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16 marzo, 2023

L’immaginifico E.T.A. alla Scala

Les Contes d’Hoffmann è tornata dopo 11 anni al Piermarini (l’ultima volta con la regìa di Carsen) in una nuova produzione affidata a Davide Livermore e concertata da Frédéric Chaslin (coppia già presentatasi su questi schermi tavolati meno di due anni orsono con un’appena passabile Gioconda). Ieri sera la prima delle sei rappresentazioni, in un teatro non proprio affollatissimo.

La principale curiosità di ogni nuova messinscena dei Contes è sempre la stessa, ormai da parecchi decenni: cosa ci viene propinato delle infinite versioni ricostruzioni della partitura, lasciata incompiuta dal povero Offenbach, venuto a mancare proprio sul più bello?

L’Archivio del Teatro ci informa che le ultime quattro produzioni scaligere (1961, 1995, 2004 e 2012) avevano impiegato la famigerata e adulterata versione Choudens, approntata da quell’Ernest Guiraud che già aveva bistrattato assai la povera Carmen. Con alcune aggiunte e varianti (diverse per il 2012, come si deduce dal confronto dei libretti pubblicati) prese dalla versione Alkor-Bärenreiter curata da quell’altro stupratore seriale di partiture che rispondeva al nome di Fritz Oeser. Qui però c’è qualcosa che non torna nell'archivio: poiché la prima versione dell’edizione Alkor-Bärenreiter-Oeser fu pubblicata nel 1976, poi nel 1980, quindi non poteva essere impiegata nel 1961!

Il libretto (disponibile online) per questa produzione avverte trattarsi integralmente dell’edizione Bärenreiter-Oeser. Quindi, un passo avanti? Mah, mica tanto, poiché vengono ancora ignorate le più recenti edizioni di Schott, curate dalla coppia Michael Kaye – Jean-Christophe Keck, che se non altro si avvalgono di nuovi ritrovamenti di materiale avvenuti negli ultimi anni. Il valore di queste edizioni non risiede nell’impresa impossibile di indicare una soluzione univoca, ma nel mettere a disposizione dei responsabili della messinscena – con l’ausilio di veri e propri flow-chart - le possibili scelte da eseguire secondo criteri se non oggettivi almeno plausibili perché basati su evidenze documentali: onde evitare che direttori e registi in cerca di facile notorietà assemblino il prodotto finito in modo del tutto arbitrario e incoerente, se non addirittura scriteriato, come troppo spesso accade di vedere.

Chaslin, qualche mese addietro, aveva dichiarato di presentare in Scala la versione Choudens integrata con parti della versione Oeser (come era nelle produzioni del ‘94, ‘05 e '12) cosa che pare smentita dalla dicitura presente sulla prima pagina del libretto pubblicato dal Teatro, che cita esclusivamente Oeser. Ma poi, nella stessa intervista e in un’altra rilasciata di recente, dichiarava di aver fatto – come sempre del resto - una scelta, diciamo così, ancor più tradizionalista: riferirsi all’edizione Choudens con le sole aggiunte di Guiraud e Gunsbourg, ignorando quindi Oeser. Insomma, lui stesso non ce la racconta mai giusta…

Per di più, in entrambe le interviste, si abbandona a pesanti accuse rivolte alle più recenti sedicenti edizioni critiche. Lui non fa nomi, ma dal contesto si dovrebbe dedurre che ce l’abbia con quelle curate da Kaye-Keck, dei quali viene persino messa in dubbio la buona fede!

Dopodichè scopriamo però che il direttore francese sta per predisporre a sua volta - e la pubblicherà fra qualche tempo – indovinate un po’ che cosa? La sua edizione critica dei Contes!  Che, a suo dire, porrà la parola fine a un secolo di diatribe! Ahi ahi ahi, qui gatta ci cova… siamo alle solite (e miserelle) guerricciole fra primedonne.

Quindi? Mah, non resta che accettare supini (e se no?) ciò che passa oggi il convento scaligero e affidarsi a fonti webbiche (tipo questa) per avere un’idea di cosa di diverso avremmo potuto godere. Coscienti ovviamente che nessuna delle ricostruzioni circolanti (ed anche di prossima immissione sul mercato, caro Chaslin) potrà mai essere definita come autentica, salvo che Offenbach non si presenti in qualche seduta spiritica per farcelo sapere. Ammesso poi che lui stesso, in questi 140 anni trascorsi nell’aldilà, si sia fatto idee chiare in proposito!
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L’opera è programmaticamente a sfondo fantastico (quindi anche onirico, ovviamente) e come tale si presta per sua natura ad interpretazioni fantastiche e pure… fantasiose, senza che ciò debba sollevare scandali o accuse di dissacrazioni o adulterazioni. [Le vere adulterazioni sono quelle perpetrate fin dall’origine sulla partitura, purtroppo non punibili in assenza di denuncia della parte lesa…]

Livermore quindi va sul sicuro e ne cava uno spettacolo più appariscente che affascinante, direi, ma pur sempre plausibile e godibile.

Trovate non proprio rivoluzionarie, come l’ambientazione moderna (smartphone e selfie a volontà) che ci sta tutta, dato il soggetto; o come lo sdoppiamento del protagonista, evidentemente volto a mostrarci l’Hoffmann della vita normale, piuttosto incolore (dentro una specie di baule-sarcofago, poi… gondola; oppure alle prese con una bistrattata macchina da scrivere) dall’Hoffmann sognatore di imprese dongiovannesche (Niklausse: Notte e giorno…) Oppure il nano da circo, con livrea e cilindro, che fa da guardaspalla armata al cattivone di turno. O le numerose comparse che forse rappresentano le visioni e gli incubi del protagonista. Livermore riunisce ovviamente i quattro tenori comprimari (Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinacchio) in un unico personaggio… en travesti: una servettona armata del classico piumino spazzapolvere.

Scenografia piuttosto spartana, arricchita però da effetti di teatro d’ombre mobili (silhouette) per sottolineare i caratteri onirici di alcune scene. Olympia è una ragazza in carne ed ossa rivestita di plastica e bachelite delle quali si libera per mostrare a noi il trucco di Spalanzani e la creduloneria (indotta dagli occhiali magici) di Hoffmann. A casa di Antonia ci sono un pianoforte e seggiole da teatro accatastate agli angoli (perché nessun violino? Lo prevede la didascalia, ma soprattutto In orchestra sale un assolo dello strumento). La madre di Antonia esce dal quadro e si aggira per casa. A Venezia c’è il coinvolgimento del pubblico: la platea viene infatti ricoperta d’acqua da un enorme velo che accompagna le note della barcarolle. Giulietta e Nicklausse, invece che in gondola, ondeggiano su un’altalena (fermandola a tempo con i piedi per mantenerne l’oscillazione in sincronia con i 6/8 della musica!) Poi torna il baule-sarcofago dal quale emerge il gondoliere… Hoffmann secolare. La chiusura dell’atto (visto che nessuno ha ancora capito quale dovrebbe essere secondo Offenbach…) viene presentata con un’autentica sparatoria, dove non è chiaro chi muore e chi sopravvive. Poi nel finale, al ritorno in taverna, il baulone torna sarcofago, ad ospitare lo stesso Hoffmann cui Stella porta il mazzo di fiori che Lindorf aveva sequestrato ad Andrès nel Prologo.

La  morale della favola è da Livermore risolta facendo riconsegnare all’Hoffmann secolare le parti di copione che erano state affidate ai vari protagonisti e comparse; copione che viene quindi restituito all’Hoffmann sognatore, che lo getterà al vento al calar del sipario.

Ecco: uno spettacolo di buon livello professionale che si lascia godere, grazie al collaudato team di Livermore: Giò Forma, Gianluca Falaschi, Antonio Castro e Compagnia Controluce. Per tutti loro applausi convinti e meritati all’uscita finale.
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Vengo ora ai suoni, dove le cose sono andate così e… cosà. Parto dal basso, cioè dalla buca: Chaslin (che già non mi aveva entusiasmato con la Gioconda) non mi ha particolarmente impressionato (a fronte della sua auto-decantata conoscenza del soggetto). Parliamoci chiaro: nei Contes di strumentazione originale di Offenbach non c’è praticamente nulla, è tutta farina (o fuffa) del sacco di Guiraud-et-altri. Ergo sarebbe dovere, non solo diritto, del Kapellmeister di turno di metterci un po’ del suo, ammesso che ne abbia. Invece, Chaslin ci propina un’interpretazione piatta (o stucchevolmente bandistica, a tratti); di quelle che normalmente si definiscono da routinier (per noi prosaici: battisolfa). L’Orchestra suona come sa, ma non può inventare molto di sua iniziativa (altrimenti a che serve il concertatore?) Il Coro di Malazzi è sempre sui suoi standard, e anche ieri ha avuto gli applausi che si merita.

Grande Vittorio Grigolo, osannato a scena aperta e alla fine: una prestazione eccellente, tenuto conto della parte invero massacrante riservata al protagonista. Che invece lui ha portato a termine senza nemmeno apparente sforzo. Scenicamente poi, perfetto, ecco.

Nei quattro cattivoni, Luca Pisaroni non ha per nulla fatto rimpiangere il forfettario Abdrazakov: voce potente ma mai sguaiata e gran portamento scenico. Anche per lui meritati consensi.

Le quattro deuteragoniste femminili (mi) hanno tutte abbastanza bene impressionato, a partire da Eleonora Buratto che, avendo cantato nonostante un’indisposizione, è però riuscita a cavarsela alla grande, con solo piccoli… accorgimenti onde evitare sorprese dalla gola. La bambola di Spalanzani è Federica Guida, che ha potuto esprimersi al meglio dopo essersi liberata della… bachelite, e ha comunque superato bene gli impervi ostacoli dei sovracuti e picchiettati che abbondano nella sua parte. Francesca Di Sauro è stata una convincente Giulietta, anche se la voce di mezzosoprano non è proprio da soprano drammatico, come vorrebbe la tradizione. La migliore di tutte (selon moi) è stata Marina Viotti, una Musa-Nicklausse quasi perfetta, vocalmente e scenicamente.

Discorso a parte per Stella (l’accademica Greta Doveri): in questa edizione dell’opera lei non dovrebbe proprio cantare, ma qui le si è dato il contentino di aggiungere la sua voce al coro finale: e va bene così…

Tutti gli altri comprimari su livelli più che dignitosi. Doveroso però citare il quadriforme François Piolino, applaudito protagonista dell’aria (Jour et nuit) nell’atto di Antonia.
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Tirando le somme: una produzione con luci e ombre che il non oceanico pubblico ha accolto abbastanza benevolmente, ma senza eccessivi entusiasmi (Grigolo escluso). Insomma: forse la Scala qui poteva fare qualcosa di più e meglio.

08 giugno, 2022

Una Gioconda discreta (ma non più) è tornata al Piermarini

In un teatro non propriamente esaurito ha fatto ieri ritorno dopo 25 anni La Gioconda nella nuova produzione targata Chaslin-Livermore. Dirò subito che ha avuto un’accoglienza tutto sommato positiva (unica vittima dell’unico e isolato buh piovuto dalla seconda galleria il malcapitato Direttore) pur non essendo(mi) parsa di livello eccelso, ecco.

Parto dalla... polpa, cioè da suoni e voci. Intanto segnalando, dopo quella della Yoncheva, anche la defezione del tenore titolare (Sartori) rimpiazzato all’ultimo da Stefano La Colla, che per la verità ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, sul quale però il corpo (cioè la voce...) è incorso in qualche inciampo, soprattutto all’esordio, magari causato dalla comprensibile emozione (anche se per lui non era proprio un esordio in Scala, essendo stato già stato un discreto Ismaele e prima ancora Calaf). Via via si è però rinfrancato ed ha portato a casa la pagnotta.

Saioa Hernandez è stata la trionfatrice della serata. Col tempo meritoriamente migliora (la ricordavo nel ruolo 4 anni fa, con qualche pecca) e la sua vociona è oggi meglio... disciplinata, ecco: per lei lunghi applausi dopo l’aria che apre l’atto conclusivo. Le han dato man forte (nei duetti) le altre due donne del cast: Daniela Barcellona, impeccabile Laura per emissione e portamento; e Anna Maria Chiuri, una Cieca efficace e commovente (cui Livermore ha dato anche più spazio del prescritto, come vedremo).

Degli altri due protagonisti maschi dirò benissimo (e il pubblico ha confermato il giudizio) di Erwin Schrott, praticamente perfetto come Alvise e lungamente applaudito a scena aperta dopo l’aria che apre l’Atto terzo; un filino sotto metterei il navigato Roberto Frontali, che ha forse ecceduto nel caricare negativamente la figura dello spione, con qualche acuto un po’ troppo... ringhiante.  

Tutti onestamente all’altezza del compito i quattro comprimari (Reggi, Valerio, Pittari e Bussolini). Cori (di Alberto Malazzi i grandi e del venerabile Mario Casoni i piccoli) in gran spolvero, meritatamente applauditi a lungo.

Che dire del Kapellmeister? Frédérick Chaslin era (così pare) al suo primo incontro con Gioconda e devo dire che (a parte qualche eccesso bandistico qua e là) ha cercato di scavare - come evidentemente comporta la sua attitudine alla composizione - nei dettagli della partitura per metterne in risalto le tante sfumature e gli aspetti innovativi (che daranno spunti anche a sinfonisti come Mahler). Ne è uscita un’interpretazione (apparentemente?) dimessa e priva di smalto e brillantezza, tanto che il pubblico (a parte l’isolata contestazione) non pare avere apprezzato più di tanto.
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Davide Livermore perde il pelo ma non il vizio (in senso buono, dico) della celluloide: nella breve presentazione del suo Konzept sul programma di sala tira in ballo il Fellini di Casanova e i fumetti veneziani di Moebius. Poi però all’atto pratico il tutto si materializza in... effetti senza cause.

La scenografia (di Giò Forma) prevede nei due atti dispari una struttura cubiforme che racchiude rispettivamente il ponte di Rialto, il Palazzo ducale e la Ca’ d’Oro: struttura che viene fatta via via ruotare di 360° per presentare prospettive diverse (a teatro, a differenza del cinema, la macchina da presa, che è l’occhio dello spettatore, è forzatamente in posizione fissa, così per esplorare il mondo, si fa... girare il mondo). Nei due atti pari abbiamo rispettivamente un onirico brigantino, con stiva trasparente, e... il vuoto desolato del Canal Orfano. Saltuariamente un gigantesca cornice (Venezia è la patria dei dipinti) scende ad incorniciare (appunto) un panorama o più spesso dei tableau vivant o ancora dei video astratti (D-WOK) più o meno appropriati.  

I costumi di Mariana Fracasso sono plausibilmente seicenteschi, con maschere veneziane che toccano l’apice in quella di Laura, recante ai due lati un paio di... corna di bufalo indiano (!) Le luci (Antonio Castro) sono intelligentemente sfruttate per esaltare le scene di festa (Ore incluse) o per incupire quelle di dramma.

Dignitosa la coreografia di Frédéric Olivieri e lodevoli gli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia, protagonisti di un’apprezzabile Danza delle Ore.

Per il resto, movimenti delle masse abbastanza stucchevoli e qualche tocco più o meno gratuito che Livermore si è permesso di inventare, come il fugace incontro fra Enzo e Laura in mezzo alla folla festante a fine del primo atto, o come la presenza di una controfigura della medesima Laura (ufficialmente morta) sdraiata su un lampadario durante il balletto.

Ma è proprio il finale a venire dal regista re-interpretato in modo piuttosto discutibile: la Cieca torna in scena accanto alla figlia e insieme cantano la profezia del rosario; poi, al posto della conclusione dura e verista di Boito (Gioconda che si trafigge e Barnaba che si accusa dell’omicidio della Cieca e fugge imbufalito e imprecante) ecco che allo spione viene recapitata una controfigura rappresentante la salma della cantatrice, mentre la Gioconda in carne ed ossa si riunisce con la madre in... paradiso (?) Insomma, una chiusura consolante che contraddice - pare a me - quella originale.
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In conclusione: uno spettacolo non più che discreto, certamente al di sotto del livello di altre produzioni della stagione in corso. 
 

05 giugno, 2022

Una certa Gioconda sta tornando alla Scala

A partire dal 7 giugno La Gioconda torna alla Scala per la quarta produzione dal dopoguerra (le precedenti risalgono al ’48, ’52 e ’97). 

È noto che le difficoltà di allestire Gioconda risiedono principalmente nella necessità di mettere insieme un cast vocale di quantità (oltre che qualità) assai robusta: si tratta di sei protagonisti e deuteragonisti che coprono altrettante (quindi tutte le) tessiture vocali, dal soprano al basso.

Toccherà al poliedrico 61enne Frédéric Chaslin concertare il cast che include nei sei ruoli principali: Saioa Hernandez (chiamata a sostituire l’indisposta Yoncheva) che ebbi l’occasione di udire nel ruolo di Gioconda nell’aprile del 2018 a ReggioE; Daniela Barcellona che torna alla Scala come Laura; Anna Maria Chiuri che impersona la Cieca (in passato ha cantato anche Laura...); Fabio Sartori (Enzo); Roberto Frontali (Barnaba) e il redivivo Erwin Schrott che sarà Alvise.

Oltre ai 4 comprimari (Beggi, Valerio, Pittari e Bussolini) si esibiranno i cori dei grandi e dei piccoli, diretti da Alberto Malazzi, mentre le coreografie per le Ore (ed altro) saranno affidate a Frédéric Olivieri e agli allievi dell’Accademia.

L’allestimento è affidato ad un ospite ormai quasi fisso nelle stagioni della Scala, Davide Livermore, coadiuvato dal suo team (Giò Forma, Mariana Fracasso, Antonio Castro e D-WOK) dai quali è lecito attendersi uno spettacolo di alto livello. In occasione della sua Tosca scaligera, il regista ne aveva rispettato quasi alla lettera l’ambientazione, sostenendo che la Roma dell’anno 1800 era troppo centrale per il soggetto da non poter sopportare mutamenti di luogo e tempo. Beh, lo stesso si potrebbe anche dire di Gioconda, tutta immersa nella Venezia del ‘600: staremo a vedere.  

Miei commenti seguiranno dopo ascolto-visione dal vivo. Per intanto ripropongo qui alcune mie note sull’opera scritte originariamente quattro anni fa proprio in occasione di una rappresentazione al Valli.