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01 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 22

Il 22° Concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano – che vede il ritorno sul podio di Maxime Pascal - è interamente occupato da un’opera di rarissima esecuzione, che si ripresenta qui in Auditorium (per la seconda volta) dopo esattamente 13 anni: si tratta di Turangalìla di Olivier Messiaen. [La pronuncia corretta prevede l’accento sulla ì, essendo il nome formato dall’unione di due parole sanscrite: Turanga-Lila.]

Opera che definire bizzarra è ancora poco: è infatti chiamata Sinfonia (in 10 movimenti!) ma potrebbe benissimo essere un Poema Sinfonico o una (post-)moderna e ipertrofica Suite, oppure un Doppio Concerto per due tastiere (pianoforte e onde Martenot) o un Divertimento oppure una Messa sacro-profana o anche (perché no…) una simpatica quanto irriverente Passacaglia Accozzaglia! Insomma, un bell’esemplare di UMO (Unidentified Musical Object). In proposito, ecco come la definiva – entusiasticamente quanto causticamente, in un fulminante, enciclopedico pamphlet del 2001 – l’indimenticabile Alberto Arbasino:

È una smisurata supersinfonia per moglie, cognata, elettrodomestici "anni Quaranta", strumenti etnici, e l'intero cosmo. Irresistibile.

Ma Messiaen era – dobbiamo credergli? - del tutto serio quando la compose (nel 1946-48, su commissione della BSO di Koussevitzky) e quando la spiegava al popolo con dovizia di particolari scrivendo, in un programma etico, di scontro barbarie-amore e di trionfo della gioia, in mezzo ad una natura popolata da uccelletti di ogni specie; e lasciandoci una sua dettagliata analisi musicale, dove elencava 4 temi ricorrenti nell’opera, oltre a quelli specificamente caratteristici di ciascuno dei 10 movimenti. [Qui un mio personale collage di queste sue note ricavato a suo tempo da un video online oggi purtroppo non più accessibile.]

Beh, conoscere in dettaglio e proprio dalle sue stesse parole ciò che l’Autore ha concepito è già un bel passo avanti verso la comprensione della sua opera… dopodichè sta alla sensibilità di ciascuno di noi di darne un giudizio estetico. Oggi la Sinfonia gode di alta reputazione un po’ ovunque, ma soprattutto in Francia (per ovvie ragioni… sovraniste) e in USA (per via del battesimo colà celebratosi). Da noi?

Ricordo come fosse ieri come, in quell’ormai lontano 2010, ad ogni chiusura di movimento ci fosse qualcuno che se ne andava tomotomo-cacchiocacchio e come, alla conclusione super-enfatica del n°5 (metà esatta del cammino) fosse scoppiato un grandioso e liberatorio applauso, accompagnato da cappotti e pellicciotti da indossare e permesso, scusi, di molti frettolosi di andarsene a casa o in pizzeria, immaginando finito il concerto (in effetti Lenny Bernstein, che aveva diretto la prima, normalmente a quel punto faceva un intervallo in piena regola). Insomma, non proprio quello che si definirebbe un trionfo…

Ecco, ieri le cose sono andate decisamente meglio: nessuna evasione prematura, né fuggi-fuggi alla fine, ma rigoroso silenzio in tutti i 9 intervalli fra i movimenti e alla fine applausi scroscianti per tutti: il giovane ma autorevole Maxime Pascal, il bravissimo Luca Buratto al pianoforte e la specialista alle onde Cécile Lartigau, a cui vanno doverosamente aggiunti i nomi di Vittorio Rabagliati e Carlotta Lusa alle altre due tastiere.

Ma tutta la compagine, ieri davvero ipertrofica, con i 68 (!!!) archi prescritti da Messiaen (neanche Strauss…) ha mostrato di che pasta è fatta: solo aver il coraggio di affrontare e poi riuscire a domare una partitura simile è un titolo di merito sul quale non si può discutere.

Quanto al giudizio sull’opera, ciascuno darà il suo. Personalmente la trovo interessante, non certo un capolavoro. Che tuttavia ogni 13 anni (se eseguita come ieri) ha comunque il diritto di farsi risentire.

09 aprile, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 24

L’appuntamento di questa settimana vede sul podio dell’Auditorium il 37enne Maxime Pascal, tornato qui dopo due anni per dirigere un concerto di musiche del ’900 e dello... ‘000 (che gli vanno assai a genio, a giudicare dal suo repertorio).  Auditorium tornato allo scarso affollamento: non si può suonare ogni settimana la coppia Mozart-Beethoven... ma certo il programma odierno è, per così dire, per stomaci forti, ecco.

È Silvia Colasanti ad aprire la serata con un suo brano orchestrale del 2007, Cede pietati, dolor - Le anime di Medea, un titolo quanto mai attinente alla tragica attualità. [A proposito, al nostro super-Mario è scappato il classico lapsus freudiano draghiano, quando ci ha chiesto di scegliere fra la pace e il condizionatore acceso... mentre anche i sassi capiscono che - caso mai - è la guerra che rischia di spegnerlo, il nostro condizionatore, e insieme a lui il 40% della nostra economia, fabbricanti d’armi esclusi.]

Il brano, come lascia intuire il titolo, è ispirato da un verso della Medea di Seneca, parole pronunciate da lei pochi attimi prima di trucidare i figli: un ultimo spiraglio di umanità, prima dell’efferato delitto:  

Perché esiti, anima mia? Queste lacrime, perché mi bagnano il volto? Di qua l'odio, di là l'amore, mi strappano, mi dividono, perché? Opposte correnti mi rapiscono, nella mia incertezza. Rabbiosi venti si fanno guerra spietata, flutto contro flutto si scatena, il mare ribolle e non ha sbocco: è così, proprio così, che il mio cuore è sconvolto. L'ira dà il bando alla pietà, la pietà all'ira. Rancore, cedi alla pietà.

I 12 minuti del brano evocano efficacemente lo stato d’animo disturbato di Medea: ondate di un mare in tempesta si abbattono sugli scogli, deboli spiragli di luce e di calma vengono regolarmente cancellati da nuovi uragani. Alle due estremità del brano pare di sentire un’atmosfera di DO, alla fine c’è una sospensione attorno alla dominante (MI-FA-SOL-SI); ma poi ecco lo schianto che fa presagire il peggio.

É un peccato che quest’opera si possa soltanto fruire live: non (mi) risulta esistano incisioni, a meno di qualche... pirata. Di sicuro anche qui il pubblico l’ha accolta con palese apprezzamento. 
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Segue poi un brano di rarissima esecuzione, il Concerto per violino e strumenti a fiato di Kurt Weill, compositore noto soprattutto per il suo sodalizio con il più celebrato Bertold Brecht. Ad interpretarlo è la 45enne Patricia Kopatchinskaja, dimostrazione vivente che dalla sottosviluppata Moldova non emigrano qui da noi esclusivamente premurose badanti, ma anche artisti di gran valore e di straordinaria umanità.

Il concerto è del 1924, catalogato quindi nella prima stagione della produzione di Weill, prevalentemente orientata allo strumentale, cui seguì quasi soltanto musica per il teatro (la cui perla è la Dreigroschenoper) e poi, in USA, per Broadway e Hollywood.

Oltre al violino solista e ai fiati sono in realtà previste in partitura anche alcune percussioni e pure i contrabbassi, i quali ultimi hanno funzione prevalente di supporto al ritmo, ma saltuariamente anche di protagonisti della melodia.

Come le - e anche più delle - altre composizioni strumentali del primo Weill, il Concerto si caratterizza per l’innovazione della forma (che pochissimo ha a che spartire con quella classica) e soprattutto per la spiccata atonalità, che ricorda il primo Schönberg e ha riflessi mahleriani e pure straussiani. Weill non abbracciò il nascente serialismo, anche se nel Concerto troviamo molte linee melodiche costituite da successioni di 9-10-11 note diverse della scala cromatica.

Un’interessante analisi delle caratteristiche del Concerto (e di altre tre composizioni strumentali di Weill immediatamente precedenti ad esso) si trova in questa tesi di laurea di 50 anni fa. Il primo movimento anzichè la classica forma-sonata presenta una struttura più vicina forse al rondò: A-B-C-B’-D-E-A’, e in esso compaiono non meno di 10 diversi temi! Il secondo movimento - più tonale - si articola in tre parti distinte: Notturno-Cadenza-Serenata. Il terzo si presenta con un saltarello e si spinge ancor più verso riferimenti tonali, chiudendo su una figura dominante-tonica di FA maggiore.      

La vulcanica Patricia si impegna al massimo (lo spartito tenuto sotto gli occhi testimonia che il brano non è proprio un suo... cavallo di battaglia, e direi comprensibilmente) ma la sua tecnica sopraffina non basta a fare di un onesto prodotto un capolavoro, ecco.

Comunque ci addolcisce la... pillola con un bis in combutta con il clarinetto del mitico Fausto Ghiazza
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Infine la Musica per archi, percussioni e celesta di Bela Bartók, del 1936, commissionata al compositore dal direttore d’orchestra e magnate rossocrociato Paul Sacher per la sua Orchestra da camera di Basilea.

Gli studiosi che hanno analizzato minuziosamente la tecnica compositiva di Bartók ci dicono come - accanto alle ricerche sulle musiche popolari del suo Paese, ma anche di Paesi balcanici e mediorientali (Turchia, ad esempio) - il compositore ungherese abbia anche impiegato tecniche derivate dalla matematica (che sappiamo fin dai greci avere con la musica legami indissolubili). Fra queste si cita ampiamente l’uso della Serie di Fibonacci e del concetto di Sezione aurea. Ed è proprio il brano eseguito qui che viene citato come esempio di tali impieghi, che vanno dall’uso di intervalli (per melodia e armonia) rappresentati esclusivamente da numeri presenti nella Serie del matematico Pisano (1-2-3-5-8 semitoni, cioè seconda minore, seconda, terza minore, quarta e sesta minore) alla suddivisione di un brano musicale in sezioni i cui numeri di battute siano parte della suddetta serie.

Testimonianza di ciò sarebbe (Ernö Lendvai, 1955) la struttura del primo movimento (Andante tranquillo) suddivisibile in sezioni che si estendono fra le battute 1-5-13-21-34-55-89, tutti numeri della serie incriminata. Questa osservazione è peraltro già stata mesa in dubbio (ad esempio da Gareth E. Roberts, 2012) in quanto affetta da inaccuratezze (banalmente: le battute sono 88 e non 89!) e forzature.

Ciò che invece è interessante di questo primo movimento è la sua forma peculiare: trattasi infatti di una Fuga caratterizzata da una successione di entrate delle diverse voci (inizialmente 5) che si muovono alternativamente sul circolo delle quinte: le entrate pari (2-4-6...) successive all’iniziale LA, passano a MI, poi a SI, quindi a FA#, a DO#, a LAb e infine a MIb (distante quindi un tritono dalla nota di partenza); quelle dispari (3-5-7...) si muovono invece verso il basso, quindi vanno al RE, poi al SOL, al DO, al FA, al SIb e infine al MIb, dove avviene il ricongiungimento con l’ultima delle voci ascendenti e si ha il climax del movimento. Da qui inizia il cammino inverso, caratterizzato dall’inversione dell’incipit del tema originale e del percorso sul circolo delle quinte: partendo dal MIb le entrate pari scenderanno a LAb, poi a DO#, quindi a FA#, SI, MI e finalmente a LA, mentre le dispari saliranno al SIb, FA, DO, SOL, RE per arrivare al LA su cui il movimento si chiude come si era aperto.

Come si vede, una struttura a dir poco ingegneristica (in realtà con qualche piccola... trasgressione alla regola che tralascio di citare) che, sommata all’intrinseca severità della forma (le barbare stranezze fiamminghe, copyright Camerata dei Bardi) può effettivamente rendere questo movimento assai ostico, per non dire indigeribile. Per curiosità, la celesta entra con i suoi liquidi arpeggi solo sulle battute 78-81.

Il secondo movimento è invece un Allegro in forma-sonata, uno scherzo indiavolato nel quale fa capolino anche un particolare strumento percussivo: il pianoforte. Come scrisse l’Autore: la tonalità di base è DO e quella secondaria è la dominante SOL (sacri canoni). Lo sviluppo ripresenta anche (in inverso) il tema della Fuga del primo movimento e poi anticipa quello del movimento conclusivo. La ripresa è in tempo (3/8) diverso da quello (2/4) dell’esposizione.

Segue poi il terzo movimento (Adagio, in FA#) a struttura ad arco, o palindrome (A-B-C+D-B-A). É introdotto da 5 battute dove è protagonista lo xilofono, che ribatte un FA naturale su un ritmo di... Fibonacci: 1-1-2-3-5-8-5-3-2-1-1! Ciascuna delle 4 sezioni riprende la corrispondente sezione del tema della Fuga del primo movimento. Celesta, arpa e pianoforte creano atmosfere notturne, quasi spettrali. Ancora gli acuti tocchi di FA naturale dello xilofono chiudono sul FA# tenuto delle viole e due sommessi colpi in DO dei timpani.

Il quarto movimento (Allegro molto, in LA) presenta non meno di 7 temi, strutturati in 4 sezioni, la penultima delle quali (prima del ritorno del tema principale) ripresenta, trasfigurato, il tema iniziale della Fuga. Un secondo pianoforte si aggiunge ad arricchire il volume di suono. Dopo alternanza di passaggi convulsi e più calmi, si chiude in un esilarante LA maggiore.

Pascal dispone pianoforte (solo uno) celesta e arpa proprio davanti a sè, come prescrive del resto la partitura; gli archi, che Bartók divide praticamente in due diverse orchestre, sono invece disposti in modo quasi tradizionale.

Esecuzione direi impeccabile, accolta da meritati applausi per Direttore e suonatori.  

14 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°16


Ben due Requiem nel programma del concerto di questa settimana, diretto dal brillante 34enne Maxime Pascal.

Dapprima il K626 del Teofilo, di cui viene eseguita più o meno la prima metà, cioè fino alla Sequenza. È noto come quest’opera, l’ultima fatica di Mozart prima della prematura scomparsa, sia rimasta non solo incompleta, ma anche assai bistrattata da coloro - la moglie Constanze in primis - che per ragioni poco artistiche, ma assai prosaiche, decisero a tutti i costi di completarla in qualche modo per poi contrabbandarla come farina del sacco del de-cuius, onde incassare i proventi della commissione dal Conte Franz Von Walsegg.

Solo nella seconda metà del ‘900 i musicologi sono riusciti, e nemmeno in modo definitivo, a districarsi nel ginepraio di documenti, testimonianze e leggende metropolitane cresciute attorno all’opera. Oggi possiamo almeno contare su qualche solida base di conoscenza, grazie all’impegno profuso da ormai 140 anni dalla Fondazione del Mozarteum. Che negli ultimi tempi ha meritoriamente messo una gran mole di informazioni e documenti a disposizione del pubblico attraverso il sito DME (Digitale Mozart Edition) e in particolare ha reso universalmente fruibili tutte le partiture (in edizione critica) del Teofilo.

Lo schema sottostante - derivato dai documenti della DME - sintetizza al massimo grado lo stato dell’arte delle conoscenze che possediamo sui contenuti musicali del Requiem:


Come si vede, di Mozart si sono ritrovati i fogli manoscritti (purtroppo inquinati da mani diverse, forse Eybler) delle prime quattro parti, mentre nulla è stato ritrovato delle quattro restanti. Inoltre del Lacrimosa esistono solo le prime 8 misure (fino a Homo reus). A ciò vanno aggiunti due schizzi isolati: 4 battute del Rex tremendae e 16 battute di un Amen fugato, presumibilmente a chiudere la Sequenz. Il suo allievo Joseph Eybler si era per primo cimentato nell’impresa di completare il lavoro, ma aveva abbandonato il tentativo dopo aver strumentato la Sequenz, salvo il Lacrimosa, cui si limitò ad aggiungere due battute. Constanze allora appaltò il completamento ad un altro allievo del marito, Franz Xäver Süssmayr, che aveva avuto modo di intrattenersi sul Requiem con lo stesso Mozart. Costui mise a punto una versione completa dell’opera, impiegando, rielaborando e completando quanto già composto o almeno abbozzato da Mozart (incluse le aggiunte di Eybler) e soprattutto componendo di suo pugno il resto, dal Lacrimosa (battute successive alla 8) e poi dal Sanctus in avanti (per la verità il Communio riprende ampi passi mozartiani di Introitus e Kyrie). È la sua versione quella che da sempre ha portato il Requiem alle orecchie del pubblico.

Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le attività di studio e ricerca, che hanno portato alla predisposizione di nuove versioni dell’opera, fra le quali sono da ricordare quella di Clemens Kemme (2009) e la più recente (2013) di Benjamin Gunnar Cohrs.  
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Nel concerto di questi giorni in Auditorium viene invece eseguita, insieme all’Introitus e al Kyrie, la Sequenz di Eybler, che si chiude sul torso di 8 battute del Lacrimosa, cui l’allievo, come detto, aggiunse timidamente solo 2 battute del soprano, per poi rinunciare a proseguire.

È opinione abbastanza diffusa fra i musicologi che questa versione di Eybler sia esteticamente superiore a quella di Süssmayr. Come esempio pratico si confronti l’inizio del Dies Irae: di seguito sono riportate le prime 9 misure come lasciate da Mozart e le corrispondenti completate da Eybler e Süssmayr:


Mozart ci lasciò la parte vocale, il basso e un abbozzo della parte degli archi (violini primi); proprio nulla di fiati e timpani.


Eybler completa la parte degli archi (violini II e viole) e aggiunge i fiati (corno di bassetto, fagotto e clarino) e i timpani. Si noti in particolare la leggerezza della strumentazione dei fiati.


Süssmayr sembra accogliere alcune aggiunte di Eybler, ma appesantendole (i fiati hanno ad esempio note più lunghe) ma soprattutto aggiunge (qui e in quasi tutti gli altri numeri) i tre tromboni, che imprimono al brano un’impronta piuttosto greve. Il grande Bruno Walter stigmatizzava questa scelta, eccessiva a suo parere, e non la rispettava. Sebbene i tromboni siano tipici strumenti da chiesa, Mozart ne indica esplicitamente ed appropriatamente la presenza solo nel Tuba mirum (trombone tenore). Per il resto li indica nell’Introitus (dove peraltro sono notati soltanto - colla parte - accanto alle voci di Alto, Tenore e Basso) e gli stessi editori della DME non sono affatto certi che quell’indicazione sia necessariamente da estendere (come fa Süssmayr) al resto della composizione. 

Di grande interesse (per me, almeno) è questa esecuzione basata strettamente sul manoscritto originale (con l’aggiunta in coda dello schizzo dell’Amen): perchè ci porta all’orecchio l’intima essenza dell’opera, il suo cuore profondo, la sua metafisica bellezza. 
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Lo smilzo Pascal dirige senza bacchetta, con ampi gesti delle sue lunghe braccia, e ondeggiando mollemente sulle sue leve da fenicottero. Gli attacchi sono netti, dati tendendo le mani come fendenti indirizzati verso solisti, coro e strumentisti.

E tutti rispondono al meglio: dalle voci ben impostate dei quattro solisti: soprano Minji Kim; alto Solgerd Isalv; tenore Massimo Lombardi e basso Daniele Caputo; a quelle del coro guidato per l’occasione da José Antonio Sainz Alfaro; all’orchestra, doverosamente leggera in quantità (un solo trombone per doppiare le voci nell’Introitus e per le bellissime frasi del Tuba Mirum) e in trasparenza di suono.

Dopo l’ultimo verso dei soprani (Huic ergo parce deus) e anche l’unico ad essere musicato da Eybler, Pascal ottiene un minuto di raccoglimento, prima di abbassare le braccia per meritarsi l’applauso del pubblico.
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Il secondo Requiem è del 2017! Fu eseguito, domenica 2 luglio, al Festival di Spoleto, che lo aveva commissionato a Silvia Colasanti in ricordo del terribile terremoto che un anno prima aveva sconvolto e distrutto l’Italia centrale.

Si tratta propriamente di un Oratorio, dove al Coro si unisce una voce recitante accompagnata da un bandoneon. La voce (che espone un testo italiano) si alterna alle strofe del Requiem latino, cantate dal coro e dal contralto solista.

Più che un Requiem, è la contestazione del Requiem, così come la tradizione chiesastica ce lo ha tramandato: la voce recitante non per nulla è La dubitante! Che sfida il Coro di chi non dubita. Accompagnandosi al bandoneon, il Respiro della terra. E il contralto, che canta dal Quid sum miser al Cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis è il Cuore ridotto in cenere...

Il carattere di laica accettazione della morte, di aspirazione al perdono e al ritorno alla natura eterna (un po’ l’àpeiron degli antichi filosofi greci) è sintetizzato dal sottotitolo dell’opera: Stringeranno nei pugni una cometa, verso del visionario poeta gallese Dylan Thomas, non a caso divenuto famoso per il suo approccio laico e quasi ottimistico al mistero della morte.

In rete si può ascoltare unincisione fatta a Bolzano, e anche qui abbiamo in scena alcuni dei protagonisti della prima esecuzione: il Direttore Pascal, l’autrice dei testi italiani e voce recitante, Mariangela Gualtieri, e il contralto solista, Monica Bacelli. A loro si aggiungono, oltre all’Orchestra, Davide Vendramin al bandoneon e il Coro sinfonico de laVerdi, ancora guidato da José Antonio Sainz Alfaro.  
  
L’opera inizia con un confuso chiacchiericcio, come di qualcuno che recita il Dies Irae in una giornata di pioggia. Poi inizia il canto del Coro di chi non dubita, in un’atmosfera oscillante fra SOL minore e la relativa SIb.

Ora La dubitante, Mariangela Gualtieri, con la sua voce secca e piglio deciso, si rivolge Alle piccole e grandi ombre, accompagnata da suoni dimessi del violoncello (di Tobia Scarpolini) per chiedere per loro non già la pace eterna, ma una vita perenne, qui, in mezzo a noi e alla natura che ci circonda.

Torna il Coro di chi non dubita con il tremendo Dies Irae: qui non c’è musica, ma caos, rumore; le voci espongono i versi recto tono, poi con rapide discese e con accenti quasi di terrore. Si fa largo in orchestra un MI isolato, sul quale le voci intonano stentoreamente il Tuba mirum, poi in aspra dissonanza con un FA, finchè tutto crolla verso il silenzio.

Ancora La dubitante, interrotta da sordi suoni dell’orchestra, che non sa spiegarsi perchè quel Dio tanto invocato resti zitto di fronte a macerie, dolore e pianto: un Dio duro, troppo duro...

Riprende il Coro di chi non dubita con Mors stupebit: l’atmosfera è caratterizzata da un tappeto sonoro aspro (proprio da... stridor di denti) sul quale le voci innestano ora sequenze ascendenti, ora improvvise discese dall’acuto, per sottolineare la tremenda severità del giudizio finale.

Riecco La dubitante, adesso nel totale silenzio di voci e orchestra, manifestare il suo stupore: per quel Giudice supremo che rimane in silenzio di fronte a misfatti compiuti dall’uomo, ma spesso mostra inspiegabilmente la sua mano feroce.

É arrivato il momento del Cuore ridotto in cenere. Ed entra sul palco Monica Bacelli a cantare il Quid sum miser, su una sorta di Sprechgesang. Il Rex tremendae majestatis è invece declamato. Più liriche le due strofe del Recordare e del Quaerens. Dopo uno scabro Juste Judex ecco uno squarcio di grande respiro melodrammatico, una specie di arioso che accompagna le strofe Ingemisco, Qui Mariam e Preces meae. Un ultimo scatto violento (Confutatis maledictis) e poi la chiusa (Oro supplex) di un grande lirismo, un abbandono - in LA minore - nelle mani di Dio (Gere curam mei finis).  

Ora l’orchestra prepara una specie di soffice tappeto sonoro (su un vago RE minore) per supportare una nuova esternazione della Dubitante: che invoca un Dio di amore, che arrivi a portare all’uomo la comprensione e la compassione, la consapevolezza dell’unità dell’Universo, il capire l’insetto e la grandine, l’acqua e il filo d’erba.  

Il Coro di chi non dubita espone ora il Lacrimosa: è la parte femminile a cantare la voce principale, contrappuntata da quella maschile. È un canto appropriatamente lamentoso (vagamente in RE minore) con motivi degradanti, appunto lacrimevoli, che sfocia alla fine su un LA acuto, per l’invocazione alla pietà divina.

Ultimo intervento della Dubitante, accompagnata da discreti e sporadici interventi del bandoneon di Davide Vendramin. È una lacerante confessione di chi riconosce tutte le sue colpe, piccole e grandi, egoismo, narcisismo, individuaismo... ma una su tutte: la disattenzione. Il MI del bandoneon chiude questa accorata esternazione e si prepara ad accompagnare l’ultima parte del Requiem:

il Lux Aeterna del Coro di chi non dubita. Un lungo viaggio in LA minore verso la luce che risplende sul riposo eterno dell’uomo. Un ultimo saluto del bandoneon, poi l’Amen del Coro, in LA maggiore! Lo stesso LA dell’ultimo rintocco di campana.

Qui Pascal e tutto il coro rimangono a braccia alzate al cielo e impiegano, per abbassarle, non meno di 120 secondi, in un religioso silenzio carico di tensione. Poi sei minuti ininterrotti di applausi, dapprima sobri e contenuti, quindi sempre più forti e accompagnati da ovazioni per tutti, compresa l’Autrice, salita sul palco ad abbracciare gli altri protagonisti di questo indimenticabile appuntamento.

06 ottobre, 2019

Francesconi imperversa a Milano


In concomitanza e assonanza con l’edizione 2019 di Milano Musica, dedicata al compositore, la Scala ripropone Quartett di Luca Francesconi, che vide la luce più di 8 anni orsono, commissionata proprio dal Teatro. Dopo l’anteprima-giovani del 2, ieri sera è andata in scena la prima delle sei recite in cartellone. Rispetto al 2011 è cambiato solo il Direttore, mentre sono tornati i due (unici) protagonisti e il team di regìa.

Qui alla Scala si assiste infatti all’allestimento originale dell’opera, che è già stata ed è tuttora rappresentata in giro per il mondo anche in produzioni diverse. Quanto invece al contenuto musicale, parecchie sezioni dell’opera (coro e orchestra grande - OUT, dietro le quinte - registrate qui dal vivo nelle recite del 2011) vengono adesso diffuse nei teatri che ospitano Quartett attraverso sistemi di amplificazione. Con risultati a volte disastrosi, come riportano da Berkeley. Per fortuna qui tutto è andato assai bene: evidentemente i tecnici IRCAM han fatto del loro meglio.

Personalmente ero rimasto assai perplesso ai tempi della prima, e il mio scetticismo non era sfumato rivedendo e riascoltando l’opera (in questa ripresa català del 2017, con l’allestimento originale della Fura e gli stessi due protagonisti) in vista dell’appuntamento di ieri. Ma devo dire che anche questa nuova esperienza non mi ha portato a rivedere quel giudizio.

Il soggetto - questo è risaputo - gia’ non è dei più facili da assimilare: in particolare lo sdoppiamento dei due personaggi (scene 6-8 e 10-12) non è semplice da decifrare per uno spettatore che non abbia ben presente questo espediente inventato dall’autore del dramma originale (Heiner Müller) e conservato da Francesconi; anche perchè la lingua (inglese) non aiuta certo a seguire nel modo più efficace la trama.

Certo, lo spettacolo di per sè sarà pure di buon livello e di forte impatto, ma ciò che mi convince meno è proprio la musica! E non solo per la sua atonalità (ad esempio il seriale Wozzeck mi risulta assai meno indigesto); ma perchè la trovo (in specie proprio il canto) eccessivamente sostenuta, affettata, scarsamente dotata di varietà di inflessioni e di pathos; invece pare un continuo lamento isterico, una serie di esternazioni allucinate che - a voler malignare - si potrebbe definire una... lagna. Le parti puramente strumentali sollevano la media, ma restano poca cosa. Verdi usava parlare di tinta per le sue opere: ma non era mai un colore fisso e monotono, perbacco!  

Mi viene qui da fare una riflessione che spesso mi ronza in mente, ascoltando musica di questo genere: ma se lo stesso soggetto potesse essere oggi musicato non dico dallo Strauss della Salome e di Elektra, ma anche solo dal Korngold di Die tote Stadt, cosa ne uscirebbe? Ebbene, con tutto il rispetto dovuto a Francesconi, mi sentirei di scommettere che il risultato sarebbe assai più accattivante. Insomma, ripeto quanto esposto l’altro ieri in occasione dell’apertura di Milano Musica all’Auditorium: questa è musica difficile da capire razionalmente (a dispetto del massiccio impiego di strumenti... scientifici per la sua composizione ed esecuzione) ed esasperante se ascoltata in modo passivo. Gli enormi spazi vuoti al Piermarini e l’accoglienza tiepidina allo spettacolo (che pure sta registrando una discreta presenza presso i teatri nel mondo) la dicono lunga su quanto poco (non dico nulla) la musica contemporanea riesca a far rinverdire i fasti di un passato glorioso dal quale continua invece ad allontanarsi sempre più.

Ovviamente sono solo da lodare le prestazioni dei protagonisti: Maxime Pascal, già applaudito qui un paio d’anni fa per una primizia di Sciarrino, e soprattutto i due interpreti Allison Cook e Robin Adams, ormai evidentemente in simbiosi con le loro parti, avendole cantate ripetutamene in giro per il mondo.
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PS: sto partendo in treno per Torino, dove mi aspetta... l’antidoto!

19 novembre, 2017

Sciarrino si traveste da Stradella per la Scala


In attesa della materializzazione dell’ectoplasma denominato Fin de partie (che aleggia da anni negli spazi del Piermarini) ecco arrivare a tambur battente una primizia nostrana, dovuta a quel genio che risponde al nome di Salvatore Sciarrino (cui è contemporaneamente dedicata la 26ma edizione di Milano Musica). Ieri sera è andata in onda la terza delle sei recite in cartellone, in una sala non propriamente presa d’assalto (tanto per usare un pietoso eufemismo...)

Ti vedo, ti sento, mi perdo... Parole che potrebbe aver pronunciato, rapita dalla musica - o magari anche da qualcosa di meno, ehm, immateriale... - di Alessandro Stradella, tale Agnese van Huffele, che nella Venezia del 1677 era amante di un certo Alvise Contarini (il Doge in persona, o un suo omonimo?) E il rapimento si materializzò all’istante con la fuga a Torino dei due, ben presto colà raggiunti da sicari fedelissimi del... becco, decisi a far polpette del disinvolto 38enne musicista viterbese. Impresa mancata non di molto, che convinse comunque il nostro a lasciare Torino per fare – pochi anni dopo - proprio la fine miracolosamente scansata lassù: morire ammazzato come un cane in piazza Banchi a Genova, dove – per avere a portata di mano la materia prima per il suo hobby preferito – si era fatto ospitare dal musicista dilettante Giovambattista Guani, titolare di una bottega di parrucchiere per signora (!)

L’opera di Sciarrino è però verosimilmente ambientata a Roma, nel Palazzo Colonna, dove una decina d’anni prima di togliere il disturbo Stradella aveva fatto i suoi primi passi come musicante. Ma solo dopo aver avuto rapporti di... camera nientedopodomanichè con la Regina Cristina di Svezia! Ecco, sul palcoscenico vediamo – sullo sfondo - un... palcoscenico dove si prova uno spettacolo musicale (una cantata con soprano, coro e strumenti); al centro si muovono servi e lacchè del palazzo addetti alle incombenze più materiali, e ai pettegolezzi più volgari; al proscenio due intellettuali (musicista e poeta) si scambiano battute sulla tresca dello Stradella con una famosa cantante, e attendono l’arrivo proprio del musicista in persona – che tuttavia mai arriverà, nemmeno fosse Godot, sostituito dalla notizia del suo poco onorevole ammazzamento, recata da un giovin cantore con violinista al seguito - disquisendo di arte e filosofia, raggiunti di tanto in tanto dal soprano protagonista della cantata.

Nel secondo atto dell’opera – dove (pare) sono passati anni – si ha una compressione della dimensione-tempo: in pratica tutte le vicende delle avventure (galanti e non) di Stradella (fuga da Roma, fuga da Venezia, fuga da Torino e morte a Genova) scorrono davanti ai nostri occhi raccontate da secche notizie che arrivano in poche scene successive: è una bizzarra (ma non nuova, vedi Wagner-Parsifal) applicazione della relatività ristretta del buon Einstein, una variante rovesciata del paradosso dei due gemelli: qui c’è Stradella che fugge da Roma e passa un bel po' d'anni vagando per mezza Italia (spingendosi pure a Vienna...) mentre in tutto questo tempo i suoi coetanei rimasti a Roma invecchiano solo di un’ora scarsa (!?)

Evabbè... a parte questi sconfinamenti nella fisica pura che andrebbero studiati con il calcolo tensoriale, il soggetto - che Sciarrino ha inventato da letture di Ovidio, Apollonio Rodio, Rilke, Bashō, Stromboli, Giazotto, Iudica e Frassica (ma io consiglierei a tutti questo thriller) – porta in primo piano problematiche non da poco, quali il principio di libertà e di totale indipendenza dell’Arte e dell’Artista da qualsivoglia vincolo (materiale ma anche estetico) e poi l’intrinseco connubio fra Arte (e in particolare Musica) ed Eros. E Stradella fu di sicuro la personificazione dell’Artista rivoluzionario, insofferente di padroni, di regole e convenzioni ed anche conquistatore di cuori (ed esploratore di... orifizi). 

Ma c’è di più: Orfeo vs Sirene! Il campione della musica umana contro le subdole rappresentanti della musica naturale (A.Stradella vs A.Scarlatti?) E poi ancora: Stradella antesignano di Schubert e di Chopin! E da composizioni di Stradella arrivano nell’opera di Sciarrino melodie e vaghi ricordi, reminiscenze più che citazioni, che il nostro riveste di suoni dal carattere impressionista (Debussy docet...)

Suoni che provengono da ogni dove: ovviamente dalla buca, ma anche dalla scena (concertino e poi legni) e da dietro le quinte (fiati, arpa e pianoforte). Suoni non convenzionali, con ampio uso di glissandi, di fruscii, di armonici acutissimi: insomma una tavolozza personalissima e davvero ricercata.

Il canto è un’applicazione estesa del principio del recitar-cantando, una sorta di declamato arricchito da inflessioni, tic, persino balbuzie: un canto che cerca di modellarsi sui fonemi della lingua, un approccio che è stato - più o meno appropriatamente - paragonato a quello di un Musorgski o di uno Janáček.

Insomma, tante idee, tanta carne al fuoco; che testimoniano quanto meno della serietà ed onestà dell’approccio del compositore palermitano, oggi apprezzato e stimato in tutto il mondo. Per quel che può valere (poco più di nulla) il mio giudizio, colloco questa proposta ben al di sopra di altre (Francesconi, Raskatov e Battistelli) che la Scala ha commissionato per poi propinarcele in anni recenti.

Resta il fatto che per lo spettatore medio (che dello Stradella forse conosce a malapena l’esistenza) risulta obiettivamente difficile apprezzare la messe di riferimenti, sottintesi, allusioni (soprattutto musicali!) di cui Sciarrino riempie la sua partitura. Alla fine ciò che di primo acchito si apprezza di tutta l’opera sono il prologo e un paio di intermezzi, dove all’orecchio arrivano suoni che richiamano effettivamente il barocco. Con una malignità potrei dire che una Suite di 10-12 minuti che raccolga quei pochi sprazzi di musica vagamente orecchiabile potrebbe avere in sala da concerto assai più presa dell’intera opera vista ed ascoltata in teatro...
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Sulla messinscena che dire? Dato che l’Autore ha già in partenza dettato le linee generali della scenografia (oltre al precisissimo riferimento storico) al regista non resta in questi casi che applicarsi per eseguire al meglio la volontà dell’Autore, oltretutto presente di persona all’intero processo di costruzione dello spettacolo. Si deve perciò dare per sicuro che ciò che Jürgen Flimm e il suo scenografo George Tsypin ci mostrano sia precisamente ciò che Sciarrino intende farci vedere, cosa che in molte regìe moderne (di opere del passato) accade sempre meno spesso...

Apprezzabili i costumi allegri e dai colori sgargianti di Ursula Kudrna, e le luci (Olaf Freese) che di volta in volta ci indirizzano l’attenzione sui tre diversi livelli della scena. Dove sono da segnalare anche le divertenti coreografie di Tiziana Colombo.
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Il 32enne Maxime Pascal pare un ragazzino ma ha già alle (e sulle) spalle una carriera brillante e persino un’orchestra (Le Balcon). La sua dimestichezza con la musica d’oggi ne fa interprete ideale di opere come questa e lui lo dimostra padroneggiando ogni sfumatura di ogni singola nota di Sciarrino. L’Orchestra – come detto distribuita su tre livelli – pare assecondarlo al meglio (dico pare perchè forse solo Sciarrino potrebbe dare un giudizio di merito sull’interpretazione e sull'esecuzione...) cavando fuori sonorità inconsuete e timbri a volte irriconoscibili, che evidentemente il compositore ha inteso creare appositamente per supportare i suoi testi.   
  
Fra le voci, la protagonista assoluta è la Cantatrice di Laura Aikin, che ha oggettivamente la parte più ricca e pesante di tutte: lei la sostiene con grande cura dei dettagli, non solo nel canto più (diciamo così) tradizionale ma anche in quella sorta di declamato alla Sprechgesang di cui Sciarrino riveste il suo ruolo (e non solo il suo). Peccato che la sua voce scarseggi di decibel il che, in aggiunta alle dinamiche particolarissime imposte dalla partitura, la rende scarsamente udibile negli sterminati volumi del Piermarini. Il massimo (minimo, anzi) si raggiunge nella bella arietta del second’atto, dove la sua voce viene irrimediabilmente coperta dalla pur non gigantesca orchestra che l’accompagna (qui Pascal ha forse qualcosa da farsi perdonare).

Degli altri interpreti, quello che canta (in senso comune) di più (anche se arriva solo alla fine...) è il Giovane Cantore (appunto) qui impersonato da Ramiro Maturana (accademico scaligero) che ha fatto una più che discreta figura. Tutti gli altri sono chiamati a declamare e/o emettere suoni che un ascoltatore naif potrebbe francamente prendere per lamenti, mugolii o rantoli di musicalità assai discutibile, ecco.
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Alla fine applausi di stima e cortesia, ma direi ben meritati per tutti: una chiusura di stagione se non altro interessante. Un commento conclusivo (trito e ritrito, lo so perfettamente): opere come queste rischiano di essere rovinate dal rappresentarle in questo teatro (nelle più piccole sale berlinesi magari tutto cambierà...): ennesima occasione per stigmatizzare la stolta chiusura della Piccola Scala, ambiente ideale (per cantanti-orchestra ma anche per il pubblico) per questo tipo di rappresentazioni. Amen.