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27 giugno, 2017

Il ritorno in Scala del venerabile Bernard

 

Dopo 16 mesi dalla sua prima visita in assoluto ha fatto ritorno al Piermarini un grande vecchio (88 suonati!): Bernard Haitink. Per guidare strumenti e voci scaligere in un altro monumento della nostra civiltà musicale: dopo quel Requiem brahmsiano, è stata la volta della colossale Missa beethoveniana. Eccone una sua abbastanza recente interpretazione con i radiofonici-bavaresi, della quale è superstite qui il basso-baritono Hanno Müller-Brachmann. Con lui il tenore Peter Sonn, recente apprezzato David nei Meistersinger e le due voci femminili di Camilla Tilling e Gerhild Romberger.

Haitink ha una lunga consuetudine con la Missa: solo sul tubo lo si può ascoltare (sempre con i bavaresi) nel 2003 e prima ancora (1997) con la BBC ai PROMS (per inciso, la Missa è ospite assai frequente in quella kermesse estiva, che evidentemente non è poi così... leggera come si potrebbe credere). 

Teatro abbastanza affollato per questa terza e ultima tornata del concerto: alla fine del quale ci sono stati grandi applausi per tutti, ma soprattutto per lui, questo vecchietto arzillo e schivo che in 90 minuti avrà usato il trespolo collocato su podio sì e no per 90 secondi, per il resto dirigendo ben ritto sulle gambe e con la proverbiale sobrietà di gesto.

Sui suoi tempi (sempre assai... sostenuti) si potrebbe discutere, come sul livello (buono ma non eccelso) delle voci soliste (splendido invero il coro di Casoni) ma il piacere che si prova ascoltando queste note fa sciogliere ogni appunto critico. L’emozione al Benedictus (col magico violino di Francesco Manara) e al conclusivo Agnus Dei è sempre indicibile: una decina di secondi di doveroso silenzio assoluto ha preceduto l’applauso liberatorio. 

Ripetute chiamate per i solisti e per Haitink, che uscendo sempre si fermava davanti ai tre gradini che portano fuori dal palco: l’ultima volta è stato Pereira a rispingerlo letteralmente verso il podio, per prendersi una strameritata ovazione, a questa Missa e ad una carriera gloriosa quanto sobriamente vissuta. Chissà se anche per lui in Scala non ci sarà due senza tre!

24 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 25


L’ultimo concerto pre-estivo della stagione principale 2017 (che proseguirà da settembre a dicembre con i restanti 9 concerti, identificandosi con la prima parte della 17-18) è affidato alla bacchetta del redivivo Gaetano D’Espinosa, oltre che alla... tastiera di un altro tornante, il bravo Giuseppe Albanese.

Programma ultra-tradizionale, sia per la struttura (Ouverture-Concerto-Sinfonia) che per gli autori, che più classici di così si muore: Beethoven e Mozart.

Apre il concerto la Leonore III, un’autentica sintesi musicale del Fidelio, del quale condensa i principali motivi (dettagliati qui a confronto con la sorellina minore Leonore II). Un bel modo per scaldare i motori...
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Ecco poi il Secondo concerto beethoveniano (nell’aprile 2014 la coppia D’Espinosa-Albanese interpretò qui in Auditorium il primo). Il sempre più convincente 38enne reggino (che mai abbandona le sue ormai proverbiali scarpe bicolori) ne dà un’interpretazione di gran classe, impreziosita dall’impeccabile cadenza dell’Allegro, dalle sognanti atmosfere dell’Adagio e dal sempre sorprendente quanto azzeccato rallentando sull’inopinato passaggio in SOL maggiore verso la fine del Rondo.

Gran successo per lui, che così si accommiata con questo funambolico Weber, dove nella foga ha modo di mettere quasi fuori uso un pedale dello strumento!
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Si chiude con la somma Jupiter del Teofilo. D’Espinosa ce la vuol forse raccontare quasi come dovettero sentirla gli ascoltatori di fine ‘700: organico contenuto, archi esitanti e leziosi (vedi le battute 2-4 e 6-8 dell’Allegro vivace); quasi tutti i ritornelli (unico escluso il secondo del finale). Una lettura accattivante, accolta con entusiasmo dal (non proprio oceanico) pubblico dell’Auditorium.
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Adesso, sospesa la stagione principale, arriva subito quella estiva, dove la classica sarà seguita dal jazz. E così, per presentarsi al pubblico de laVerdi nella sua fresca veste di Direttore Musicale, Claus Peter Flor ha scelto un programmino proprio da nulla, roba leggera adatta alle calde serate di luglio: l’intero ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven

22 giugno, 2017

Il Ratto-vintage alla Scala


Ieri sera terza delle sei rappresentazioni del mozartiano Ratto nell’ormai 52enne (45enne per la Scala) allestimento della premiata coppia Giorgio Strehler – Luciano Damiani, che aveva debuttato al Piermarini il 15 maggio 1972: allestimento già una prima volta ripreso dalla stessa coppia nel febbraio 1978 e successivamente (giugno 1994) da quel Mattia Testi che lo cura ancor oggi.

E davvero si tratta di un’interpretazione geniale, di assoluta modernità. E tutto senza ricorrere – come accade sempre più spesso - a velleitari quanto strampalati riferimenti all’attualità e/o alla politica. (Per dire: tirare in ballo l’ISIS per rappresentare quella specie di pagliaccio che è Osmin significa recare offesa al genio di Mozart, all’intelligenza del pubblico e alle vittime dei macellai contemporanei.)

Spettacolo che evoca con grande efficacia e gradevolezza proprio l’ambiente delle prime rappresentazoni dell’opera, in quel Burgtheater, direttamente collegato alla residenza dei sovrani, nel quale Giuseppe II assistette alla prima di martedi 16 luglio, 1782. Spettacolo che riproduce lo spirito più autentico di quel genere (Singspiel) che mescolava i tratti dell’operetta buffa a quelli della commedia dell’arte: strepitose in proposito le trovate di Strehler che animano le gag di cui sono protagonisti il farsesco Osmin, il furbastro Pedrillo e, nel terz’atto, il servo muto (che Marco Merlini ha nuovamente re-impersonato dopo l’esordio del lontano 1994!)

Sempre efficace il gioco di luci (di Marco Filibeck) che illuminano i protagonisti durante i parlati e gli ensemble, ma lasciano in penombra il proscenio, dove i cantanti si misurano con le arie. Fa eccezione la spettacolare esecuzione di Martern aller Arten, che avviene a teatro in piena luce e con la cantante sola al proscenio: si tratta invero di una grande aria da concerto, con i 4 strumenti obbligati (flauto, oboe, violino e cello) che merita il privilegio di essere eseguita fuori dal contesto dell’operetta.
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E sul fronte dei suoni, l’antica consuetudine del venerabile Zubin Mehta con quest’opera (c’era proprio lui sul podio di Salzburg in quel lontano 1965!)


è di per sè una garanzia, che direi proprio abbia funzionato anche in questa occasione. Orchestra a ranghi... mozartiani (40 esecutori o giù di lì) con piccola batteria turca (triangolo, piattini e tamburo); direzione sobria, misurata e rispettosa dei minimi dettagli; concertazione impeccabile e sempre attenta a non coprire le voci con le turcherie che il Teofilo ha disseminato in partitura. 

Voci che nella media (del pollo) raggiungono una striminzita sufficienza. Sopra la quale mi sento di collocare la Sabine Devieilhe: voce sottile ma penetrante, che ben si adatta al personaggio di quella specie di suffragetta che risponde al nome di Blonde. Idem per il Pedrillo di Maximilian Schmitt, voce adeguata al ruolo, timbro squillante e buona intonazione.

Al centro della... classifica metterei la Lenneke Ruiten, che ha bene impressionato per la qualità del timbro e per l’agilità dei virtuosismi, sovracuti (anticipanti Astrifiammante) inclusi. Se avesse anche la (cosiddetta) ottava bassa un filino più robusta e udibile, sarebbe una Konstanze più credibile ancora... ma tant’è.

Sotto la... linea di galleggiamento il Belmonte di Mauro Peter, che stenta a mettere a profitto una voce pur dotata naturalmente: piuttosto piatto il suo approccio, privo di slanci che si pretenderebbero dal personaggio.

Nella... fossa delle Marianne il povero Tobias Kehrer (in tedesco maccheronico: scopatore?) Voce piccola, poco penetrante e addirittura inudibile nei gravi (certo, Mozart per Osmin ha insistito assai sulla parte bassa del rigo di... basso); si salva solo la sua macchietta impreziosita da Strehler. Insomma, questo precursore del Monostatos è proprio una delusione.    

Onesto il coretto dei Giannizzeri di Casoni.

Come detto, Marco Merlini torna dopo 23 anni a divertirci nella scenetta del terz’atto, mentre Cornelius Obonya impersona efficacemente il parlante Selim, una specie di Atatürk ante-litteram.
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Pubblico scarseggiante (ampi vuoti in platea e palchi) ma prodigo di applausi, a scena aperta dopo i numeri, e alla fine, con ripetute chiamate. Li merita ovviamente e soprattutto l’allestimento!

16 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 24


Programma dalla struttura super-tradizionale quello diretto questa settimana da Oleg Caetani: un’ouverture, un poema sinfonico e una grande sinfonia.

Protagonista della prima parte la figura di Don Giovanni, che ritroviamo nella celebre Ouvertura dell’opera mozartiana e subito dopo nel Don Juan di Richard Strauss. Devo dire che Caetani non mi ha completamente convinto: già l’attacco dell’Ouvertura ha mancato di mettere nella dovuta evidenza quei due autentici abissi infernali evocati dalle minime di viole, archi bassi e fagotti (battute 2 e 4) che si estendono oltre le semiminime del resto degli strumenti (è una perla del Teofilo, che anticipa qui lo spaventevole ingresso della Statua nella scena XXV dell’opera). Poi le cose sono andate discretamente bene.

Anche il Tondichtung ha avuto un inizio piuttosto travagliato: gran fracasso generale dal quale faticavano ad emergere le linee melodiche. Poi le cose sono migliorate assai, grazie ai passaggi piu solistici: l’oboe della love-scene in SOL maggiore e i quattro corni all’unisono del successivo tema eroico. Curioso (e anche... preoccupante) che Caetani dirigesse leggendo a fatica una Taschenpartitur!  

Molto meglio la Quinta di Ciajkovski, che il maestro russo-elvetico-italiano conosce a memoria e che l’Orchestra ormai presenta quasi regolarmente in ogni stagione (ultimamente diretta da Xian, Axelrod e Bignamini). Emozionante come sempre l’Andante cantabile, strepitosi gli ottoni nel finale, dove il fato, che si era fin lì manifestato come destino-cinico-e-baro, si trasfigura in prospettiva addirittura trionfale. 

Trionfo che il pubblico assai folto non ha mancato di tributare a tutti con applausi e ovazioni.

09 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 23


Programma USA con intermezzo svedese(-western) per il ritorno di Jader Bignamini sul podio dell’Auditorium. Il Direttore residente è reduce guarda caso da un lungo giro negli States e quindi questo programma gli cade proprio a... fagiolo.

Si apre con Lenny Bernstein e l’Ouverture del suo Candide, meno di 5 minuti di musica inebriante, che sapientemente assembla alcuni dei motivi caratteristici dell’operetta del 1957. È il classico brano fatto per mettere il pubblico a suo agio e predisporlo a gustarsi il resto del programma: missione pienamente compiuta da Bignamini e dai ragazzi.
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Ora arriva Giuliano Rizzotto, storico primo trombone de laVerdi, per misurarsi con The return of Kit Bones, concerto sceneggiato per trombone e orchestra dello svedese Fredrik Högberg. Esilaranti i risultati della ricerca fatta con le chiavi “kit bones rizzotto” e il motore google: diverse risposte propongono ossibuchi con risotto (!!!)

Composto e presentato per la prima volta nel 2001, è il settimo di una ventina di pezzi di vario genere, ambientati in un immaginario far-west dove fucili, pistole e carabine sono rimpiazzati da trombe, tromboni, tube e bombardini, ed hanno come protagonista il pistolero trombonero Kit Bones. Ecco qui il sesto episodio, il cortometraggio Brass-bones, chiaramente ispirato a Sergio Leone e interpretato nella parte del protagonista da Christian Lindberg, trombonista e compositore svedese.

Il concerto (qui un succinto trailer, sempre con Lindberg che interpreta entrambi i ruoli previsti dal testo) si articola nei classici tre movimenti, corrispondenti a tre diverse scene di film western. 
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Nella prima parte abbiamo una specie di ouverture bipartita, con una prima sezione rapida e (1’32”) una seconda più lenta e contemplativa. A 2’19” un narratore entra e recita una prima strofa della ballata di Kit, poi (2’34”) canta le due strofe (libera traduzione mia, un po’ diversa da quella ascoltata nell’occasione) che si erano udite anche a 12’25” nel citato filmetto, dove viene presentato il protagonista del concerto:

Librarian
This is the story of Kit Bones.
He ruled the west with a slide trombone.
All alone without a home,
He played his plated bone.

He never missed a brassbone fight.
Fastest slide in the west alright.
Blowed them down, standing alone,
with his slide trombone...

Kit Bones with his slide trombone...
Bibliotecario
Questa è la storia di Kit Bones.
Che dominava il west con un trombone.
Tutto solo senza magione,
lui suonava il suo laccato trombone.

Mai mancò di trombonate una lite.
Il più veloce tiro nel west, che dite!
Li soffiava giù, come un pallone,
col tiro del suo trombone...

Kit Bones col tiro del suo trombone...

Ecco che (3’11”) Kit Bones arriva in scena e subito spara ad un trombettista: ne nasce un duello di... ottoni, con interventi di Kit e versacci assortiti:

Kit
Is that a dagger or what?
(...)
(...)
(...)
You’ve got to ask yourself:
Do I feel lucky today?
Kit
É un coltello quello, o cos’altro?
(...)
(...)
(...)
Forse sarà meglio che ti domandi:
sento che mi andrà bene oggi?

A 4’41” il duello prosegue fino alla vittoria del nostro eroe. Del quale ora il narratore (6’15”) ci descrive le qualità amatorie (beh... per la verità le sue sembrerebbero essere, più che delle trombate, delle trombonate!):

Librarian
Quite attractive to the girls,
Always got them a lot of pearls.
Played them tunes they’ve heard before,
They always wanted more.

But when it came to intimacy,
Kit was not what they believed.
Got undressed, then he caressed
With his slide trombone.

Kit Bones with his slide trombone...
Bibliotecario
Molto attraente per le damigelle,
le copriva sempre di mucchi di perle.
Suonava melodie sentite alla tivù,
e loro ne chiedevano ancor di più.  

Ma quando si finiva a letto,
Kit non era come avevan detto.
Spogliatosi, accarezzava le bellone
con il tiro del suo trombone.

Kit Bones col tiro del suo trombone...

A questo punto (6’49”) il primo trombone dell’orchestra si alza e prende di mira il solista. Ne nasce un nuovo duello nel quale il povero Kit (7’29”) rimane seriamente ferito.  

Seconda parte (movimento lento, secondo tradizione classica): Kit Bones è stramazzato al suolo; cerca lentamente di risollevarsi, ma il dolore è troppo forte. Annaspa sul pavimento, in cerca del bocchino del suo trombone. Tutto sembra perduto, pare quasi di assistere al suo funerale, ma alla fine (1’57”) Kit ritrova il bocchino e ricomincia a suonare, rizzandosi in ginocchio, una lunga e triste melopea, che si chiude perdendosi in lontananza.

Terza parte: lentamente la ferita si rimargina e Kit Bones (48”) ritrova l’abituale baldanza, esercitandosi nientemeno che in vista di un’autentica carneficina: così (3’30”) comincia a sparare in tutte le direzioni, prendendo di mira un orchestrale dopo l’altro. Alla fine (4’01”) colpisce anche il Direttore, che si accascia al suolo:

Kit
Oh no, I shot the maestro...
Talk to me, maestro.
Are you OK, maestro?

Maestro
Aahh...

Kit
Quickly! Hand me the stick
And I’ll finish the piece for you!
Kit
Oh no, ho sparato al maestro...
Parlami, maestro.
È tutto OK, maestro?

Maestro
Aahh...

Kit
Presto! Dammi la bacchetta
e finirò il pezzo al tuo posto!

E così è lui (4’26”) a chiudere il concerto installandosi sul podio!
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Trattandosi della prima italiana di quest’opera bizzarra, per l’occasione l’Autore è presente in sala (e nel foyer a firmare i suoi CD) e al termine sale sul palco a condividere con tutti il grande successo della sua invenzione.

Rizzotto interpreta da par suo i ruoli del narratore e di Kit, abbigliato come un moderno cow-boy (il suo fisico imponente è l’ideale per questo tipo di personaggio). Alex Ghidotti e Giacomo Ceresani (rispettivamente prima tromba e trombone dell’orchestra) ricoprono i ruoli dei due comprimari che duellano a trombettate-trombonate con Kit, sistemati al proscenio sulla destra e muniti di cappellacci western, mentre Rizzotto entra da sinistra e suona davanti al podio (nel movimento centrale si sposta dietro i violini). Bignamini nel movimento finale si cala in testa un gran cappellaccio bianco e cade eroicamente sotto i colpi del trombone di Rizzotto, che lo trascina fuori, aiutato da uno degli addetti al palco.

Esecuzione davvero strepitosa di tutti, e così Rizzotto ricambia le ovazioni del pubblico con una languida My funny Valentine, accompagnato da pianoforte, contrabbasso e batteria.

Insomma, un successone che dà lustro a laVerdi, confermandone la vitalità e la propensione al moderno e all’innovazione, innestata sulla ormai solidissima base del repertorio di tradizione.
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La seconda parte del concerto è monopolizzata da George Gershwin, con due composizioni scritte a cavallo del 1930 e ispirate in entrambi i casi ad esperienze di viaggio: si tratta della Cuban Overture (1932) composta dopo una gita ai caraibi e del celeberrimo An American in Paris, che 4 anni prima aveva tradotto in note le sensazioni provate dall’Autore a contatto con la Ville lumièrè.

L’Overture è un brano tripartito, con le due sezioni esterne in tempo vivace che presentano i due temi brillanti, di origine cubana; e quella interna in tempo sostenuto, che ospita un motivo più riflessivo e malinconico. Le percussioni vi hanno un ruolo assai prominente e a loro è riservata (contrariamentee allo standard) anche una posizione molto avanzata nell’orchestra. Seguiamola come interpretata da Lorin Maazel.
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Dopo 5 battute di introduzione di fiati e percussioni ecco violini, oboi e corno inglese esporre (14”) il motivo della famosa canzone cubana Echale Salsita. Contrappuntato da corni e viole con un altro motivo, che si scoprirà essere l’incipit del secondo tema.

Dopo che il motivo è stato reiterato, ecco (39”) farsi largo un accompagnamento leggermente sincopato che prelude all’ingresso (44”) nei corni, corno inglese e violini, del secondo tema, che nel suo sviluppo (dopo l’incipit già udito prima) richiama - sia pur vagamente (51”) - la famosissima Paloma (dello spagnolo Iradier, ma chiaramente ispirata a Cuba). 

Dopo che il tema è stato reiterato dall’orchestra, ecco comparire (1’58”) un suo controsoggetto più languido, più avanti (2’34”) contrappuntato dal ritorno del primo tema, che poi si ripresenta (3’09”) a piena orchestra, seguito (3’20”) dal secondo.

A 3’43” è il primo tema a cadenzare, sfumando lentamente e, dopo una scarica di bongos, è il clarinetto (3’52”) che introduce con un breve recitativo la seconda sezione (sostenuto).

Oboe, corno inglese e flauto riprendono il precedente recitativo del clarinetto introducendo un tema (4’44”) esposto dai violini, che ricorda, pur da molto lontano, il famoso motivo del blues dall’Americano a Parigi. La cosa si ripete a 5’28”. Poi, a 6’05” i violini entrano con un motivo che ricorda – anche qui assai di lontano – la jota finale dal Sombrero di DeFalla.

Quest’atmosfera piuttosto dimessa si trascina fino a 7’45”, dove abbiamo una stentorea perorazione dell’orchestra, che conduce (8’01”) all’ultima parte dell’Overture (Allegretto ritmato) dove ritroviamo (8’17”) il primo tema nella tromba e subito dopo (8’23”) il secondo negli strumentini. I due temi principali sono ora protagonisti del convulso finale, che si chiude (9’53”) con 18 battute di Coda, dove l’orchestra sembra caricarsi e prendere la rincorsa per il balzo trionfale.
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Bignamini (che ha disposto le percussioni caraibiche in alto a destra) affronta il brano col giusto cipiglio, mettendone in risalto tutta la freschezza e la latinità. Cura che poi mette anche nell’Americano, trascinando il pubblico all’entusiasmo. Ricambiato, per omaggiare gli archi dopo una serata quasi monopolizzata da fiati e percussioni, con un Gershwin poco più che studente!

01 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 22


Ancora Xian e ancora Mahler per il concerto settimanale de laVerdi. Chissà se c’entra qualcosa l’inopinato cambiamento di date (mercoledi-giovedi in luogo di giovedi-domenica) fatto sta che l’Auditorium era desolatamente semideserto... E del resto già il programma non è certo di quelli da attirare folle assatanate, proponendo l’incompresa del boemo, la sua Settima. Perchè incompresa? Ce lo spiega assai bene Ugo Duse, nel suo fondamentale testo su Mahler del 1973 (purtroppo non più ristampato):

Il giudizio di Duse, che inquadra la sinfonia nella prospettiva di un riscatto dalle deplorevoli deviazioni soggettivistiche della Sesta, si può leggere in una mia nota, redatta in occasione della precedente esecuzione in Auditorium e corredata di una succinta guida all’ascolto. Invece, una mia interpretazione in chiave semiseria della Settima all’interno del corpus sinfonico mahleriano si può trovare in questo commento ad una proposta della Scala con Chailly
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Che dire di ieri sera? Mah, di fracasso se n’è sentito abbastanza, solo che (mi) è parso un filino fine a se stesso, ecco. Così i due movimenti esterni avranno pure eccitato gli animi (infatti alla fine i pochi intimi hanno applaudito anche per gli assenti) ma questo non mi sembra basti a dare all’esecuzione un voto più alto di un 6--. E per fortuna le due serenate e il walzeraccio centrale sono stati almeno su un livello dignitoso.

Insomma, una serata che mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca.