Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

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06 novembre, 2025

Gran ritorno alla Scala della terz’ultima di Mozart.

Così fan tutte è tornata alla Scala dopo 11 anni di assenza (2014, Guth-Barenboim) affidata alle cure della coppia Carsen-Soddy.

In Largo Antonio Ghiringhelli un gruppo di sindacalisti del CUB distribuisce e legge il testo di un volantino in cui si richiama l’attenzione del pubblico su alcuni problemi di carattere organizzativo e gestionale che sono oggetto di rivendicazioni delle maestranze cui la Direzione del Teatro non avrebbe ancora dato risposta. Si tratta di criticità relative agli organici e alle professionalità, al ricorso sempre più frequente agli appalti e all’attenzione alle problematiche di sicurezza negli ambienti di lavoro (Teatro e Laboratori Ansaldo). L’obiettivo dichiarato è di conservare al Teatro la prerogativa di luogo d’arte, evitando che diventi solo fabbrica di spettacoli.

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L’interesse principale di questa nuova produzione risiedeva nella messinscena di Robert Carsen e del suo team (Luis Carvalho per scene e costumi, Peter vanPraet per le luci, Renaud Rubiano per i video e Rebecca Howell per le coreografie). E già faceva discutere la decisione del regista di ambientare la vicenda in uno scenario tipico dei moderni reality televisivi. Il che ha provocato (prevedibili?) isolate contestazioni alla fine dello spettacolo. Personalmente le ritengo abbastanza pretestuose e probabilmente frutto di pregiudizi e non di seria e oggettiva valutazione.

Ripropongo qui alcune mie personali elucubrazioni sul soggetto di DaPonte che mi portano a riconoscere a Carsen l’intelligenza del suo approccio. In sintesi, l’abilità e il merito del regista stanno nell’aver evitato di far aderire a tutti i costi il testo originale al suo personale Konzept, ma di aver utilizzato con parsimonia ed efficacia alcuni aspetti (soprattutto esteriori) dell’ambiente reality per dare valore aggiunto alla sua proposta.

È fuor di dubbio che esistano sostanziali differenze fra i due scenari, in primo luogo riguardanti la posizione dei quattro personaggi che costituiscono le due coppie: in un reality essi, come ogni altro partecipante alla kermesse, sono perfettamente coscienti di ciò che li aspetta (hanno fatto richiesta di partecipare, sostenuto esami di idoneità e ricevuto in anticipo tutte le regole e raccomandazioni del caso); viceversa nel soggetto dapontiano i protagonisti si trovano, loro malgrado e involontariamente coinvolti in un’avventura per affrontare la quale non sono minimamente preparati.

Ecco, Carsen rispetta in pieno (anche in dettagli minimi) il soggetto dapontiano, arricchendolo però di verve, vivacità e… modernità. Alcuni esempi: la scena della partenza verso il campo, con l’esagerata portaerei che lentamente si allontana e il picchetto d’onore dei militari (maschi e femmine!) che salutano le nuove reclute; quella del finto avvelenamento, dove i due albanesi tracannano il veleno direttamente dalle taniche del cloro disinfettante della piscina, e dove Despina li guarisce con strumenti di moderna telemedicina; i due dormitori, femminile e maschile, dove prendono vita i pistolotti di Despina alle ragazze (del reality, quindi a tutte le ragazze che lo guardano in TV) o quello di Guglielmo ai maschi, con l’esibizione di riviste erotiche; le coreografie che accompagnano la scena del finto matrimonio, …

Dal punto di vista tecnico, l’ormai imprescindibile impiego della piattaforma rotante (qui divisa in tre spicchi di 120°) rende possibili i frequenti mutamenti di scena; per gli ambienti esterni (imbarco, piscina, terrazza sul mare per gli incontri romantici, giardino per il matrimonio) uno schermo occupa l’intera parete di fondo, dove sono proiettate immagini fisse o mobili. I costumi sono ovviamente moderni, colorati, eleganti; non mancano smartphone e microfoni portatili, schermi che diffondono ciò che avviene in scena…

Insomma, tutte trovate intelligenti e mai volgari che rimuovono gli aspetti un po’ claustrofobici del soggetto originale, tutto concentrato sui soli sei personaggi in scena.

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Notizie eccellenti dal fronte dei suoni. Alexander Soddy ha perfettamente coadiuvato l’impostazione registica con una direzione scoppiettante, senza mai un attimo di respiro, ma supportando al meglio anche i pochi squarci lirici (le accorate esternazioni di Firdiligi e Ferrando) grazie all’Orchestra che ha mostrato come sempre grande compattezza, ma anche le sue risorse solistiche (corno in primo luogo).

Il coro diretto per l’occasione da Giorgio Martano ha fatto egregiamente la sua (peraltro non massacrante) parte.

I sei interpreti tutti all’altezza del compito. A partire dalla Elsa Dreisig, una Fiordiligi dalla voce penetrante in tutta la gamma (perfettamente udibile anche sulle note gravi). Grande maestria nel rendere la complessa personalità della donna, piena di sensi di colpa e combattuta da dubbi esistenziali fino all’ultimo. Punte di diamante della sua interpretazione l’aria Come scoglio immoto resta e il Rondò Per pieta, ben mio, perdona.

Nina van Essen ha sfoggiato la sua brunita voce mezzosopranile per valorizzare al meglio il ruolo della più disinibita Dorabella. Da incorniciare le sue due arie: quella truculenta (Smanie implacabili) e quella ammiccante (È amore un ladroncello).

Sandrine Piau è una perfetta Despina, voce squillante, proprio maliziosa e sbarazzina, si direbbe, esaltata dalle due arie, la prima con la negazione della fedeltà (In uomini, in soldati) e la seconda, con la disinibita lezione alle ragazze (Una donna a quindici anni).

Il poliedrico e versatile Luca Micheletti impersona Guglielmo, mettendo al suo servizio una voce sempre ben impostata, convincente nelle sue avances amorose (Non siate ritrosi, occhietti vezzosi) come nella tutto sommato bonaria e fatalistica invettiva contro le donne (Donne mie, la fate a tanti).

Il complessato Ferrando è efficacemente interpretato da Giovanni Sala, che sfoggia voce robusta e suadente, come nella sua aria Un’aura amorosa del nostro tesoro.

Su tutti i maschi il DonAlfonso di Gerald Finley: splendida voce baritonale e gran presenza scenica, come si addice al personaggio-chiave di tutta la vicenda.

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Al termine applausi a non finire per tutti, con punte per Dreisig e Finley. Fuori luogo davvero i buh per Carsen. Che non tolgono a questa produzione – a mio modesto avviso – il grande merito di aver chiuso davvero in bellezza la stagione 24-25.

Questa sera, RAI5 alle 21:15 diffonde la registrazione di ieri; che resta poi per 15 giorni disponibile su RAI Play. Chi può non se la perda!


17 gennaio, 2025

Gatti (e Strehler) fanno rivivere Falstaff alla Scala.

Ancora Verdi in scena per il secondo spettacolo dalla stagione, che presenta una storica produzione dell’opera ultima del Peppino. Ier sera la prima, accolta da un caloroso successo di pubblico (folto sì, ma non proprio da tutto-esaurito, e con qualche defezione lungo il cammino…)

Poche parole per elogiare, a 45 anni di distanza, l’allestimento di Strehler (ripreso da Marina Bianchi) che resta tutt’oggi un esempio di fedeltà a testo e musica, resistente agli attacchi del tempo. Di certo superiore a quello abbastanza velleitario di Michieletto (dato qui ultimamente nel 2017) e al precedente ancora, moderno ma non certo esente a sua volta da critiche, di Carsen (2013-15).

Ecco, di quella ripresa del 2015 resta oggi in piedi il… podio: dove è tornato Daniele Gatti, che quest’opera la conosce come le sue tasche (l’ha diretta tutta a memoria). Se devo fargli un appunto, mi è parso un poco eccedere nelle dinamiche, spesso sovraccaricando il suono dell’orchestra, così correndo il rischio di coprire le voci. A proposito dell’orchestra, una curiosità: dieci anni fa Gatti aveva disposto legni e corni all’estrema sinistra, mentre oggi è tornato ad un layout abbastanza usuale.

Alla fine, per lui e per il coro di Malazzi (come per il team della Bianchi) solo applausi e consensi.

Il cast ha in generale ben meritato. A parte Ambrogio Maestri, che con il passare degli anni e delle… recite sembra ancora migliorare, mi sentirei di dargli dei giudizi che vanno dal buono, al discreto al sufficiente, suddividendolo in tre gruppi: nel primo colloco la Quickly di Marianna Pizzolato, il Ford di Luca Micheletti e il Cajus di Antonino Siragusa; nel secondo la altre tre rappresentanti del sesso debole: la Alice di Rosa Feola, la Nannetta di Rosalia Cid e la Meg di Martina Belli; nel terzo gli altri tre maschietti: Marco Spotti (Pistola), Christian Collia (Bardolfo) e Juan Francisco Gatell (Fenton).

E infine, giusto menzionare il piccolo paggio Lorenzo Forte, un prezzemolino (invenzione di Strehler) davvero bravo e simpatico.

In conclusione, una serata tutto sommato piacevole, in attesa dell’incombente panzer wagneriano.


01 ottobre, 2023

Le Nozze scaligere: ancora e sempre Strehler


O.T. Ieri sera è iniziata la distribuzione agli abbonati di un ricco volume che ricorda il quarantennale sodalizio del Maestro Chailly con la Scala. Oltre ad una selezione di fotografie di archivio vi compaiono interventi di alcuni musicologi che hanno collaborato o attualmente collaborano con il Teatro (Franco Pulcini, Elisabetta Fava, Elvio Giudici, Giorgio Pestelli, Raffaele Mellace, Angelo Foletto e Andrea Vitalini) preceduti da una prefazione del Sovrintendente Dominique Meyer. Chiude il volume la serie delle 50 locandine di Opere e Concerti diretti fin qui dal Maestro. Un’iniziativa di quelle che solitamente si mettono in atto a distanza di tempo, mentre qui riguarda un personaggio tuttora alla guida musicale del Teatro. Con tutto il rispetto e l‘ammirazione per Chailly, ci trovo francamente un retrogusto di culto della personalità

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È ormai dal lontano 1981 che le Nozze mozartiane si rappresentano in Scala con l’allestimento di Giorgio Strehler, ripreso, come negli ultimi anni (anzi lustri) da Marina Bianchi; unica eccezione, la fugace parentesi del 2016, Wake-WalkerE devo dire che questo è proprio uno di quegli allestimenti che non invecchiano mai ed è giusto quindi che vengano esibiti come si fa con qualunque grande opera d’arte nei musei! E anche in rete si può sempre godere di questo spettacolo (qui1 e qui2).

Questa ripresa impiega un cast abbondantemente confermato rispetto a quello della precedente (2021, Direttore Daniel Harding) nei ruoli di:

Figaro: Luca Micheletti
Cherubino: Svetlina Stoyanova
DonBartolo: Andrea Concetti
DonBasilio: Matteo Falcier
DonCurzio: Paolo Antonio Nevi
Contadinelle: Silvia Spruzzola e Romina Tomasoni.

I nuovi ingressi sono:

Conte: Ildebrando D’Arcangelo, che fu Figaro nel 2002 e 2006 (poi diede forfait nel 2012)
Contessa: Olga Bezsmertna
Susanna: Benedetta Torre
Marcellina: Rachel Frenkel
Barbarina: Mariya Taniguchi
Antonio: Filippo Ravizza 

La Direzione è affidata al 46enne Andrès Orozco-Estrada (uno che ha opportunamente lasciato la città natale, la famigerata Medellin, per trasferirsi nella un po’ meno pericolosa, almeno per ora, Europa) che torna al Piermarini dopo aver diretto un concerto della Filarmonica quasi 7 anni fa. E proprio il Direttore colombiano è stato l’artefice del successo della recita: con il suo gesto secco e nervoso (a volte persino indiavolato) ha tenuto sempre in pugno la situazione, fin dall’Ouverture, senza cali di tensione né inopportune sbracature. E l’Orchestra lo ha perfettamente assecondato, così come il Coro di Giorgio Martano, che pure ha un impegno non proprio sovrumano.

Bene anche tutto il cast, nei singoli componenti e negli insiemi e concertati. A testimonianza di ciò, le arie sono state tutte invariabilmente accolte da applausi a scena aperta, così come il 4 finali d’atto.

Luca Micheletti è stato un Figaro di grande spessore: la sua voce di basso-baritono ha perfettamente vestito la personalità del servitore fedele ma anche dell’innamorato geloso e sospettoso. Da parte sua Ildebrando D’Arcangelo (passato come detto dal ruolo del titolo a quello del Conte) ha messo la sua lunga esperienza e la sua voce sempre integra e profonda al servizio dello spettacolo.

Ben assortita anche la coppia di protagoniste femminili: Benedetta Torre ha prestato la sua bella voce leggera al personaggio della casta Susanna, mentre Olga Bezsmertna è stata una convincente Contessa, unica, patetica vittima, in fondo, di questa folle journée, confermando l’ottima impressione già data nella recente Rusalka.

Assai efficace Svetlina Stoyanova, un Cherubino che (mi) ha ricordato la grande Teresa Berganza, con Abbado nei lontani anni ’70.

Tutti gli altri indistintamente all’altezza dei rispettivi compiti, dai tre Don (Andrea Concetti e poi Matteo Falcier e Paolo Antonio Nevi) alla Marcellina di Rachel Frenkel, all’Antonio di Filippo Ravizza, alla Barbarina di Mariya Taniguchi (che si è distinta nella sua breve cavatina che apre il 4° atto) e infine alle due contadinelle Silvia Spruzzola e Romina Tomasoni.

Per tutti alla fine applausi convinti, che hanno incorniciato una bella serata di musica.

29 gennaio, 2023

La Scala celebra i Vespri d’oggi.

Tornano alla Scala dopo più di 30 anni i Vespri… modernizzati. Nel senso che il soggetto messo in scena (oggi dal visionario Hugo De Ana) è un’attualizzazione plausibile – a livello concettuale – del testo originale di Scribe con la conseguente musica del Giuseppe.

Cioè ci vediamo due ben distinte parti in causa: un regime invasore/oppressore (rappresentato da tale Monforte) e un popolo ribelle/resistente (guidato da tale Procida). Quindi, per stare alle più attuali delle attualità: Russia-Ukraina, oppure Ayatollah-popolo, o anche Turchia-Kurdi, Talebani-popolo e così via elencando piacevolezze simili disseminate sull’intero pianeta. Pertanto nessuno si scandalizzi se in scena si vedono i Leopard e le squadre speciali antisommossa: mutatis-mutandis, è sempre l’eterno scenario che si ripete, nel 2023 come 741 anni addietro.

Nulla a che vedere perciò – tanto per citare un clamoroso caso contrario, cioè di assoluta inconsistenza fra l’attualizzazione registica e il soggetto originale – con la visione lunatica presentataci da Livermore a Torino nel 2011 in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.

Tuttavia il regista argentino si è beccato una nutrita salva di buh all’uscita finale, il che dimostra che il non stravolgimento dei contenuti del soggetto originale non sia condizione sufficiente a garantire il successo della messinscena.

Di cui probabilmente il pubblico (e il sottoscritto fra questi) non ha gradito l’eccessiva insistenza sugli aspetti crudi, cruenti e nichilisti della repressione e delle umiliazioni che il potere infligge al popolo vessato. Insomma, nel Vespri di Scribe-Verdi ci sono anche squarci di luce e di serenità, che sono dal regista totalmente ignorati. Quindi: cannoni e tank fin dall’inizio, poi scene di continua desolazione: Procida approda sui resti di una battaglia, non in una ridente valle, con colline fiorite di cedri e aranci; sulle note della barcarola vediamo (in luogo di donne adagiate su molli cuscini sul battello) donne a terra prive di sensi (forse stuprate dai biechi invasori?); e il carcere dell’atto IV nulla ha da invidiare a Guantanamo

E sempre incombe in scena la morte: quella del Settimo sigillo! Che fin dall’inizio gioca a scacchi con il soldato crociato: ??? Si, vabbe’, Federico II era stato alla quinta crociata 60 anni prima del Vespri… o il regista aveva in mente qualche altro nesso con il soggetto da rappresentare?

Ecco, a questo punto si può inserire il discorso sui balletti. A parte quella sulla lingua (in Italia ormai è raro - e forse avrebbe poco senso - dare l’opera in quella originale francese) la domanda che sempre ci si pone di fronte all’annuncio della messa in scena di Vespri è proprio questa: ma i balletti? Ebbene, proprio nella precedente comparsa al Piermarini (Muti, 1989, con Pizzi) vennero tutti eseguiti, mentre oggi si è deciso per il no. Quindi: niente Quattro Stagioni (Atto III, Scena V) e niente Sposalizio (Atto V, Scena I).  Resta un minimo di coreografia per la sola Scena VI dell’Atto II, il ratto delle siciliane da parte della soldataglia francese aizzata da Procida.

Di sicuro c’è che, con la regìa di De Ana, le danze (35 minuti di grande musica!) ci sarebbero state come i cavoli a merenda, quindi viene spontanea la domanda sul nesso causa-effetto fra messinscena e balletti: è la rinuncia preventiva del Teatro a presentarli (causa) ad avere consentito a De Ana questa messinscena (effetto) o è l’impostazione registica (causa) che ha imposto al Teatro di rinunciare ai balletti (effetto)? Si accettano scommesse in merito…
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Molto meglio le cose sono andate per fortuna sul piano musicale, grazie alla perizia del concertatore: Fabio Luisi ha dato, fin dall’impeccabile esecuzione della grande Sinfonia, una lettura convincente della partitura verdiana, cogliendone sia la tinta generale che i minimi dettagli e sfumature. Massima precisione nel gestire il palco, con attacchi a voci e coro sempre precisi e con dosaggi delle dinamiche che mai hanno penalizzato le voci.

Dati i giusti meriti, ma è quasi scontato, al Coro di Malazzi, va elogiato in blocco il cast delle voci: a cominciare da quelle dei due personaggi rappresentativi delle due parti in causa: Luca Micheletti, un Monforte di grande spessore, nei suoi atteggiamenti da dittatore come in quelli del padre che inopinatamente ritrova il figlio perduto; e Simon Lim (cresciuto in passato all’Accademia scaligera) che è stato un Procida tanto più meritevole in quanto arrivato sulla scena quasi all’ultimo momento.

Piero Pretti è un convincente Arrigo, voce squillante, acuti ben tenuti ed efficace resa di questo tormentato personaggio, vittima del… destino cinico e baro.

Vengo ora alla Elena di Marina Rebeka: tutto bene per lei fino alla seconda scena dall’atto IV (il duetto con Arrigo, dopo la scoperta dell’identità dell’amato, al termine del quale ha avuto un meritato applauso a scena aperta). Poi il patatrac: alla fine della Siciliana (che poi sarebbe una… Polacca) dell’atto conclusivo, una sonora salva di buh dal secondo loggione si è mescolata ai prevalenti applausi del resto del pubblico! Per me, davvero incomprensibile. E le contestazioni, più o meno isolate, sono poi proseguite alle diverse uscite finali. Mah…

Bene tutte le altre voci maschili (bassi e tenori) che hanno dignitosamente e meritoriamente dato il loro contributo al successo della parte musicale dello spettacolo.