In attesa della materializzazione
dell’ectoplasma denominato Fin de partie (che aleggia da anni negli spazi
del Piermarini) ecco arrivare a tambur battente una primizia nostrana, dovuta a quel
genio che risponde al nome di Salvatore
Sciarrino (cui è contemporaneamente dedicata la 26ma edizione di Milano Musica). Ieri sera è
andata in onda la terza delle sei recite in cartellone, in una sala non
propriamente presa d’assalto (tanto per usare un pietoso eufemismo...)
Ti vedo, ti sento, mi perdo... Parole che potrebbe aver pronunciato, rapita
dalla musica - o magari anche da
qualcosa di meno, ehm, immateriale... - di Alessandro
Stradella, tale Agnese van Huffele,
che nella Venezia del 1677 era amante di un certo Alvise Contarini (il Doge in persona, o un suo omonimo?) E il
rapimento si materializzò all’istante con la fuga a Torino dei due, ben presto
colà raggiunti da sicari fedelissimi del... becco, decisi a far polpette
del disinvolto 38enne musicista viterbese. Impresa mancata non di molto, che
convinse comunque il nostro a lasciare Torino per fare – pochi anni dopo - proprio
la fine miracolosamente scansata lassù: morire ammazzato come un cane in piazza
Banchi a Genova, dove – per avere a portata di mano la materia prima per il suo
hobby preferito – si era fatto ospitare
dal musicista dilettante Giovambattista
Guani, titolare di una bottega di parrucchiere per signora (!)
L’opera
di Sciarrino è però verosimilmente ambientata a Roma, nel Palazzo Colonna, dove una decina d’anni prima di togliere il
disturbo Stradella aveva fatto i suoi primi passi come musicante. Ma solo dopo aver avuto rapporti di... camera
nientedopodomanichè con la Regina Cristina
di Svezia! Ecco, sul palcoscenico vediamo – sullo sfondo - un... palcoscenico
dove si prova uno spettacolo musicale (una cantata con soprano, coro e
strumenti); al centro si muovono servi e lacchè del palazzo addetti alle
incombenze più materiali, e ai pettegolezzi più volgari; al proscenio due
intellettuali (musicista e poeta) si scambiano battute sulla tresca dello Stradella
con una famosa cantante, e attendono l’arrivo proprio del musicista in persona
– che tuttavia mai arriverà, nemmeno fosse Godot, sostituito dalla notizia del
suo poco onorevole ammazzamento, recata da un giovin cantore con violinista al
seguito - disquisendo di arte e filosofia, raggiunti di tanto in tanto dal
soprano protagonista della cantata.
Nel secondo atto dell’opera – dove
(pare) sono passati anni – si ha una compressione della dimensione-tempo: in
pratica tutte le vicende delle avventure (galanti e non) di Stradella (fuga da Roma,
fuga da Venezia, fuga da Torino e morte a Genova) scorrono davanti ai nostri
occhi raccontate da secche notizie che arrivano in poche scene successive: è
una bizzarra (ma non nuova, vedi Wagner-Parsifal) applicazione della relatività ristretta del buon Einstein, una variante rovesciata del
paradosso dei due gemelli: qui c’è Stradella che fugge da Roma e passa un bel po' d'anni vagando per mezza Italia (spingendosi pure a Vienna...) mentre in tutto questo tempo i
suoi coetanei rimasti a Roma invecchiano solo di un’ora scarsa (!?)
Evabbè...
a parte questi sconfinamenti nella fisica pura che andrebbero studiati con il calcolo tensoriale, il soggetto - che
Sciarrino ha inventato da letture di Ovidio, Apollonio Rodio, Rilke, Bashō, Stromboli, Giazotto, Iudica e Frassica (ma io consiglierei
a tutti questo thriller)
– porta in primo piano problematiche non da poco, quali il principio di libertà
e di totale indipendenza dell’Arte e dell’Artista da qualsivoglia vincolo
(materiale ma anche estetico) e poi l’intrinseco connubio fra Arte (e in
particolare Musica) ed Eros. E
Stradella fu di sicuro la personificazione dell’Artista rivoluzionario, insofferente
di padroni, di regole e convenzioni ed anche conquistatore di cuori (ed
esploratore di... orifizi).
Suoni che provengono da ogni dove: ovviamente dalla buca, ma anche dalla
scena (concertino e poi legni) e da
dietro le quinte (fiati, arpa e pianoforte). Suoni non convenzionali, con
ampio uso di glissandi, di fruscii, di armonici acutissimi: insomma una
tavolozza personalissima e davvero ricercata.
Ma c’è di più: Orfeo
vs Sirene! Il campione della musica
umana contro le subdole rappresentanti della musica naturale (A.Stradella
vs A.Scarlatti?) E poi ancora: Stradella antesignano di Schubert e di Chopin! E da composizioni di Stradella arrivano nell’opera di
Sciarrino melodie e vaghi ricordi, reminiscenze più che citazioni, che il
nostro riveste di suoni dal carattere impressionista (Debussy docet...)
Il canto è un’applicazione estesa del principio del recitar-cantando, una sorta di declamato
arricchito da inflessioni, tic, persino balbuzie: un canto che cerca di modellarsi
sui fonemi della lingua, un approccio che è stato - più o meno appropriatamente - paragonato a
quello di un Musorgski o di uno Janáček.
Insomma, tante idee, tanta carne al fuoco; che
testimoniano quanto meno della serietà ed onestà dell’approccio del compositore
palermitano, oggi apprezzato e stimato in tutto il mondo. Per quel che può
valere (poco più di nulla) il mio giudizio, colloco questa proposta ben al di
sopra di altre (Francesconi, Raskatov e Battistelli) che la Scala ha
commissionato per poi propinarcele in anni recenti.
Resta il fatto che per lo spettatore medio (che dello Stradella forse conosce a malapena l’esistenza) risulta obiettivamente difficile apprezzare la messe di riferimenti, sottintesi, allusioni (soprattutto musicali!) di cui Sciarrino riempie la sua partitura. Alla fine ciò che di primo acchito si apprezza di tutta l’opera sono il prologo e un paio di intermezzi, dove all’orecchio arrivano suoni che richiamano effettivamente il barocco. Con una malignità potrei dire che una Suite di 10-12 minuti che raccolga quei pochi sprazzi di musica vagamente orecchiabile potrebbe avere in sala da concerto assai più presa dell’intera opera vista ed ascoltata in teatro...
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Resta il fatto che per lo spettatore medio (che dello Stradella forse conosce a malapena l’esistenza) risulta obiettivamente difficile apprezzare la messe di riferimenti, sottintesi, allusioni (soprattutto musicali!) di cui Sciarrino riempie la sua partitura. Alla fine ciò che di primo acchito si apprezza di tutta l’opera sono il prologo e un paio di intermezzi, dove all’orecchio arrivano suoni che richiamano effettivamente il barocco. Con una malignità potrei dire che una Suite di 10-12 minuti che raccolga quei pochi sprazzi di musica vagamente orecchiabile potrebbe avere in sala da concerto assai più presa dell’intera opera vista ed ascoltata in teatro...
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Sulla messinscena che dire? Dato che l’Autore ha già in partenza dettato
le linee generali della scenografia (oltre al precisissimo riferimento storico)
al regista non resta in questi casi che applicarsi per eseguire al meglio la
volontà dell’Autore, oltretutto presente di persona all’intero processo di costruzione
dello spettacolo. Si deve perciò dare per sicuro che ciò che Jürgen Flimm e
il suo scenografo George Tsypin ci mostrano sia precisamente ciò che Sciarrino intende farci vedere, cosa
che in molte regìe moderne (di opere del passato) accade sempre meno spesso...
Apprezzabili i costumi allegri e dai colori sgargianti di Ursula Kudrna, e le luci (Olaf Freese) che di volta in volta ci indirizzano l’attenzione
sui tre diversi livelli della scena. Dove sono da segnalare anche le divertenti
coreografie di Tiziana Colombo.
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Il 32enne Maxime Pascal pare un
ragazzino ma ha già alle (e sulle) spalle una carriera brillante e persino un’orchestra
(Le
Balcon). La sua dimestichezza con la musica d’oggi ne fa interprete ideale
di opere come questa e lui lo dimostra padroneggiando ogni sfumatura di ogni
singola nota di Sciarrino. L’Orchestra – come detto distribuita su tre livelli –
pare assecondarlo al meglio (dico pare
perchè forse solo Sciarrino potrebbe dare un giudizio di merito sull’interpretazione e sull'esecuzione...)
cavando fuori sonorità inconsuete e timbri a volte irriconoscibili, che evidentemente
il compositore ha inteso creare appositamente per supportare i suoi testi.
Fra le voci, la protagonista assoluta è la
Cantatrice di Laura Aikin, che ha
oggettivamente la parte più ricca e pesante di tutte: lei la sostiene con
grande cura dei dettagli, non solo nel canto più (diciamo così) tradizionale ma
anche in quella sorta di declamato alla Sprechgesang
di cui Sciarrino riveste il suo ruolo (e non solo il suo). Peccato che la sua
voce scarseggi di decibel il che, in
aggiunta alle dinamiche particolarissime imposte dalla partitura, la rende
scarsamente udibile negli sterminati volumi del Piermarini. Il massimo (minimo,
anzi) si raggiunge nella bella arietta del second’atto, dove la sua voce viene
irrimediabilmente coperta dalla pur non gigantesca orchestra che l’accompagna (qui
Pascal ha forse qualcosa da farsi perdonare).
Degli altri interpreti, quello che canta
(in senso comune) di più (anche se arriva solo alla fine...) è il Giovane
Cantore (appunto) qui impersonato da Ramiro
Maturana (accademico scaligero)
che ha fatto una più che discreta figura. Tutti gli altri sono chiamati a
declamare e/o emettere suoni che un ascoltatore naif potrebbe francamente prendere per lamenti, mugolii o rantoli
di musicalità assai discutibile, ecco.
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Alla fine applausi di stima e cortesia, ma direi ben
meritati per tutti: una chiusura di stagione se non altro interessante. Un commento conclusivo (trito e ritrito, lo so
perfettamente): opere come queste rischiano di essere rovinate dal rappresentarle
in questo teatro (nelle più piccole sale berlinesi magari tutto cambierà...): ennesima
occasione per stigmatizzare la stolta chiusura della Piccola Scala, ambiente ideale (per cantanti-orchestra ma anche per
il pubblico) per questo tipo di rappresentazioni. Amen.
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