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Uno dei risultati - indubbiamente positivi - dello sbarco dell’Alcina di Carsen alla Scala è di aver sollevato discussioni sull’ormai annoso problema legato alla libera interpretazione di grandi opere del passato, e della loro riproposizione in chiave “moderna” e comunque diversa dallo stereotipo originale.
Magìa sì, magìa no è uno dei leit-motive di queste discussioni nei forum e delle recensioni che si leggono sui giornali. L’approccio e i tagli di Carsen sono un altro comune argomento di discussione.
Vediamo alcuni commenti scritti prima e dopo la prima, e reperibili in rete.
Angelo Foletto su Repubblica annunciava la prima con un riassunto dell’impostazione di Carsen (quale si poteva già leggere sul sito del teatro) derivata presumibilmente dall’esperienza parigina, con un fugace accenno ai ruoli di padrona e cameriera con cui Carsen veste Alcina e Morgana. E su quella di Antonini, di cui sembra citare passi di un’intervista.
Daniela Zuccoli sul Corriere anticipava così l’opera di Händel. Una presentazione succinta, ma assai fedele dell’approccio del regista canadese. Chi legge capisce benissimo che l’Alcina che vedrà alla Scala è ben diversa dall’originale barocco-magico, tutta incentrata invece su psicologia e analisi dei sentimenti.
Elsa Airoldi, sempre prima della prima, sul Giornale riferiva dell’approccio di Carsen, che mostrava di gradire, nella scolpitura dei sentimenti dei personaggi e nella scelta del finale, caratterizzato dal “senso di perdita”.
Sempre sul Giornale, a proposito della prima, Lorenzo Arruga si inventa - perchè l’ipotesi più probabile è che lui non ci fosse, o avesse nelle orecchie gli auricolari di un blackberry, e gli occhi fissi sul relativo schermino - un’accoglienza trionfale, con solo “...una manciatella sterile di buu...” Su Carsen comincia dicendosi incapace di “...capire cosa ci si guadagna a togliere la prospettiva della favola e della storia, vestire i personaggi come noi e lasciare a terra mostri volanti e affini...” per concludere, con logica stringente, che “... il suo gioco è ordinato, agile, coerente”. Esattamente come le idee di Arruga! Che ha lodi sperticate persino per il povero Alastair Miles, definito nientemeno che “autorevole”. Come Arruga, appunto.
Francesca Zardini, su AffariItaliani, elogia tutti, dal regista al maestro, ai cantanti, senza far cenno alla mezza gazzarra che aveva accompagnato la prima. Ma quel che stupisce è la disarmante ingenuità con cui tocca il tasto della regìa, da lei dapprima apprezzata senza riserve, ma poi di fatto criticata apertamente, per via dei tagli ai “sortilegi” (Atlante, l’anello di Angelica e lo scrigno). Quando basterebbe un minimo di analisi della concezione del regista per concludere che quei tagli ne sono la matematica conseguenza. O viceversa, se si censurano quei tagli, bisognerebbe allora aver il coraggio di criticare l’impostazione di fondo di Carsen, di cui sono figli.
Paolo Isotta, all’indomani della prima, oltre a considerazioni non del tutto fuori luogo riguardo la prassi di applaudire ogni aria, come era costume dei tempi, e come del resto si fa con Rossini, Donizetti e Verdi... parla di grande successo e di sua gran felicità, anche se cita la data di lunedi (sic!) e la contestazione a Carsen (vero) e alla Bacelli (falso, poichè la contestata era la Petibon) e ad Antonini (falso, come riportano tutte le testimonianze). Poi sembra dar ragione all’interpretazione tutta psicologica di Carsen, salvo però dirgliene di tutti i colori riguardo a scene, costumi e movimenti attoriali. Boh... chi lo capisce è bravo.
Alberto Mattioli su LaStampa apostrofa noi italiani come provinciali, non all’altezza di apprezzare le stratosferiche raffinatezze di un Carsen. Poi scrive testualmente: “Comincia come una commedia sexy da film brillante hollywoodiano e finisce svelando la faccia nascosta del capolavoro händeliano, dove la musica smentisce l’assunto moraleggiante del libretto. Quando svanisce l’isola della maga Alcina, anche nei paladini «conversi in onda, in fredde rupi e in belve» prevale la lancinante malinconia per quel mondo sparito, la nostalgia per il paradiso perduto.” Certo, è proprio così, ma questo è il finale dell’Alcina di Carsen, NON di quella di Händel. E i tagli, caro il mio Alberto, non sono motivati - come tu sostieni - da problemi di orario della metropolitana, eh no! Poi il nostro conclude buttando fango sui cantanti. Bontà sua, salva almeno Antonini e gli strumentisti scaligeri.
Chiudiamo ancora con Angelo Foletto, che su Repubblica porta Antonini al settimo cielo (e ci sta). Poi passa a Carsen e non si capisce se lo voglia fare santo subito, o spedire all’inferno. Scrive infatti: “L'illusionistica ricchezza musicale della partitura-capolavoro, esaltata dalla lettura strumentale e dalla flessuosità direttoriale, era di proposito negata dal cupo e bellissimo spettacolo di Robert Carsen che rappresentava l'isola magica come un regno di erotismi borghesi e sensualità funerea”. Insomma, Angelo, ha ragione Antonini o Carsen? La musica o la regìa che la nega? Ancora: “...il finale aperto, con Ruggiero stordito che forse non tornerà da Bradamante, è vero e toccante.” Quindi bravo Carsen? Però così chiude Foletto: “...il pubblico, già disorientato dallo scetticismo amoroso portato in scena da Carsen.” Insomma, un colpo al cerchio, uno alla botte e un terzo alla... logica!
Magìa sì, magìa no è uno dei leit-motive di queste discussioni nei forum e delle recensioni che si leggono sui giornali. L’approccio e i tagli di Carsen sono un altro comune argomento di discussione.
Vediamo alcuni commenti scritti prima e dopo la prima, e reperibili in rete.
Angelo Foletto su Repubblica annunciava la prima con un riassunto dell’impostazione di Carsen (quale si poteva già leggere sul sito del teatro) derivata presumibilmente dall’esperienza parigina, con un fugace accenno ai ruoli di padrona e cameriera con cui Carsen veste Alcina e Morgana. E su quella di Antonini, di cui sembra citare passi di un’intervista.
Daniela Zuccoli sul Corriere anticipava così l’opera di Händel. Una presentazione succinta, ma assai fedele dell’approccio del regista canadese. Chi legge capisce benissimo che l’Alcina che vedrà alla Scala è ben diversa dall’originale barocco-magico, tutta incentrata invece su psicologia e analisi dei sentimenti.
Elsa Airoldi, sempre prima della prima, sul Giornale riferiva dell’approccio di Carsen, che mostrava di gradire, nella scolpitura dei sentimenti dei personaggi e nella scelta del finale, caratterizzato dal “senso di perdita”.
Sempre sul Giornale, a proposito della prima, Lorenzo Arruga si inventa - perchè l’ipotesi più probabile è che lui non ci fosse, o avesse nelle orecchie gli auricolari di un blackberry, e gli occhi fissi sul relativo schermino - un’accoglienza trionfale, con solo “...una manciatella sterile di buu...” Su Carsen comincia dicendosi incapace di “...capire cosa ci si guadagna a togliere la prospettiva della favola e della storia, vestire i personaggi come noi e lasciare a terra mostri volanti e affini...” per concludere, con logica stringente, che “... il suo gioco è ordinato, agile, coerente”. Esattamente come le idee di Arruga! Che ha lodi sperticate persino per il povero Alastair Miles, definito nientemeno che “autorevole”. Come Arruga, appunto.
Francesca Zardini, su AffariItaliani, elogia tutti, dal regista al maestro, ai cantanti, senza far cenno alla mezza gazzarra che aveva accompagnato la prima. Ma quel che stupisce è la disarmante ingenuità con cui tocca il tasto della regìa, da lei dapprima apprezzata senza riserve, ma poi di fatto criticata apertamente, per via dei tagli ai “sortilegi” (Atlante, l’anello di Angelica e lo scrigno). Quando basterebbe un minimo di analisi della concezione del regista per concludere che quei tagli ne sono la matematica conseguenza. O viceversa, se si censurano quei tagli, bisognerebbe allora aver il coraggio di criticare l’impostazione di fondo di Carsen, di cui sono figli.
Paolo Isotta, all’indomani della prima, oltre a considerazioni non del tutto fuori luogo riguardo la prassi di applaudire ogni aria, come era costume dei tempi, e come del resto si fa con Rossini, Donizetti e Verdi... parla di grande successo e di sua gran felicità, anche se cita la data di lunedi (sic!) e la contestazione a Carsen (vero) e alla Bacelli (falso, poichè la contestata era la Petibon) e ad Antonini (falso, come riportano tutte le testimonianze). Poi sembra dar ragione all’interpretazione tutta psicologica di Carsen, salvo però dirgliene di tutti i colori riguardo a scene, costumi e movimenti attoriali. Boh... chi lo capisce è bravo.
Alberto Mattioli su LaStampa apostrofa noi italiani come provinciali, non all’altezza di apprezzare le stratosferiche raffinatezze di un Carsen. Poi scrive testualmente: “Comincia come una commedia sexy da film brillante hollywoodiano e finisce svelando la faccia nascosta del capolavoro händeliano, dove la musica smentisce l’assunto moraleggiante del libretto. Quando svanisce l’isola della maga Alcina, anche nei paladini «conversi in onda, in fredde rupi e in belve» prevale la lancinante malinconia per quel mondo sparito, la nostalgia per il paradiso perduto.” Certo, è proprio così, ma questo è il finale dell’Alcina di Carsen, NON di quella di Händel. E i tagli, caro il mio Alberto, non sono motivati - come tu sostieni - da problemi di orario della metropolitana, eh no! Poi il nostro conclude buttando fango sui cantanti. Bontà sua, salva almeno Antonini e gli strumentisti scaligeri.
Chiudiamo ancora con Angelo Foletto, che su Repubblica porta Antonini al settimo cielo (e ci sta). Poi passa a Carsen e non si capisce se lo voglia fare santo subito, o spedire all’inferno. Scrive infatti: “L'illusionistica ricchezza musicale della partitura-capolavoro, esaltata dalla lettura strumentale e dalla flessuosità direttoriale, era di proposito negata dal cupo e bellissimo spettacolo di Robert Carsen che rappresentava l'isola magica come un regno di erotismi borghesi e sensualità funerea”. Insomma, Angelo, ha ragione Antonini o Carsen? La musica o la regìa che la nega? Ancora: “...il finale aperto, con Ruggiero stordito che forse non tornerà da Bradamante, è vero e toccante.” Quindi bravo Carsen? Però così chiude Foletto: “...il pubblico, già disorientato dallo scetticismo amoroso portato in scena da Carsen.” Insomma, un colpo al cerchio, uno alla botte e un terzo alla... logica!
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