Tornano alla
Scala dopo più di 30 anni i Vespri… modernizzati. Nel senso che il soggetto messo in scena (oggi dal visionario
Hugo De Ana) è un’attualizzazione plausibile – a livello concettuale – del
testo originale di Scribe con la conseguente musica del Giuseppe.
Cioè ci
vediamo due ben distinte parti in causa: un regime invasore/oppressore
(rappresentato da tale Monforte) e un popolo ribelle/resistente (guidato da
tale Procida). Quindi, per stare alle più attuali delle attualità: Russia-Ukraina,
oppure Ayatollah-popolo, o anche Turchia-Kurdi, Talebani-popolo e così via elencando
piacevolezze simili disseminate sull’intero pianeta. Pertanto nessuno si scandalizzi
se in scena si vedono i Leopard e le squadre speciali antisommossa:
mutatis-mutandis, è sempre l’eterno scenario che si ripete, nel 2023 come 741
anni addietro.
Nulla a che
vedere perciò – tanto per citare un clamoroso caso contrario, cioè di assoluta
inconsistenza fra l’attualizzazione registica e il soggetto originale – con la
visione lunatica presentataci da Livermore a Torino nel 2011 in
occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.
Tuttavia il
regista argentino si è beccato una nutrita salva di buh all’uscita
finale, il che dimostra che il non stravolgimento dei contenuti del soggetto
originale non sia condizione sufficiente a garantire il successo della
messinscena.
Di cui probabilmente
il pubblico (e il sottoscritto fra questi) non ha gradito l’eccessiva
insistenza sugli aspetti crudi, cruenti e nichilisti della repressione e delle
umiliazioni che il potere infligge al popolo vessato. Insomma, nel Vespri di
Scribe-Verdi ci sono anche squarci di luce e di serenità, che sono dal regista
totalmente ignorati. Quindi: cannoni e tank fin dall’inizio, poi scene di
continua desolazione: Procida approda sui resti di una battaglia, non in una
ridente valle, con colline fiorite di cedri e aranci; sulle note della barcarola
vediamo (in luogo di donne adagiate su molli cuscini sul battello) donne
a terra prive di sensi (forse stuprate dai biechi invasori?); e il carcere dell’atto
IV nulla ha da invidiare a Guantanamo…
E sempre
incombe in scena la morte: quella del Settimo sigillo! Che fin dall’inizio
gioca a scacchi con il soldato crociato: ??? Si, vabbe’, Federico II era stato
alla quinta crociata 60 anni prima del Vespri… o il regista aveva in mente qualche
altro nesso con il soggetto da rappresentare?
Ecco, a questo
punto si può inserire il discorso sui balletti. A parte quella sulla
lingua (in Italia ormai è raro - e forse avrebbe poco senso - dare l’opera in
quella originale francese) la domanda che sempre ci si pone di fronte
all’annuncio della messa in scena di Vespri è proprio questa: ma i balletti?
Ebbene, proprio nella precedente comparsa al Piermarini (Muti, 1989, con Pizzi) vennero tutti eseguiti, mentre oggi si è deciso per il no. Quindi:
niente Quattro Stagioni (Atto III, Scena V) e niente Sposalizio (Atto
V, Scena I). Resta un minimo di
coreografia per la sola Scena VI dell’Atto II, il ratto delle siciliane
da parte della soldataglia francese aizzata da Procida.
Di sicuro c’è
che, con la regìa di De Ana, le danze (35 minuti di grande musica!) ci
sarebbero state come i cavoli a merenda, quindi viene spontanea la domanda sul
nesso causa-effetto fra messinscena e balletti: è la rinuncia preventiva del Teatro
a presentarli (causa) ad avere consentito a De Ana questa messinscena (effetto)
o è l’impostazione registica (causa) che ha imposto al Teatro di rinunciare ai
balletti (effetto)? Si accettano scommesse in merito…
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Molto meglio
le cose sono andate per fortuna sul piano musicale, grazie alla perizia del
concertatore: Fabio Luisi ha dato, fin dall’impeccabile esecuzione della
grande Sinfonia, una lettura
convincente della partitura verdiana, cogliendone sia la tinta generale
che i minimi dettagli e sfumature. Massima precisione nel gestire il palco, con
attacchi a voci e coro sempre precisi e con dosaggi delle dinamiche che mai
hanno penalizzato le voci.
Dati i giusti meriti,
ma è quasi scontato, al Coro di Malazzi, va elogiato in blocco il
cast delle voci: a cominciare da quelle dei due personaggi
rappresentativi delle due parti in causa: Luca Micheletti, un Monforte
di grande spessore, nei suoi atteggiamenti da dittatore come in quelli del
padre che inopinatamente ritrova il figlio perduto; e Simon Lim (cresciuto
in passato all’Accademia scaligera) che è stato un Procida tanto più meritevole
in quanto arrivato sulla scena quasi all’ultimo momento.
Piero Pretti è un convincente Arrigo, voce squillante, acuti ben tenuti ed
efficace resa di questo tormentato personaggio, vittima del… destino cinico e
baro.
Vengo ora alla
Elena di Marina Rebeka: tutto bene per lei fino alla seconda scena dall’atto
IV (il duetto con Arrigo, dopo la scoperta dell’identità dell’amato, al termine
del quale ha avuto un meritato applauso a scena aperta). Poi il patatrac:
alla fine della Siciliana (che poi sarebbe una… Polacca)
dell’atto conclusivo, una sonora salva di buh dal secondo loggione si è
mescolata ai prevalenti applausi del resto del pubblico! Per me, davvero
incomprensibile. E le contestazioni, più o meno isolate, sono poi proseguite
alle diverse uscite finali. Mah…
Bene tutte le
altre voci maschili (bassi e tenori) che hanno dignitosamente e meritoriamente
dato il loro contributo al successo della parte musicale dello spettacolo.