È ancora il venerabile Elio Boncompagni a calcare il podio dell’Auditorium per dirigere un programma dal taglio classico: ouverture, concerto solistico e sinfonia. Dopo due brani di Beethoven ci si sarebbe aspettato che lo fosse anche il terzo (che so, una delle sinfonie pari...) e invece ecco spuntare il Brahms pastorale...
L’Ouverture Die Weihe des Hauses (op.124)
occupa una posizione assai scomoda nel catalogo beethoveniano, stretta com’è
nella stritolante tenaglia di Missa (op.123)
e Nona (op.125). E sono anche gli
anni delle ultime tre sonate e delle variazioni Diabelli!
Il titolo dell’Ouverture è stato
tradotto in italiano in modo letterale (La
consacrazione della casa) il che porta francamente fuori strada chi non sia
informato delle circostanze che ne determinarono la composizione. Chiunque
infatti penserebbe subito alla casa
nell’accezione di dimora e quindi, in
senso lato, di famiglia: quindi
immaginerebbe che si tratti della solennizzazione della classica benedizione delle famiglie (a pochi
verrebbe in mente di pensare alla consacrazione di una... ditta!)
Invece Haus in crucco (così come House
in albionico) è un termine impiegato (anche) per definire i teatri (es.: Royal Opera House,
Opernhaus Zürich);
ed è proprio l’inaugurazione di un teatro viennese (Theater in der Josefstadt) che fece arrivare a Beethoven la
commissione per un lavoro che celebrasse l’avvenimento. Per risparmiare tempo e
fatica Beethoven propose un rifacimento delle Rovine di Atene (altro pezzo di circostanza composto 11 anni prima
per l’inaugurazione di un teatro tedesco a Pest). Dopodichè, oltre a
rimaneggiamenti vari del corpo dell’opera, Beethoven ne scrisse una nuova
Ouverture, quella che si ascolta normalmente e anche qui.
Si dice che l’ispirazione
estetico-formale sia venuta a Beethoven da Händel, ed in effetti sentiamo atmosfere
da pomposità tipiche delle musiche che il tedesco trapiantato in Albione
componeva per i Reali di lassù, ma anche un complesso contrappunto che
caratterizza il nucleo della composizione. Il cui monotematismo rischia di rendercela
un tantino indigesta, soprattutto se ulteriormente appesantita nell’agogica,
come ad esempio fa qui Klemperer. Molto
meglio – per me, ovviamente – il solito Toscanini, che la propone
con il suo proverbiale piglio.
Boncompagni direi che sta più con
Toscanini che con Klemperer, il che secondo me gli rende merito: smaglianti le
sonorità dell’orchestra, guidata da Dellingshausen
e disposta ancora con le viole a sinistra e i secondi violini al proscenio.
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Giuseppe Andaloro fa il suo ritorno in Auditorium dopo tre anni
per presentarci il Primo Concerto
del genio di Bonn. Lui e il Direttore sembrano voler spiegare in musica l’irrompere
dell’800 nel ‘700: Boncompagni attacca le prime 15 battute come fosse un
lezioso Mozart giovanile, quasi col solo concertino;
per poi esplodere col vigore tipico dello spirito beethoveniano. Il solista fa
lo stesso, attaccando con leggerezza per poi mettere in risalto gli accenti
quasi eroici che spuntano qua e là nella partitura. Grandiosa la cadenza del
primo movimento, nobile e sognante il Largo,
brillante il finale Rondo.
Un’esecuzione decisamente apprezzabile,
che il 35enne palermitano completa con ben due bis: Melodia trascritta da
Sgambati dall’Orfeo di Gluck, e poi
un’impertinente sonatina di Domenico
Scarlatti.
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Chiude la serata la Seconda Sinfonia di Brahms. Ancora
da elogiare la lettura di Boncompagni, a partire dalla sensibilità mostrata
nell’esposizione dell’Allegro non troppo iniziale, dove il
Direttore ha dato al da-capo
sfumature diverse (più tenui) rispetto alla prima presentazione. Tempi
abbastanza sostenuti, ma mai strascicati, insomma un’esecuzione coinvolgente,
chiusa in modo spettacolare dalle luccicanti sonorità dei fiati.
Successo pieno, proprio come l’Auditorium,
che dà l’arrivederci al Direttore per la Nona
di Capodanno.
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