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05 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°62


Programma russo questa settimana (più Campogrande, in Thailandia). A dirigerlo non è, come da remoto annuncio, Wayne Marshall, ma Stanislav Kochanovsky, che pare diventato il tappabuchi-principe (devo dire che se la cava sempre assai bene) de laVERDI.

Il primo brano vede protagonista Nicola Benedetti: chi mai direbbe trattarsi di un’avvenente ragazza 28enne? No, tranquilli, non è un maschietto che ha cambiato sesso: il nome – per noi italiani impensabile per una femmina – si spiega col semplice fatto che lei non è italiana, ma scozzese (sia pure di padre toscano). Lassù Nicola è femmina, il maschio è Nicholas, e allo stesso modo Andrea è nome femminile, essendo Andrew il maschile.

Chiarito il piacevole equivoco, parliamo del Concerto per violino di quel simpatico alcolizzato che rispondeva al nome di Aleksandr Konstantinovich Glazunov. Concerto composto nel 1904 ed eseguito nel 1905 a SanPietroburgo, proprio a ruota di quello del suo dirimpettaio di Helsinki, Jean Sibelius, giusto per inquadrarlo storicamente e pure geograficamente. Ma mentre il finlandese (che pure non lesinava corpose libagioni di… spirito) si era attenuto alla struttura più tradizionale, limitandosi a qualche bizzarra trovata in fatto di acrobazie tonali, il russo costruì il suo concerto con un’ardita operazione di incastro. Nel bel mezzo del primo movimento, dopo la canonica esposizione dei due temi, invece di far seguire lo sviluppo e il resto, cosa ci combina? Infila una sezione tematicamente del tutto nuova, quasi fosse un secondo tempo, conclusa la quale riprende lo sviluppo dei primi due temi, poi li ricapitola, ci aggiunge una cadenza e da qui attacca il rondo conclusivo!

Beh, c’è da riconoscere che i fumi dell’alcol a volte danno frutti strani, ma interessanti. Seguiamone una storica esecuzione di David Oistrakh.
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Su terzine ribattute di clarinetti e fagotti (triade di LA minore) il solista apre subito esponendo il primo tema, Moderato, 4/4:


È una lunga e languida melodia con inflessioni orientaleggianti, che a 53” (animato) assume un carattere momentaneamente più brioso (tutto in terzine) per poi sfociare (1’11”) in un ponte a mo’ di cadenza, dove le folate ascendenti del violino si alternano ad interventi più pesanti dei legni e in cui (1’45”) pare di riconoscere Ciajkovski nell’introduzione del suo concerto per violino. È in effetti l’introduzione al secondo tema (2’04”) tranquillo, in FA maggiore (relativa della sottodominante minore della tonalità d’impianto):


Il tema si sviluppa con inflessioni in minore (2’36”) poi torna al maggiore e viene seguito (3’12”) da una coda che si anima con un serrato dialogo fra il solista e l’orchestra, culminante (3’44”) in un secco accordo di FA maggiore, dove possiamo collocare la chiusura dell’esposizione. Ora inizia un progressivo calando, che porta (4’18”) ad un ponte (tranquillo) di 6 battute, che parrebbe proprio essere la preparazione ad una sezione di sviluppo. Ma qualcosa ci dice che non sarà così: la tonalità infatti è passata chissà come a REb maggiore!

(video2)

Ed infatti, sorpresa-sorpresa, ecco apparire un nuovo tema, anzi un’intera sezione in Andante, col tempo che muta a 3/4, quasi fosse un secondo movimento del concerto:

 
Tema invero dolce e sognante, ancora à-la-Ciajkovski, sviluppato anche in corda doppia, che (1’33”) vira, attraverso un’enarmonia LAb-SOL#, al LA maggiore, da cui modula ulteriormente, con il solista impegnato in grandi virtuosismi (da 1’49”) sullo sfondo di ampie folate dell’arpa. Si torna a REb maggiore (2’20”) dove il solista riprende la melodia portandola alla sua conclusione, con un pizzicato sulla dominante LAb.  

Qui ecco la seconda sorpresa, con il ritorno (Tempo I, 4/4) alla fine dell’esposizione dei due primi temi, che ora – 3’53”, la tonalità vira nuovamente a LA - vengono sottoposti a sviluppo, dalla sola orchestra. Così si ascolta il primo tema (fagotto e viole) e subito dopo (4’13”) il secondo, tuttora in FA (in flauto e oboe).

A 4’53” irrompe gagliardamente (più animato) il solista, che si imbarca in una specie di spiritato scherzo, culminante (5’18”, pesante) in quella che possiamo considerare la ricapitolazione: preceduta da un paio di batti-e-ribatti fra intera orchestra e solista in corda doppia sul primo tema (un tono sopra) e con il solista che poi (5’32”) lo ripresenta in LA, ma assai variato ed impreziosito di virtuosismi; poi (6’59”) ecco tornare il secondo, questa volta canonicamente in DO maggiore.

Si arriva ora, sempre come prescrivono le regole non scritte del concerto solistico, alla cadenza, introdotta (8’08”) da due accordi a piena orchestra. La prima parte (dove riconosciamo il secondo tema, poi il primo) viene chiusa a 9’20” da sette accordi in pizzicato.

(video3)

La seconda parte della cadenza (più sostenuto) ripropone il primo tema virtuosisticamente esposto in corda doppia dalla voce superiore, mentre quella inferiore crea un tappeto di velocissime biscrome. A 1’18” la cadenza si conclude con il rientro molto discreto dell’orchestra (archi bassi e corni, poi timpani) e il solista che attacca in DO maggiore con altre biscrome.

La tonalità poi modula fino a sboccare, sul MI sovracuto del violino, al LA maggiore con cui una smaccata fanfara di trombe (1’42”) irrompe come il proverbiale elefante in cristalleria, attaccando l’Allegro conclusivo (un Rondo sui generis, in 6/8) con l’esposizione del ritornello A, subito ripreso dal solista in corda doppia:

Ancora l’orchestra con il controsoggetto del tema, imitata subito dal violino, che poi riesegue soggetto e controsoggetto un’ottava sopra e con piglio squisitamente virtuosistico. A 2’26” è la sola orchestra a riproporre due volte il tema del ritornello.

Ecco poi il primo episodio (B): un bel tema cantabile che il solista espone (2’38”) sulla dominante di MI maggiore:
 
Torna a 3’34” il ritornello A in LA maggiore nella sola orchestra (due ripetizioni senza controsoggetto). A 3’45” abbiamo l’episodio C nel violino, tonalità RE maggiore:

 
È una saltellante melodia di sapore vagamente contadino, interrotta a 4’09” dall’orchestra che ne ripropone una variante, seguita (4’20”) dal ritorno del violino. A 4’30” ecco un cullante motivo di semiminime puntate nel solista, appoggiato da accordi dell’arpa e sul quale si innestano pregevoli interventi di corno e legni, finchè si giunge (4’49”) alla ripresa del ritornello A, ma assai variato e in DO maggiore, nel solista. Lo riprende l’orchestra, poi ancora il violino, ma modulando bruscamente (5’06”) a LA maggiore, quindi ancora a RE maggiore, poi a SI maggiore, fino a tornare al LA, dove (5’22”, più animato) il solista con una serie di quintine prepara il ritorno del ritornello A (5’30”) che viene eseguito poi nella sua interezza dall'ottavino e dai campanelli, col solista che batte il ritmo in pizzicato (quasi guitarra, sic):



Il tutto fa quasi l’effetto dell’incantesimo del fuoco 

A 5’52” riecco il tema A nel violino, sempre in LA, che inizia calmo (tempo mutato in 3/4) per poi presentare una continua accelerazione. A 6’26” si torna a LA maggiore per il gran finale (tempo 6/8): tre scambi di… cortesie fra orchestra e solista, poi (6’40”, sempre animando) il tempo passa a 2/4 (per tutti tranne che per il solista, che continua con le sue terzine in 6/8) e si accelera continuamente fino alla cadenza conclusiva (7’02”) dove anche il solista si allinea al tempo di 2/4 per gli ultimi battibecchi con l’orchestra che concludono il concerto, con il penultimo accordo del solista che impegna tutte le 4 corde del violino (dal basso: LA-MI-DO#-LA).
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La bella McBenedetti – presentatasi in un elegantissimo lungo nero, con ampia vista sul… ehm, lato-b (zona superiore, cosa credete!) – sciorina tutta la sua gran tecnica. Se posso farle un appunto, ma qui è questione di gusti, mi è parsa eccessivamente metronomica, ad esempio nel finale, dove un maggiore stacco dei tempi nei due episodi centrali non avrebbe guastato.

Per lei comunque un gran successo, che ci ricambia con uno dei bis più inflazionati: la sarabanda dalla seconda partita di Bach, che lei esegue con grande ispirazione.
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C’è forse un legame sotterraneo fra Glazunov e la Seconda sinfonia di Rachmaninov: la quale sarebbe probabilmente tutta diversa, se non fosse accaduto che la Prima (assai più innovativa, devo dire) venisse pesantemente contestata al suo esordio (César Cui arrivò a sentenziare che avrebbe potuto trovare gradimento soltanto all’inferno…) riducendo il Rach in uno stato di tale prostrazione da fargli rischiare la salute. E che c’entra con tutto ciò Glazunov? C’entra perché fu lui, salito sul podio verosimilmente inzuppato di vodka, a far fallire miseramente quella prova del giovane e promettente Sergei!

Il quale, ricominciando a vivere e comporre dopo anni di robuste cure di natura psicanalitica, decise verosimilmente di percorrere – sul piano artistico – strade più sicure e meno perigliose di quella imboccata in precedenza. Così la Seconda resta abbondantemente anacronistica, rispetto agli sviluppi coevi (si pensi a Mahler…) Personalmente su di essa mi sono espresso piuttosto negativamente – per usare una formula farmacologica: mi pare contenga 5 minuti di principio attivo e 45 di eccipiente - in occasione di una performance di Pappano alla Scala; il quale Pappano (avrà ragione lui!) si dice invece innamorato di quest’opera (e lo si vede bene qui).
  
Quando ascolto musica di questo genere mi verrebbe voglia di non applaudire (pensando che mi veda l’autore); ma dato che chi mi vede sono i ragazzi, che devono comunque fare una fatica d’inferno (il direttore un po’ meno…) ecco che – loro, non l’autore – meritano un encomio solenne. Però una sinfonia come questa, fossi Jais, la programmerei una volta ogni 20 anni, ecco.

02 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 22


Ritorna in Auditorium il brillante Wayne Marshall con un programma piuttosto particolare, che sulle prime desta più curiosità che interesse, comprendendo tre opere di assai rara esecuzione, per non dire del tutto sconosciute ai più. Opere di autori nati in un periodo di 15 anni del 1800 ('65 Glazunov - '79 Ireland) e scomparsi in un periodo di 28 anni, in pieno '900 ('34 Holst - '62 Ireland). Quindi autori che hanno vissuto – in modo diverso ma anche con parecchie affinità – quel travagliato periodo che va dal tardo-romanticismo fino alla serialità più spinta, passando per espressionismi, impressionismi, atonalità e dodecafonia.

Si parte dalla perfida Albione, dove Gustav Holst componeva, proprio mentre Mussolini marciava su Roma, la sua strampalata opera in un atto The Perfect Fool. Opera comica, con riferimenti a Verdi, Wagner e Debussy, dove il perfetto idiota sarebbe il pubblico britannico (se lo merita? smile!) In luogo (anzi, prima) dell'ouverture, Holst propone un balletto in un'introduzione e tre quadri: gli spiriti della terra, dell'acqua e del fuoco (per l'aria forse gli mancò l'ispirazione…) Ed è questo balletto introduttivo – unica parte dell'opera ad essere scampata al (meritato) oblio – che ascoltiamo qui. 

Sono i tre tromboni ad introdurre il balletto con un motto che verrà poi ripreso da strumenti diversi nelle transizioni fra un elemento e il successivo e tornerà ancora poco prima della chiusura:
Dopo l'introduzione sono gli Spiriti della Terra ad entrare in azione, su un ritmo sghembo, in 7/8, e con un progressivo crescendo che porta ad una sezione (in 3/8) che serve a dare ulteriore carica alla danza: la quale riprende forsennata in 7/8 per poi sfociare ancora nel ritmo ternario che la porta lentamente ad esaurirsi, sull'Andante che fa da transizione verso l'entrata degli Spiriti dell'Acqua, con viola e violoncello a ripetere il motto. Siamo qui in Allegretto (4/4) e ci accorgiamo trattarsi di acque calme e gocciolanti, rigagnoli o laghetti montani, più che fiumi, mari e oceani, dove arpa e celesta la fanno da padrone. Il perentorio motto – nei corni – richiama ora gli Spiriti del Fuoco, un Allegro moderato in 3/4 che subito sembra sprizzar faville da ogni dove, grazie soprattutto ad ottavino e strumentini (Wagner docet…) Il movimento accelera e contemporaneamente tutti gli strumenti entrano in gioco, proprio a creare un gigantesco falò, che poi pian piano si va spegnendo finchè non ne rimane che… cenere. La viola e il malinconico corno inglese ripetono il motto, prima che il brutale accordo di RE ponga fine alle danze. 

Holst qui conferma certi stilemi già presenti nei suoi Planets (ascoltati tempo fa in Auditorium) come ad esempio il continuo cambiamento di passo e ritmo, caratteristico delle sezioni più mosse del brano, o l'orchestrazione spesso pesante ed enfatica. È musica che si lascia ascoltare, pur non eccitando più di tanto le corde sensibili dell'ascoltatore. 

Ottima prestazione dell'orchestra, soprattutto dei fiati, chiamati a virtuosismi non da poco.

È ancora britannico l'autore del Concerto per pianoforte che ci viene proposto dal 54enne canguro (deve aver gambe lunghe e buone, se lo hanno portato in quaranta continenti, smile!) che risponde al nome di Piers Lane. Si tratta di John Ireland, alla cui scuola studiò – con scarso profitto - anche Britten. Questo è il suo unico concerto, che lui in origine dedicò alla pianista (e compositrice) Helen Perkin, che ne eseguì la prima, nel 1930. Il nostro si innamorò della dedicataria che, per tutta risposta, sposò un architetto (tale George Mountford Adie) e se andò con lui in Australia. Il povero Ireland non dovette prenderla troppo bene, visto che… ritirò la dedica! 

Il concerto – di cui abbiamo la fortuna (!?) di ascoltare un'esecuzione più unica che rara - è pienamente adagiato nel diatonismo e risente di chiare influenze russo-francesi, un misto di romanticheria e di impressionismo, con qualche intervento rumoristico al termine del tempo intermedio (Lento, espressivo) e nel finale (Allegro giocoso, nel quale compare due volte una sezione lenta, prima della cadenza conclusiva). Una cosa mediamente gradevole, senza punte di eccellenza, il che spiega la sua scarsa popolarità sia fra gli interpreti che fra gli ascoltatori. 

Piers Lane, che arriva bardato con coccarda al bavero del frac, scarpe di vernice e calzini a scacchi bianco-neri (quella dei calzini demenziali è una sua specialità!) e che non si vergogna a suonare con spartito sul leggìo e assistente gira-pagine, ce la mette proprio tutta per spremerne il non abbondante succo e si merita l'applauso di un pubblico non propriamente… oceanico. Così, per distendere l'atmosfera piuttosto mogia, si esibisce in un numero tipo pianista matto, alla MacRonay…

Si chiude con Alexander Glazunov e la sua Quarta Sinfonia. Lui ha vissuto quasi contemporaneamente a tale Richard Strauss, da lui cordialmente odiato (era uso andarsene quasi regolarmente nel bel mezzo delle rappresentazioni di opere del bavarese) e, così come quest'ultimo compose i suoi poemi sinfonici prima della fine del 1800, anche Glazunov compose quasi tutte le sue otto (e… mezza) sinfonie in quel periodo. La quarta è più o meno contemporanea della seconda di Mahler, tanto per dare un riferimento. È anche la sinfonia con cui Glazunov si stacca definitivamente dal mondo autarchico dei cinque per guardare – nella scia di Ciajkovski e anticipando Rachmaninov (non certo Stravinski né Prokofiev) - verso ovest, dove si trasferirà sempre più spesso e passerà anche gli ultimi suoi anni, in barba a Stalin (smile!

Sinfonia dedicata all'austero Anton Rubinstein (quello che si mise le mani nei capelli ascoltando il concerto per pianoforte di Ciajkovski…) di cui divenne successore alla guida del Conservatorio di SanPietroburgo (dove in pratica rimase – direttamente o… per procura, dall'estero - fino alla morte).
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La Sinfonia sembra richiamarsi vagamente alla Piccola Russia di Ciajkovski. Come quella ha il primo movimento strutturato in forma-sonata, ma con parecchie libertà. Inizialmente abbiamo un'Introduzione (50 battute di Andante, 9/8) dove, dopo due accordi di MIb minore, è il corno inglese ad esporre una melodia dal caratteristico sapore russo, che sfocia fugacemente sulla tonalità relativa di SOLb maggiore:
E sempre ondeggiando fra SOLb e MIb sono le viole ad esporre un nuovo, cantabilissimo tema:

Dopo la ripresa del tema iniziale, c'è una modulazione a DOb maggiore e infine l'introduzione si adagia sul MIb maggiore, tonalità d'impianto con cui attacca l'Allegretto Moderato in 4/4. L'oboe solo ci fa udire subito un tema sognante:
Risentiremo questo tema, arricchito di enfasi e vivacità, nel Finale. Gli risponde il clarinetto, poi è tutta l'orchestra a sviluppare il motivo, fino a sfociare – come vuole la forma-sonata - nella dominante di SIb, ma non per presentare un secondo tema, bensì (Più mosso, scherzando) per la riproposizione variata dei due temi dell'introduzione, il primo nella relativa SOL minore, il secondo in SIb, e ancora il primo in SOL. 

Adesso il tempo si fa Tranquillo, spariscono gli accidenti in chiave ed il corno solo espone, a mo' di richiamo, il primo tema dell'introduzione, il che dà inizio a quella che si potrebbe chiamare la sezione dello sviluppo, che tosto si anima (Più allegro e agitato) con l'interazione dei due temi introduttivi, seguiti poi dal tema – variato e virante al lugubre - dell'Allegretto

Si torna al Tempo I con una specie di ricapitolazione: è il tema in MIb dell'Allegretto ad occuparne la prima parte, conclusa da una cadenza in Tempo rubato (animato e passionato) che lascia spazio al ritorno dell'Andante e dei temi dell'introduzione, il secondo dei quali, in MIb, porta alla definitiva comparsa del tema dell'Allegretto, che chiude il movimento con un tranquillo accordo dell'intera orchestra. 

Lo Scherzo (canonicamente in SIb) è una danza in 6/8, Allegro vivace, che presenta il suo caratteristico tema principale, esposto dall'ottavino dopo un'introduzione che ce lo lasciava solo intravedere:
Dopo che il tema è stato reiterato, ecco un controsoggetto, in FA maggiore, esposto anche da una fanfara di corni:
Arriva poi il Trio, Poco meno mosso, Tranquillo (3/4 in REb): è il clarinetto ad esporne il languido tema, accompagnato dai flauti con accordi di terze in staccato:

Al termine abbiamo la ripresa dello Scherzo, con i due suoi motivi che lo conducono alla chiusa, su un pizzicato in SIb di tutti gli archi. Non è chiaro con quale plausibilità si dica che questo brano intenda rappresentare un quadro di Böcklin

Anche il finale sembra abbastanza mutuato dalla seconda di Ciajkovski: si inizia in tempo Andante (4/4 MIb) con un'introduzione nella quale il clarinetto e poi altri fiati anticipano, in atmosfera lugubre, il primo tema. Questa introduzione poi sfocia, dopo una serie di animando e dopo 43 battute, nell'Allegro (2/2) che caratterizza il movimento. 

Il primo tema è esposto e riproposto finalmente in MIb maggiore nella sua piena vivacità:

Poi il tema viene ampliato e sviluppato, fino a modulare alla sottodominante di LAb maggiore e da qui, abbastanza sorprendentemente, a SOL maggiore, dove compare nell'oboe – Meno mosso e tranquillo - un secondo tema, più cantabile:

Ora inizia uno sviluppo che presenta moltissime modulazioni: dal MIb al DO maggiore, poi al FA maggiore, quindi ancora a LA maggiore, RE maggiore e SI maggiore! Finalmente si torna… a casa, in MIb su cui converge (le regole!) anche il secondo tema.

Ora ecco l'ultima sorpresa: ricompare il tema dell'Allegretto iniziale - molto mosso e caricato di colori - a conferire alla sinfonia il carattere di ciclicità. Infine è il primo tema, assai sviluppato ed enfatizzato, a condurci alla solenne e pomposa conclusione.
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Marshall affronta la sinfonia con piglio persino eccessivo (l'introduzione più che un Andante pareva un Allegretto) ma in complesso mi è parso rendere adeguatamente lo spirito della composizione. Bene l'orchestra e in particolare i fiati, tutti in gran forma.

E sarà ancora l'esuberante britannico-caraibico-maltese a tenerci svegli la prossima settimana con musica dal nuovo mondo. (Prima però ci sarà da godersi la premiata coppia Claudio&Martha).


18 dicembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 11

Il programma dell'undicesimo concerto – diretto da Evgeny Bushkov, che ha sostituito Vladimir Fedoseyev, originariamente in locandina, è ancora tutto dedicato alla Russia: in buona parte a quella meno conosciuta (ma stavolta pochissimi i vuoti nell'Auditorium); per il resto, quasi a far da contrappeso, a quella universalmente nota e spesso fischiettata.

Con Orchestra in disposizione moderna, si comincia con Glazunov e il suo Poema Lirico, un Andantino per grande orchestra, composto a San Pietroburgo fra il 1882 e il 1887 e dedicato ad un altro oscuro musicista russo, di una dozzina d'anni più anziano di Glazunov, Nikolai Vladimirovich Shcherbachev. Costui fu labilmente legato al Gruppo dei cinque (nella cui atmosfera postuma - fra attrazioni russofile e repulsioni occidentalizzanti - si trovava anche Glazunov) e coinvolto, nientemeno che con Liszt, in una specie di giochetto inventato da Borodin e consistente nel comporre variazioni al piano sull'albionico tema detto Chopsticks.

Il brano è in tempo ternario (9/8) e in tonalità base di REb maggiore, con brevi divagazioni a MI e RE. L'arpa via ha una parte significativa, a sottolineare appunto il lirismo della melodia. I temi sono principalmente due, quello secondario esposto nell'introduzione in MI, il principale in REb, con andamento discendente, dalla dominante alla sopratonica dell'ottava inferiore. Dopo una sezione centrale (in RE e MI, dove abbiamo un crescendo che ricorda vagamente il preludio del Tristan) il secondo tema ricompare, contrappuntato da flauti e clarinetti con veloci semicrome, prima che il tema principale riprenda il soppravvento, per poi quasi dissolversi nella chiusa in ppp (una semiminima dell'arpa e degli archi in pizzicato mette il sigillo definitivo).

Oltre che di quella del suo mentore Ciajkovski, nel brano si sente un'eco, neanche poi tanto lontana, di Wagner. Ma vi si intravedono segni premonitori di Strauss e anche di Mahler (del resto Franz Liszt, il papà del tardo romanticismo, era considerato il campione della nuova musica dai cinque e dai loro seguaci).

Misurata e composta la direzione di Bushkov, e brava l'orchestra, con gli archi chiamati spesso, col timpano, a lunghi tremoli di sostegno alle melodie dei fiati.

Ancora di Glazunov è in programma il concerto per sassofono contralto e orchestra d'archi. Lo esegue Asya Fateyeva, una ragazza di 19 anni (che quindi non può non essere su Facebook).

Sono passati quasi 50 anni dal Poema, e lo si sente, sia nei contenuti che nella forma. Libera quest'ultima, popolari e moderni i primi, al pari dello strumento solista.

In 4/4 Allegro moderato gli archi introducono il tema principale, in Mib maggiore, poi presentato e sviluppato dal solista; si ha quindi una specie di variazione, nella dominante SIb, con evoluzioni del solista (Allegretto scherzando) che passa in SOL minore, su cui si chiude questa sezione, con un accordo in pizzicato degli archi. Si riprende in Mib, ma per poco, poiché una transizione ci porta nella tonalità più zeppa di bemolli che si possa immaginare (DOb) e in tempo ternario (3/4). È un Andante, dove il solista presenta un nuovo tema ondeggiante, che ci riporta a MIb. Con terzine che salgono e scendono sempre più rapidamente si arriva ad un Andante sostenuto, 5 sole battute in SI maggiore, che introducono un Più mosso, allegretto, con tonalità cangianti continuamente e un altro tema, che viene variato (tempo Passionato, in MI) con ulteriore accelerazione di semicrome (Allegro in MIb) fino al rallentando che reintroduce i 4/4 del tema iniziale, preludio per la cadenza solistica, piena di veloci semicrome.

Adesso una transizione, caratterizzata nel sax da crome con ampi intervalli (ottave ascendenti e discendenti) porta, in 12/8 ad una specie di saltarello (Allegro). Il solista ripropone il tema principale, dapprima molto dilatato, poi variato con terzine sostenute dagli archi. Dopo un breve intermezzo in cui tace, il solista ancora torna sul tema principale, con gli archi che incalzano sempre più, fino ad un Più animato, dove udiamo ripetuti trilli del sax; poi tornano le figure con intervalli di ottava, e si arriva al rallentando che introduce la coda. Accelerazioni e grandi voli di semicrome, una breve pausa per prendere la rincorsa e poi salita alla tonica sopra il rigo, di qui ancora su alla mediante e alla dominante acutissima, ancora svolazzi di semicrome e la definitiva conclusione, con discesa a rotta di collo (16 biscrome) dalla mediante acuta alla tonica, due ottave sotto. Ancora croma e semicroma, per risalire le due ottave, prima che gli archi suggellino il tutto, à la Ciajkovski.

La bella e sorridente Asya ha davvero entusiasmato, con un legato davvero eccellente, e lei stessa appare divertirsi un mondo, il che è di sicuro il modo migliore per far musica. Applausi strameritati del pubblico che si guadagna, a mo' di bis, la ripetizione del saltarello finale.

È l'ultimo concerto prima di Natale, e quindi un riferimento alla festività non poteva mancare (anche il meteo aveva fatto la sua parte ieri mattina, facendoci trovare la città imbiancata da una spolveratina di neve). Ed ecco quindi il ciajkovskiano Schiaccianoci, gli otto numeri della Suite Op.71a, un estratto (più l'ouverture) dai 15 numeri del balletto in due atti.

La suite è costruita in modo estremamente curato, sia nell'ambientazione, sempre leggera e cameristica, che nell'impianto tonale (che spiega la posizione avanzata della Fata e del Trepak, rispetto al balletto); vi compaiono, in una specie di circolo, solo quattro tonalità (maggiori o minori) e sempre distanziate da terze, con la seguente progressione:

1. SIb maggiore: Overture miniatura

2. SOL maggiore: Marcia

3. MI minore: Danza della Fata Confetto

4. SOL maggiore: Danza russa (Trepak)

5. SOL minore: Danza araba (il Caffè)

6. SIb maggiore: Danza cinese (il Thè)

7. RE maggiore: Danza dei mirliton (gli zufoli)

8. RE maggiore: Walzer dei fiori

Bushkov però ci fa una sorpresa, un regalino di Natale, arricchendo la Suite di un numero: dopo i mirliton attacca la sezione iniziale del Pas de deux (SOL maggiore) dove sottopone l'arpista ad un doppio lavoro (la partitura prescrive due esecutori) e dà modo alle percussioni (piatti, oltre che i timpani) di fare il dovuto fracasso. Pubblico plaudente dopo gli accordi finali. Ma il Maestro si gira come a dire: vi è piaciuto lo scherzetto? E subito attacca il conclusivo, strafamoso Walzer. Le ovazioni si sprecano, e così ci viene elargito un secondo Trepak, che chiude in bellezza l'esibizione. Atmosfera calorosa dentro, mentre fuori (qualche altro fiocco di neve avrebbe dato il tocco giusto alla serata) freddo becco, e basta.

Buon Natale quindi a laVerdi. Ci si ritrova per il passaggio dal 2009 al 2010, che sarà onorato con un grandissimo impegno di tutta la compagine: la nona di Beethoven.