiano e scrisse solo opere intrise di fazioso patriottismo francese.

Orbene, a che pro tutto questo tormentone? Semplicemente per censurare la cervellotica impostazione del libretto di Daspuro, che colloca invece la vicenda in un generica Alsazia attorno al 1890 (periodo della composizione dell’opera) quando la regione Alsazia-Lorena era da quasi 20 anni annessa alla Germania (tornerà francese dopo la WW1, di nuovo tedesca nel 1940 e ancora francese a fine della WW2). Quindi: una collocazione geografica ma soprattutto temporale che fanno letteralmente a pugni con i contenuti idilliaci della vicenda, divenuti impensabili in quei luoghi e in quel periodo (i rappresentanti della regione al Reichstag erano tutti protestatari, cioè contrari all’annessione). Peraltro il libretto ignora quasi del tutto ogni aspetto politico, etnico, linguistico e religioso presente nel romanzo - salvo il riferimento al ruolo pastorale di David e alle attitudini gitane di Beppe - per insistere principalmente sulla banale componente rosa della vicenda. E a questo punto però l’ambientazione diventa del tutto gratuita, e Alsazia-1890 potrebbe tranquillamente mutare, invento a caso, in Pannonia-1760 o in Molise-1810 o nelle Fiandre-1920... e Fritz mutare in Frigyes, Chicco, Rik, ecco.
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Beh, dopo aver denigrato a sufficienza il libretto (ma mai come Verdi, che lo bollò seccamente come scemo!) veniamo alla musica, che dalla povertà del testo avrebbe dovuto programmaticamente trarre vantaggio! E bisogna dire che da subito lo trasse, se è vero come è vero che la prima di sabato 31 ottobre del 1891 al Costanzi fu un trionfo addirittura superiore a quello di Cavalleria (e più di un critico azzardò il giudizio secondo cui Fritz superava la stessa Cavalleria in contenuti estetici).

Nel 1892 l’opera approdò nel gotha di Vienna: martedi 26 gennaio fu data in tedesco, sotto la bacchetta del venerabile Hans Richter, alla Hofoper; poi in italiano, al Prater, diretta da Mascagni in persona, giovedi 15 settembre. L’ex sovrintendente della Hofoper ricordò il primo avvenimento come greve e il secondo come ispirato: confidò queste sensazioni dopo aver udito una delle prime, se non proprio la prima rappresentazione tedesca (lunedi 16 gennaio 1893, Amburgo) diretta da Gustav Mahler, il quale da parte sua si dichiarò letteralmente entusiasta del lavoro di Mascagni. Lusinghiero era stato a Vienna anche il commento del severo Eduard Hanslick, il di cui complimento per la verità potrebbe pure essere considerato, ehm, imbarazzante; e la cronaca ci dice che lo stesso Mahler, dopo Amburgo, mai più diresse il Fritz, ma solo Cavalleria, il che non esclude quindi un certo... raffreddamento nelle simpatie del boemo verso quell’opera. La cui lenta e progressiva diluizione di comparse nei teatri (alla Fenice la prima si ebbe... non prima del 1944 e la seconda e penultima 10 anni dopo; alla Scala nel dopoguerra abbiamo una sola presenza nella stagione 63-64!) testimonia dello scarso appeal di questa musica, di cui sopravvive, ma in esecuzioni concertistiche, il solo Intermezzo che apre il terz’atto.
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E di esecuzione in forma di concerto si potrebbe parlare a proposito di questa edizione del teatro veneziano, dove regìa, scene e costumi fanno a gara nel non dare valore aggiunto alla musica (così, paradossalmente, si accontenta Mascagni!) Simona Marchini (che con quest’opera ha una relazione particolare, nata a Livorno nel lontano 1991 e ivi rinfocolata nel 2002) pensa più che altro a mettere a loro agio i cantanti, facendoli cantare il più possibile al proscenio, ben rivolti verso il pubblico e bene in vista al direttore. Massimo Checchetto propone precisamente un quadretto (con tanto di corniciona) entro il quale si sviluppa la vicenda: nei due atti esterni siamo in casa di Fritz, un tavolo, uno scrittoio e sul fondo una grande vetrata da cui si scorge (atto primo) un campanile che spunta in mezzo agli alberi sotto un cielo sereno e (atto terzo, Alsazia addio!) un gran mare sotto un cielo plumbeo, che solo alla fine ovviamente si rischiara (hai capito che intuizione!?) Nell’atto centrale siamo ovviamente nella fattoria dove abita Suzel: una gradinata coperta da moquette verde sulla quale incombe di sghimbescio una piccola serra, poi un alberello con ciliegie mature, la pompa dell’acqua e un tavolo rustico. I costumi di Carlos Tieppo sono alsaziani quanto molisani o pannonici, ma comunque i/le sarti/e avran pure faticato a tagliarli e cucirli, quindi si meritano un bravi! Nulla di speciale nelle luci di Fabio Barettin.

Fabrizio Maria Carminati fa un buon lavoro di concertazione (aiutato, come detto, dalla regìa che gli mette i cantanti proprio... in faccia). Ma efficace è anche la sua resa delle mille sfumature (troppe, diceva un tal Giuseppe Verdi!) che costellano la partitura, con i continui cambi di tempo e le ardite (a volte cacofoniche) modulazioni. Ottima l’esecuzione dell’Orchestra, guidata da Robero Baraldi, salito alla fine sul palco a ricevere meritati applausi per la sua prestazione solistica del prim’atto.

Alessandro Scotto di Luzio mi è parso un buon Fritz, bella voce squillante ed efficacia nel rendere l’animo del protagonista, esteriormente spavaldo e cialtrone, ma sotto-sotto romantico e sensibile. Con lui ha fatto coppia una Carmela Remigio che ho trovato un filino al di sotto del suo normale standard: certo, la sua voce è per natura assai appropriata al personaggio, ma ieri ha avuto qualche calata di troppo e un portamento eccessivamente affettato.

Convincente la prestazione di Elia Fabbian (David): voce solida e penetrante, a supporto di una felice espressività. La controfigura (!) di Roberto Baraldi (Beppe) era Teresa Iervolino, che forse non ha cantato come il primo violino ha suonato, ecco... però si merita comunque ampia sufficienza. Hanno degnamente contribuito al successo William Corrò, Alessio Zanetti e Anna Bordignon. Bene al solito (la parte non è peraltro proibitiva) il coro di Claudio Marino Moretti.    

Alla fine un pubblico lungi dall’essere oceanico ha tributato a tutti applausi calorosi, che si sono aggiunti a quelli a scena aperta dopo le arie e l’Intermezzo.
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Ecco, salutato Fritz Kobus, adesso si profila all’orizzonte la minacciosa quanto pagliaccesca figura di un suo coetaneo del secolo precedente, il barone Ochs auf Lerchenau, non so se mi spiego!

1 commento:

Amfortas ha detto...

Si, evidentemente la bravissima Remigio è troppo aristocratica per questa parte. Credo che il temperamento, oggi, sia più da tragedienne che da contadina ruspante.
Ciao!