La Fenice ha ospitato nei giorni scorsi un amico piuttosto riservato (nel senso che
si fa vedere in giro abbastanza di rado): trattasi di tale Fritz, animato dalla musica di Pietro
Mascagni, che ieri si è accommiatato dopo la quinta ed ultima
rappresentazione.
Opera piuttosto
singolare: un verismo sui-generis,
perlomeno rispetto allo stereotipo classico che vorrebbe per questo genere di
opere soggetti sanguigni, se non addirittura crudi e truci. Qui siamo invece
alla normale (o quasi) vita di campagna, fra viti e ciliegi, dove due giovani
troveranno la felicità dopo qualche vicenda strappalacrime e grazie
all’intercessione di un rabbino. L’unico momento drammatico di tutta l’azione
(beh, azione si fa per dire...) si riduce alla fuga precipitosa di Fritz dalla
campagna verso la città, lasciando con un palmo di naso la poverina Suzel. Qualcuno
ha persino parlato di una specie di Elisir
d’amore (a ruoli principali invertiti) come dire: una pièce zuccherosa e un
po’ patetica, con finale degno di Harmony, ecco.
Le cronache ci
dicono che fosse proprio Mascagni, dopo il clamoroso successo di Cavalleria - che però più d’uno maliziosamente
attribuiva in parti uguali alla potenza del libretto e alla musica – a chiedere
al suo editore Sonzogno, impaziente di fare altri affari con una nuova opera
dell’astro nascente, un soggetto di basso profilo, in modo che, per contrasto,
fosse la sua ispirata musica a venire in primo piano. E così ecco che la scelta
cadde su L’ami Fritz, un romanzo
leggero (ma non banale, attenzione!) in 18 capitoli di Erckmann-Chatrian del 1864, poi ridotto per il teatro nel 1876, dalla quale riduzione il
famoso Angelo Zanardini aveva
ricavato un libretto, di cui Mascagni irrise a tal punto la poetica da
convincere Sonzogno a farne rimuovere le coglionerie
(sic) da tale P. Suardon (al secolo
il giornalista Nicola Daspuro, anzi D’Aspuro) e infine dai fidati Targioni-Tozzetti&Menasci, onde
ricavarne il comunque mediocre libretto dell’opera.
Qualche curiosità sulle differenze di scenario
fra il romanzo e il libretto. Il romanzo che indirettamente ispirò Mascagni fu
opera di due francesi originari della Lorena: Émile Erckmann, nato a Phalsbourg e Alexandre Chatrian, nato a Soldatenthal (dei due, Erckmann era in effetti l’autore dei
romanzi, mentre Chatrian si occupava più che altro della loro... commercializzazione
o riduzione per il teatro).
La collocazione geografica della vicenda è
abbastanza controversa: è luogo comune parlare di Alsazia (e così sarà infatti
nel libretto dell’opera) ma in realtà i nomi delle località citate nel romanzo sono
o immaginari o mascherati: la cittadina dove abita Fritz (non citata
nell’opera) è Hunebourg, che non esiste come tale (a quel nome corrisponde in
effetti un vecchio e isolato castello alsaziano, nei Vosgi) mentre si ritiene,
da indizi derivati dal contesto, che si tratti di Landau (o località in quei pressi, come Dahn) che è nel Palatinato meridionale, regione tedesca occupata da
Napoleone con tutti i territori tedeschi a sinistra del Reno nel 1797, ma poi
tornata tedesca nel 1815 (Congresso di Vienna) con la restituzione di Landau e
dintorni al Regno di Baviera. In effetti Fritz (siamo nel 1847) si vanta di essere bavarese e non vede di buon occhio gli
imperialisti prussiani che si aggirano dalle sue parti, mentre mostra più
simpatia per la Francia (e per i suoi vini, per la verità...)
Anche la descrizione di Bischem, dove Fritz e Suzel ballano alla
festa (episodio ignorato dal libretto) corrisponde in realtà alla cittadina di Pirmasens, 30Km circa a ovest di Landau, sempre Palatinato. Nel romanzo troviamo
anche la Lauter, fiumiciattolo che
scorre nel Palatinato e poi traccia il confine fra lo stesso e l’Alsazia,
sfociando nel Reno. Altri
due luoghi direttamente connessi con Fritz sono Meisenthal (nell’opera Mésanges, il podere di Fritz, gestito
dal padre di Suzel, Hans Christel) e Sonneberg (dove Fritz possiede dei vigneti - oggetto della scommessa con il rabbino
David - nell’opera Clairefontaine): a
questi nomi corrispondono effettivamente due località della Lorena che però
sono (la prima sicuramente) incoerenti con il contesto (Fritz va e torna a
piedi in giornata da casa sua a Meisenthal... che però disterebbe almeno 50Km!)
Insomma, meglio non fare troppo caso ai riferimenti geografici, oppure pensare
che gli autori abbiano consapevolmente voluto mischiare le carte per
trasmetterci il concetto che tutta quell’area geografica
(Alsazia-Lorena-SudPalatinato) avesse in fondo delle caratteristiche assai
simili di civiltà, usi e costumi.
Ciò che infatti importa
rilevare è come gli
autori del romanzo siano francesi e per di più ardenti patrioti (scrissero
diversi lavori di argomento nazionale)
ma raccontino qui una storia edificante con personaggi tutti tedeschi, in un
luogo storicamente più tedesco che francese. Mostrandoci con sapienti
pennellate lo spaccato di una società persino fin troppo felice, tutta dedita
al lavoro e al conseguente godimento (rendita
compresa, vero Fritz?) delle risorse con esso create. E ciò si spiega con la
collocazione temporale della scrittura del romanzo e della vicenda in esso
narrata: il romanzo è scritto nel 1864 e narra di avvenimenti del 1847 (il
periodo nel quale matura l’amore fra il ricco, nullafacente e impenitente
scapolo 36enne Fritz Kobus e la
timida, casta e romantica 17enne Suzel
Christel, figlia di un suo mezzadro). Si tratta di un periodo storico in cui
ancora in Francia si aveva dei tedeschi un’immagine positiva (la vecchia, buona
Germania, amica della pace). Per chi, come gli autori del Fritz, proveniva proprio
dalle zone di confine, prima del 1870 era quasi normale passare nel vicino
Palatinato, venire a contatto con quelle popolazioni, apprezzando la quasi
idilliaca convivenza fra etnie, lingue e religioni diverse: basti pensare che Fritz
è luterano, Suzel anabattista e David (che fa di tutto pur di vederli sposati) è
un rabbino! E che lo stesso David e il violinista gitano Iosef
(personificazioni di due figure – ebrei e zingari – che diverranno tristemente
famose per le persecuzioni di cui saranno vittime nella Germania del 20°
secolo) in quella tollerante società sono invece accettati quasi con
naturalezza...
Tutto cambiò dopo la sconfitta di Napoleone
III a Sedan, la dolorosissima perdita di Alsazia-Lorena e il conseguente insorgere
in tutta la Francia, e in particolare nelle regioni annesse dai tedeschi, di
sentimenti di revanche contro
l’imperialismo d’oltrereno: da allora Erckmann
diventò forsennatamente antiprussiano e scrisse solo opere intrise di fazioso patriottismo
francese.
Orbene, a che pro tutto questo tormentone? Semplicemente
per censurare la cervellotica impostazione del libretto di Daspuro, che colloca
invece la vicenda in un generica Alsazia attorno al 1890 (periodo della
composizione dell’opera) quando la regione Alsazia-Lorena era da quasi 20 anni
annessa alla Germania (tornerà francese dopo la WW1, di nuovo tedesca nel 1940
e ancora francese a fine della WW2). Quindi: una collocazione geografica ma
soprattutto temporale che fanno letteralmente a pugni con i contenuti idilliaci
della vicenda, divenuti impensabili in quei luoghi e in quel periodo (i rappresentanti della
regione al Reichstag erano tutti protestatari, cioè contrari all’annessione). Peraltro
il libretto ignora quasi del tutto ogni aspetto politico, etnico, linguistico e
religioso presente nel romanzo - salvo il riferimento al ruolo pastorale di David e alle attitudini
gitane di Beppe - per insistere principalmente sulla banale componente rosa della vicenda. E a questo punto
però l’ambientazione diventa del tutto gratuita, e Alsazia-1890 potrebbe
tranquillamente mutare, invento a caso, in Pannonia-1760 o in Molise-1810 o nelle
Fiandre-1920... e Fritz mutare in Frigyes, Chicco, Rik, ecco.
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Beh, dopo aver denigrato a sufficienza il
libretto (ma mai come Verdi, che lo bollò seccamente come scemo!) veniamo alla musica, che dalla povertà del testo avrebbe
dovuto programmaticamente trarre vantaggio! E bisogna dire che da subito lo
trasse, se è vero come è vero che la prima
di sabato 31 ottobre del 1891 al Costanzi fu un trionfo addirittura
superiore a quello di Cavalleria (e più di un critico azzardò il giudizio
secondo cui Fritz superava la stessa Cavalleria in contenuti estetici).
Nel 1892 l’opera approdò nel gotha di Vienna: martedi 26 gennaio fu
data in tedesco, sotto la bacchetta del venerabile Hans Richter, alla Hofoper; poi in italiano, al Prater, diretta da
Mascagni in persona, giovedi 15 settembre. L’ex sovrintendente della Hofoper
ricordò il primo avvenimento come greve
e il secondo come ispirato: confidò
queste sensazioni dopo aver udito una delle prime, se non proprio la prima
rappresentazione tedesca (lunedi 16 gennaio 1893, Amburgo) diretta da Gustav
Mahler, il quale da parte sua si dichiarò letteralmente entusiasta del lavoro
di Mascagni. Lusinghiero era stato a Vienna anche il commento del severo Eduard Hanslick, il di cui complimento per
la verità potrebbe pure essere considerato, ehm, imbarazzante; e la cronaca ci
dice che lo stesso Mahler, dopo Amburgo, mai più diresse il Fritz, ma solo
Cavalleria, il che non esclude quindi un certo... raffreddamento nelle simpatie
del boemo verso quell’opera. La cui lenta e progressiva diluizione di comparse
nei teatri (alla Fenice la prima si
ebbe... non prima del 1944 e la seconda e penultima 10 anni dopo; alla Scala
nel dopoguerra abbiamo una sola presenza nella stagione 63-64!) testimonia dello
scarso appeal di questa musica, di cui
sopravvive, ma in esecuzioni concertistiche, il solo Intermezzo che apre il terz’atto.
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E di esecuzione in forma di concerto si
potrebbe parlare a proposito di questa edizione del teatro veneziano, dove
regìa, scene e costumi fanno a gara nel non dare valore aggiunto alla musica (così,
paradossalmente, si accontenta Mascagni!) Simona
Marchini (che con quest’opera ha una relazione
particolare, nata a Livorno nel lontano 1991 e ivi rinfocolata nel 2002) pensa
più che altro a mettere a loro agio i cantanti, facendoli cantare il più
possibile al proscenio, ben rivolti verso il pubblico e bene in vista al
direttore. Massimo Checchetto propone
precisamente un quadretto (con tanto
di corniciona) entro il quale si sviluppa la vicenda: nei due atti esterni
siamo in casa di Fritz, un tavolo, uno scrittoio e sul fondo una grande vetrata
da cui si scorge (atto primo) un campanile che spunta in mezzo agli alberi sotto
un cielo sereno e (atto terzo, Alsazia addio!) un gran mare sotto un cielo
plumbeo, che solo alla fine ovviamente si rischiara (hai capito che intuizione!?)
Nell’atto centrale siamo ovviamente nella fattoria dove abita Suzel: una gradinata
coperta da moquette verde sulla quale incombe di sghimbescio una piccola serra,
poi un alberello con ciliegie mature, la pompa dell’acqua e un tavolo rustico.
I costumi di Carlos Tieppo sono
alsaziani quanto molisani o pannonici, ma comunque i/le sarti/e avran pure faticato
a tagliarli e cucirli, quindi si meritano un bravi! Nulla di speciale nelle luci di Fabio Barettin.
Fabrizio
Maria Carminati fa un
buon lavoro di concertazione (aiutato, come detto, dalla regìa che gli mette i
cantanti proprio... in faccia). Ma efficace è anche la sua resa delle mille
sfumature (troppe, diceva un tal Giuseppe Verdi!) che costellano la partitura,
con i continui cambi di tempo e le ardite (a volte cacofoniche) modulazioni. Ottima
l’esecuzione dell’Orchestra, guidata da Robero
Baraldi, salito alla fine sul palco a ricevere meritati applausi per la sua
prestazione solistica del prim’atto.
Alessandro
Scotto di Luzio mi è
parso un buon Fritz, bella voce squillante ed efficacia nel rendere l’animo del
protagonista, esteriormente spavaldo e cialtrone, ma sotto-sotto romantico e
sensibile. Con lui ha fatto coppia una Carmela
Remigio che ho trovato un filino al di sotto del suo normale standard: certo, la sua voce è per natura
assai appropriata al personaggio, ma ieri ha avuto qualche calata di troppo e un portamento eccessivamente affettato.
Convincente la prestazione di Elia Fabbian (David): voce solida e
penetrante, a supporto di una felice espressività. La controfigura (!) di
Roberto Baraldi (Beppe) era Teresa
Iervolino, che forse non ha cantato come il primo violino ha suonato, ecco...
però si merita comunque ampia sufficienza. Hanno degnamente contribuito al
successo William Corrò, Alessio Zanetti e Anna Bordignon. Bene al solito (la parte non è peraltro proibitiva)
il coro di Claudio Marino Moretti.
Alla fine un pubblico lungi dall’essere
oceanico ha tributato a tutti applausi calorosi, che si sono aggiunti a quelli
a scena aperta dopo le arie e l’Intermezzo.
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Ecco, salutato Fritz Kobus, adesso si profila all’orizzonte la minacciosa quanto
pagliaccesca figura di un suo coetaneo del secolo precedente, il barone Ochs auf
Lerchenau, non so se mi spiego!
1 commento:
Si, evidentemente la bravissima Remigio è troppo aristocratica per questa parte. Credo che il temperamento, oggi, sia più da tragedienne che da contadina ruspante.
Ciao!
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