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04 marzo, 2018

In musica tutto ritorna



É nota l’influenza che su Béla Bartók ebbero i rappresentanti della Scuola di Vienna, oltre a Debussy, Stravinski ed altri innovatori in musica del ‘900.

Ascoltando il Quartetto op.3 di Alban Berg, all’inizio del secondo movimento (Mäßige Viertel) la mia attenzione era sempre stata attirata da un breve motivo, esposto da viola e cello, al quale non avevo in precedenza dato troppo peso, ma che mi ricordava qualcosa di già udito da qualche altra parte, che non riuscivo però a mettere a fuoco.

Poi, all’improvviso, ecco il lampo che ha illuminato lo scenario: quel motivo del giovane Berg (1910) è stato citato, non proprio alla lettera (cadute di quarte anzichè quinte) ma in modo - almeno secondo me - consapevole, dal tardo Bartók (1945) nel primo movimento del suo Concerto per Orchestra. Dove il motivo appare tre volte, le prime due come ponte fra i temi principali, la terza come cadenza conclusiva.


Ecco i reperti: per Berg a 10’30”; per Bartók a 9’53”.

04 novembre, 2015

Wozzeck in Scala per i soliti quattro gatti

 

Ieri Wozzeck è arrivato alla terza recita. Per fortuna non siamo più alle clamorose contestazioni del 1952, ma viene il sospetto che la ragione risieda nel fatto che i potenziali contestatori oggi si guardano bene dal venire a teatro. Dico, le vendite dei biglietti sono aperte dal 30 maggio (!) ed ancora è possibile acquistare – cosa inaudita - posti di loggione, che normalmente vanno esauriti in pochi minuti! Deprimente davvero lo spettacolo della sala semivuota…  

Purtroppo siamo sempre lì: ancora a distanza di quasi un secolo, certa musica – allora rivoluzionaria – non ha sfondato, quali ne siano le ragioni, e rimane appannaggio di una ristretta cerchia di melomani che almeno si sforzano un po’ di capirla, non dico di andarne entusiasti. Sono le poche decine di spettatori che ieri sera hanno prolungato di 5 minuti, non di più, la già breve presenza in teatro per applaudire l’intera compagnia. Per il resto del pubblico, quello dedito alla fruizione passiva, questa rimane una musica largamente incomprensibile e quindi di scarsissimo appeal… e poi c’era ancora tutto il secondo tempo della Juve da godersi!

Ingo Metzmacher torna dopo l’esperienza positiva (per lui e i soliti pochi intimi) di Soldaten dello scorso gennaio; direzione precisa la sua, salvo che gli si deve essere incantata la manopola del volume sul fondo-scala: forse sarà colpa delle voci a scartamento ridotto (Wozzeck e Marie esclusi) ma sta di fatto che i suoni dalla buca hanno spesso e volentieri coperto alla grande le emissioni dal palco.

Nel ruolo del protagonista Michael Volle, unico con la Merbeth a farsi udire, ma unico anche a convincere pienamente sul lato interpretativo, Sprechgesang in particolare.

Wolfgang Ablinger-Sperrhacke impersona - come nel 2008, unico superstite di quell’edizione scaligera - Hauptmann, un ruolo musicalmente modellato su quello del wagneriano Mime, di cui non a caso il tenore è interprete di spicco (lo fu anche nel Rheingold di Cassiers-Barenboim del 2010). Fatico a ricordare la sua prestazione del 2008, ma temo che i 7 anni trascorsi stiano pesando assai sulle sue spalle. Il Doktor è un onesto Alain Coulombe, che però fatica (causa Direttore?) a far passare tutta la sua prosopopea di aspirante al Nobel. Roberto Saccà si cala nell’uniforme del Tambourmajor, e tutto sommato ne esce con merito, a dispetto del suo non essere un Heldentenor. Michael Laurenz è un dignitoso Andres, che pare addirittura intonato nel cantare la sua canzoncina nella seconda scena!

La protagonista è Ricarda Merbeth, con Volle l’unica a passare sopra i fracassi orchestrali: però il pathos che dovrebbe caratterizzare Marie mi è parso assai smunto. Margret è impersonata da Marie-Ange Todorovitch: direi senza infamia e senza lode, il suo Lied del terz’atto non è stato proprio entusiasmante.

Rudolf Johann Schasching è il pazzo, che Flimm tiene sempre in scena, affidandogli anche l’incarico di dare al bimbo la ferale notizia (Dein Mutter ist tot). Andreas Hörl e Modestas Sedlevicius sono discreti interpreti dei due garzoni, insieme all’altro accademico Sascha Kramer (soldato). Il bimbo di Marie e Wozzeck è Tito Comoglio. Cori (grandi e piccoli) di Casoni su livelli di onestà professionale.
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Lo spettacolo di Jürgen Flimm (oggi ripreso da Giovanna Maresta) fa sempre la sua dignitosa figura a quasi 20 anni di distanza e la potrebbe fare ancora nel 2037, se la Scala nel frattempo non sarà stata venduta (more-Smeraldo) ad un Oscar di passaggio che ne faccia un luogo di happening, più accogliente e divertente di quanto non sia oggi, per i turisti orientali.

28 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 4. È peggio la tosse o la pipì?

 

Atto I, scena IV: Wozzeck arriva dal Doktor, per il quale fa da cavia in cambio di pochi soldi che regolarmente versa a quella… ehm… madre di suo figlio, a nome Marie.

 

Nel (frammentario) originale di Georg Büchner del 1836-7 – che Berg conobbe nella ricostruzione di Karl Emil Franzos, imprecisa persino nel nome, in realtà Woyzeck - uno dei compiti della cavia è riempire una provetta con la sua urina, che il Doktor analizzerà per formulare le sue teorie che dovrebbero (secondo lui) garantirgli il Premio Nobel. Capita però che Woyzeck, invece di tenere la pipì per farla poi nella provetta del Doktor, la faccia contro un muro per strada, osservato dalla finestra dello studio dal medesimo scienziato, che quindi lo rimprovera aspramente:

 

DOKTOR:
Ich hab's gesehn, Woyzeck; er hat auf die Straß gepißt, an die Wand gepißt, wie ein Hund. –
Und doch drei Groschen täglich und die Kost!
Woyzeck, das ist schlecht; die Welt wird schlecht, sehr schlecht!

DOTTORE:

Ho visto, Woyzeck; lei ha pisciato per strada, ha pisciato contro un muro, come un cane. –

E ancora le dò tre soldi ogni giorno più il vitto!
Woyzeck, ciò è male; il mondo diventa cattivo, molto cattivo!

Nello stendere il suo libretto – operazione che comportò la ristrutturazione delle scene e numerosi tagli - Berg cambiò le carte in tavola toilette (!) e mise in bocca al Doktor un rimprovero a prima vista (e anche a...seconda) inverosimile e strampalato:

DOKTOR:
Ich habs gesehn, Wozzeck , Er hat wieder gehustet, auf der Straße gehuset, gebellt wie ein Hund!
Geb’ ich Ihm dafür alle Tage drei Groschen?
Wozzeck! Das ist schlecht! Die Welt ist schlecht, sehr schlecht!
DOTTORE:
Ho visto, Wozzeck, che ha di nuovo tossito, ha tossito nella strada, abbaiando come un cane!
È per questo che le do ogni giorno tre soldi?
Wozzeck! È male questo! Il mondo è cattivo, molto cattivo!

Ed altri riferimenti all’orinare presenti nella scena vennero da Berg sostituiti con il tossire. Gli esegeti si sono ovviamente scervellati per trovare le ragioni di questa bizzarra modifica all’originale (il quale è assolutamente coerente e verosimile, date le circostanze) che Berg apportò per proporci in cambio qualcosa di banale e pochissimo plausibile. Si è ad esempio spiegato che Berg soffriva d’asma e che quindi, identificandosi con il protagonista del suo dramma, lo abbia voluto contagiare con la sua patologia. O che dietro ci fossero contorte ragioni legate all’antisemitismo (ricordiamo che Berg non era ebreo). Mah… 

 

In ogni caso c’è chi non si rassegna, e ripropone (con quanta autorevolezza non saprei dire) la pipì al posto della tosse: lo fece Maderna nel film del 1970 (a 26’19”) poi Carlos Kleiber (qui a 1’02”) quindi anche Claudio Abbado (a Vienna, a 24’34”) oltre alla premiata coppia Chéreau-Barenboim (e magari altri ancora…)  


Perché invece non accettare la spiegazione più ovvia e immediata, che cioè Berg si sia fatto prendere da una specie di pudore (e magari dal timore della censura…) nel presentare nella sua opera - pur zeppa di bassezze materiali e morali - un gesto comunemente considerato osceno e indecente? Certo, oggi le cose sono cambiate e noi, mentre raccogliamo diligentemente (e con le mani) le deiezioni dei nostri cagnolini, assistiamo con fatalistica indifferenza alle pisciate di cristiani (o islamici, fa lo stesso) sui muri delle nostre strade. Ma io ricordo benissimo (dalla mia infanzia) come gli atti di… bio-dumping fossero considerati cose sporche e inconfessabili. Nel profondo sud delle valli bresciane circolava – non molti anni dopo la fine della guerra – una barzelletta che aveva per protagonisti due adolescenti: dopo un vespro domenicale si infrascano in un bosco e lei (le femmine sono sempre più precoci dei maschietti, si sa) di punto in bianco sbotta (cerco di scrivere in dialèt bresà): Giani, fòm le bröte robe? E lui, dopo un attimo di perplessità e di sconcerto, concorda entusiasta: Sé dài, cagòm! 

Evabbè, se proprio la spiegazione legata al pudore (o alla censura) non convince, allora non resta che concludere che neanche l’atonalità consentì a Berg di inventare il Leitmotif della pipì

(4. fine)

27 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 3. Metodi di analisi tematica


Poche opere come Wozzeck hanno suscitato l’interesse di musicologi ed analisti. A cominciare da Willi Reich, intimo di Berg, che già nel 1927 pubblicò una Guida all’opera. Per finire con i più (relativamente) recenti lavori di Perle, Schmalfeldt, Hall, Morell, Nagel, Jarman e Forte… tanto per citarne alcuni.

Che fra musica e matematica esistano intime connessioni lo aveva già scoperto tale Pitagora e le relazioni fra i suoni sono ormai da secoli rappresentate da numeri, rapporti, frazioni, radici dodicesime di 2 e così via. L’impiego sempre crescente, nella musica occidentale, della scala cromatica (cioè di tutte le 12 note della tastiera) ha portato ad un indebolimento della tonalità, fino al totale rifiuto di essa da parte dalla Seconda Scuola di Vienna (Schönberg, Berg, Webern): si è arrivati quindi alla atonalità e poi alla serialità. La mancanza di centri di gravitazione tonale ha reso assai complicata, oltre che la comprensione da parte del nostro orecchio (abituato da secoli alla tonalità) anche l’analisi musicale delle composizioni. Mentre con la musica tonale i contenuti di temi, motivi, incisi sono in gran parte afferrabili ad orecchio (caso mai si ricorrerà a strumenti e metodi tipo Schenker per sviscerare l’intima struttura del discorso musicale) con l’atonalità l’impresa diventa assai ardua anche per orecchi ad essa allenati.

A proposito di allenamento, la teoria darwiniana di Schönberg secondo cui i pronipotini della gente del suo tempo (cioè noi e i nostri figli) avrebbero tranquillamente canticchiato e fischiettato motivi atonali mi pare proprio – ad un secolo ormai di distanza – aver fatto ampiamente cilecca: insomma, la tonalità sembra proprio dura da estirpare dal nostro DNA.

Lo prova il fatto che per costruire strumenti e metodi di analisi musicale di composizioni atonali si è dovuti ricorrere alla matematica. Uno dei campioni di questa disciplina è stato l’americano Allen Forte (recentemente scomparso) inventore di un metodo di analisi musicale mutuato dalle teorie matematiche sugli insiemi, metodo che consiste nel catalogare successioni elementari di suoni e poi censire quelle presenti in un brano musicale al fine di individuarne eventuali ricorrenze (e quindi relazioni) all’interno del brano medesimo. Insomma, uno strumento para-scientifico che aiuta l’analista nel procurarsi informazioni sulla struttura tematica di un brano o di un’intera opera.  

È chiaro che se si parla di strumenti matematici con i quali effettuare elaborazioni sulle note, allora queste non potranno più essere chiamate DO-RE-MI-FA… né A-B-C-D… ma invece: 0-1-2-3-4-5-6-7-8-9-10-11, dove 0 è la nota base, 1 la nota un semitono sopra… fino a 11, la nota 11 semitoni sopra quella base (esempio: se DO è la nota base, valore 0, allora MI diventa 4, SOL diventa 7 e SI diventa 11).  

Però per semplificarsi la vita ecco che il metodo prevede alcune convenzioni che già fanno arricciare il naso. Ad esempio, la nota che sta un’ottava sopra quella base, che dovrebbe rappresentarsi con 12, invece assume il valore 0 e così via per i successivi valori 13, 14, etc.: insomma tutti gli insiemi di note comprendono solo valori fra 0 e 11, non di più (cioè si opera sempre all’interno di una sola ottava). Quindi il metodo considera equivalenti, ad esempio, l’intervallo di seconda (0-2) e quello di nona (0-14). Ma noi sappiamo – dalla vecchia e cara musica tonale – che un intervallo di nona ha sull’orecchio un effetto straordinariamente diverso da uno di seconda!

Forte ha poi elencato una lista (successivamente ampliata) di 220 insiemi elementari di note a cui ricondurre, attraverso operazioni di riduzione (trasposizione ed inversione) qualunque successione (o accordo) di note: a ciascuno di essi ha associato un attributo di 6 cifre, ciascuna rappresentante il numero di ricorrenze di ciascun intervallo contenuto nell’insieme (intervalli compresi fra 1 e 6 semitoni, dal DO al FA#, che rappresentano anche – per complemento a 12, inversione - i restanti 6 tipi di intervalli presenti nella scala cromatica). Questo attributo viene impiegato per stabilire la somiglianza o la parentela fra insiemi di note, e quindi scoprire relazioni tematiche nel brano analizzato. Bene, osserviamo nella tabella citata le entrate 24 e 25 (denominate 3-11 e 3-11B, dove 3 è il numero di note nell’insieme, seguito dalla sequenza di posizione in tabella): rappresentano rispettivamente la triade minore (DO-MIb-SOL, in numeri: 0-3-7) e quella maggiore (DO-MI-SOL, ossia 0-4-7): ebbene, il vettore degli intervalli (001110) è lo stesso, dato che in entrambe le triadi sono presenti, una sola volta, gli intervalli di 3, di 4 e 5 semitoni (quest’ultimo rappresenta, come si è visto, anche quello di 7 semitoni DO-SOL). Quindi l’analisi musicale che impiega questo metodo porterebbe ad apparentare l’accordo maggiore e il minore (addirittura nella tabella originale di Forte – dove sono inclusi soltanto insiemi che hanno vettori di intervalli diversi - l’entrata 3-11B non è presente) cosa che nella musica tonale sarebbe una bestemmia! Domanda: e perché mai nella musica atonale diventa invece un fatto accettabile? Risposta maliziosa: perché l’anarchia tende ad eliminare le differenze…

A mo’ di esempio ecco come si presenta il famoso tema di Wozzeck Wir arme Leut sul pentagramma e come si arriva alla sua classificazione secondo la teoria degli insiemi di Forte, al fine di individuarne la posizione nella relativa tabella:


Il processo indicato in figura presenta tutti i passi logici elementari descritti da Forte per ricavare l’ordine normale dell’insieme di note. Nella realtà c’è un sistema assai più sintetico ed immediato per arrivare al risultato.

Ecco quindi che d’ora in poi potremmo far riferimento a quel tema con la sigla 4-19 (che è un po’ come raccontare una barzelletta pronunciandone solo il numero di catalogo!)

Va comunque riconosciuta al metodo di Forte la facilitazione indotta dall’impiego di strumenti matematici (quindi anche… computerizzabili) all’individuazione di caratteristiche tematiche principali o derivate (come i sotto-temi, o sotto-insiemi) con maggior velocità ed accuratezza rispetto ai metodi più empirici. Ad esempio Forte ha potuto mettere in luce una certa (labile?) relazione fra il tema succitato di Wozzeck e gli accordi che chiudono i tre atti: i quali (elemento 8-24 della tabella) hanno un vettore di intervalli dove è massima la presenza dell’intervallo di 4 semitoni, proprietà che presenta anche l’elemento 4-19 del tema di Wozzeck.
  
Mentre George Perle, nella sua citata analisi (condotta con metodi tradizionali) ha individuato 20 Leitmotive (le colonne accanto al nome riportano rispettivamente atto-scena – o interludio – dove il tema appare inizialmente e dove viene ripreso)…

N°1: Hauptmann
N°2: “Wir arme Leut!”
N°3: Canzone popolare (Andreas)
N°4: Allucinazioni di Wozzeck
N°5: Fanfara
N°6: Marcia militare
N°7: Marie madre
N°8: Ninnananna
N°9: Vana attesa di Marie
N°10: Entrata e uscita di Wozzeck
N°11: Timori di Marie
N°12: Doktor
N°13: Tambourmajor e Marie
N°14: Seduzione
N°15: Orecchini
N°16: Marie rimprovera il bimbo
N°17: Rimorso
N°18: Il coltello
N°19: Ländler
N°20: Ubriachezza
I-1
I-1
I-2
I-2
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-4
I-5
I-5
II-1
II-1
II-1
II-3
II-4
II-4
II-2 / III-4-5  
I-1-2 / II-1 / II-5 / III-4-5
III-5
I-3 / II-4
I-3-4 / I-4 / II-3
I-5 / III-2
I-3-4 / I-4 / II-1 / III-2 / III-5
II-1 / II-1-2 / III-2 / III-3 / III-5
I-4 / II-3 / III-2 / III-5
I-4 / II-3 / II-4 / III-1 / III-4-5
I-3-4 / III-2
II-2 / III-4-5
II-3 / II-4 / II-4-5 / II-5 / III-2 / III-3 / III-4 / III-4-5
II-4 / II-4-5 / III-2
II-1-2 / III-2
III-1 / III-5
III-3 / III-4
II-4 / II-5 / III-2 / III-4
II-5 / III-3
II-5

…Janet Schmalfeldt, impiegando la classificazione di Forte per la sua analisi del Wozzeck ha censito decine di insiemi di note (ne compaiono 31 nella sola 5a variazione nella prima scena del terz’atto!) per mostrare poi attraverso le loro relazioni la complessità del rapporto fra Wozzeck e Marie.

A proposito della prima scena del terz’atto lo stesso Forte, in un articolo in cui ne analizza il tema, scova nelle sole battute 7-9 addirittura 12 diversi motivi dal suo catalogo!



Un altro esempio della capacità del metodo di Forte di far emergere relazioni tematiche apparentemente occulte riguarda due motivi di Marie: quello che nella terza scena del primo atto, al passare dei militari guidati dal Tambourmajor, sostiene il canto della donna (Soldaten sind schöne Burschen! con tanto di citazione del mahleriano Revelge) e lo Sprechgesang con cui Marie accoglie Wozzeck all’inizio della scena III dell’atto II (Guten Tag, Franz). A prima vista sembrerebbero non aver nulla in comune, ma l’analisi con il metodo degli insiemi (qui è rappresentato il processo sintetico) rivela invece che hanno la stessa identica origine, l’insieme 4-18.



Acquisito questo dato puramente tecnico, è possibile derivarne delle considerazioni di merito? Per esempio, che inconsciamente Marie continui a pensare al militare che l’ha sedotta, proprio mentre si prepara ad accogliere Wozzeck sapendo di andare incontro ad una scenata di gelosia?

Ma la domanda fondamentale che sorge qui è: Berg era cosciente di tutte queste intricate parentele fra motivi ed ha voluto positivamente sfruttarle, o è il metodo matematico, inventato decenni dopo, che le ha scovate a sua insaputa? (Questa è la principale accusa che i detrattori di Forte, Taruskin in testa, muovono all’impiego del metodo, che potrebbe caso mai servire ad esplorare il comportamento del subconscio del compositore durante l’atto creativo!)   

Resta quindi pacifico che soltanto un adeguato esame del contesto nel quale un tema/motivo è inserito può garantire la plausibilità di relazioni messe in luce da un asettico strumento para-scientifico, onde evitare di trarre conclusioni incoerenti con la (presunta) volontà dell’Autore. Per questo analisi tradizionali (come quella già ricordata di George Perle o quella più recente di Christian Goubault) per me risultano – almeno in prima battuta – più affidabili.

(3. continua)

26 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 2. Un campionario di forme


Sembra paradossale ma Berg, proprio mentre propugnava (con il maestro Schönberg e il collega Webern) un metodo compositivo che negava ogni diritto di cittadinanza alla tonalità e alle sue regole costituite e consolidatesi in secoli di progresso, decise per il suo Wozzeck di impiegare praticamente tutte le forme che la musica occidentale aveva fatto proprie nel corso di quegli stessi secoli, forme che in buona misura erano legate proprio all’esistenza di centri di gravitazione tonale (basti pensare alla forma-sonata e alle regole che ne definiscono i rapporti di tonalità); ne vedremo l’interminabile lista fra poco. Si noti di passaggio che un approccio analogo terrà Schönberg al momento di codificare il suo metodo dodecafonico, nel quale avranno un ruolo di spicco i trattamenti fiamminghi (la barbarie delle stranezze fiamminghe, come l’aveva definita la Camerata dei Bardi) delle serie musicali. Insomma, a quanto pare l’anarchia allo stato puro non esiste, in musica come in politica!

Interessante la risposta che Berg medesimo (nel suo scritto Il problema dell’Opera) fornisce alla domanda: perché non impiegare sempre il (wagneriano) Durchkomponieren (ossia il seguire la propria ispirazione senza farsi condizionare dalle forme) invece di imbottire la sua opera di Suite, Sinfonie, Passacaglie, Rondò e cose simili (spesso, fra l’altro, di ardua decifrazione anche a tavolino)? Bene, la risposta è di una disarmante ingenuità: perché senza la presenza di quelle forme la sua musica sarebbe apparsa monotona, fino ad annoiare l’ascoltatore!

Ora, le quindici scene rimaste in base a tale selezione e condensazione esigevano una configurazione molto varia, la sola che può garantire l'univocità e l'incisività musicali, e questo vietava la prassi consueta del «musicare da cima a fondo» [durchkomponieren], seguendo semplicemente il contenuto letterario. Una musica assoluta, per quanto ricca nella sua struttura, per quanto appropriata nell'illustrare la vicenda drammatica, non avrebbe potuto impedire che, dopo qualche scena musicata in questa maniera, si avvertisse un senso di monotonia musicale, un senso di sgradevolezza; la serie di una dozzina di interludi - formalmente destinati soltanto a realizzare le conseguenze di una tale scrittura musicalmente illustrativa - non avrebbe fatto altro che acuirlo, portandolo fino alla noia. E la noia è l'ultima cosa da ammettere in teatro!

Mah: chi ha detto che il Durchkomponieren debba per forza annoiare? (O è per caso l’atonalità che rischia di annoiare?) E chi o cosa impedirebbe al compositore di introdurre nel discorso musicale costruito con l’atonalità dei cambi di agogica, di dinamica, di ritmo, di timbro (invece che forme codificate) tali da scongiurare il pericolo di monotonia e conseguente noia? In fin dei conti il terzo atto dell’opera (salvo la prima scena) pur camuffato sotto forma di invenzioni, è praticamente Durchkomponieren, ergo dovrebbe annoiarci? Per di più: Berg fa ampio uso dei wagneriani Leit-Motive, che di per sé dovrebbero orientare l’ascoltatore (però siamo sempre lì: riconoscere al volo un motivo atonale è impresa quasi disperata!) E infine: come si spiega allora la sua convinzione che l’opera si debba e si possa apprezzare anche ignorando la presenza di quelle forme? Insomma, quanto c’è in Wozzeck di stucchevole, accademica quanto ininfluente sovrastruttura? 

In realtà è stato giustamente osservato come l’impiego di forme della tradizione può benissimo essere giustificato dal (mascherato?) intento politico di Berg: denunciare le differenze di classe della società dei suoi tempi e le ingiustizie che ne derivano. Non è un caso che le antiche (e antiquate?) forme musicali siano appiccicate ai rappresentanti dell’establishment retrivo, conservatore e sfruttatore (Hauptmann, Doktor e Tambourmajor) mentre ne è del tutto sprovvisto il proletariato povero e sfruttato (Wozzeck, Marie). La Suite che supporta le prediche del Capitano nella prima scena dell’opera sembra appropriata ad evocare – con i suoi diversi numeri del tutto scollegati fra loro – il contenuto strampalato e insensato, oltre che reazionario, di tali prediche. Wozzeck invece alla fine canta un’aria, forma tipica della musica popolare! Gli sproloqui del Dottore sono accompagnati dalla Passacaglia, che esplode in tutta la sua retorica nell’ultima variazione, sulla vanagloriosa prefigurazione dell’immortalità (o di un Premio Nobel?) ormai a portata di mano. Quanto al Militare, la forma del Rondo ben si attaglia ad evocarne l’attitudine alla disciplina e al comando. Insomma, è più che plausibile che il ricorso alle antiche forme abbia motivazioni molteplici e non soltanto… tecnico-musicali. Altra particolarità: lo Sprechgesang (cantare-parlando) è affibbiato ai poveracci, mentre gli sfruttatori (privilegiati!) cantano (o parlano normalmente) e basta.

Sappiamo anche che Berg era maniaco dei numeri e in Wozzeck ne abbiamo più di una testimonianza. A parte la simmetria della macro-struttura (3 atti di 5 scene ciascuno) è eclatante il caso della Passacaglia (scena IV dell’atto I) dove il numero 7 ritorna in modo a dir poco ossessivo: il tema e 14 delle sue 21 variazioni occupano ciascuno 7 battute; tre variazioni (7-10-12) sono in una sola battuta, ma suddivisa in 7 segmenti; 2 variazioni (18 e 21) occupano 14 battute; solo due variazioni (19 e 20) occupano rispettivamente 9 e 18 battute, quindi hanno a che fare con il 3 e non con il fatidico 7! Il quale 7 torna anche nel tema con 7 variazioni (quasi tutte di 7 battute…) della prima scena dell’atto terzo! Insomma, Berg sembra non aver lasciato nulla al caso, impiegando nella composizione di Wozzeck un alto livello di arte combinatoria. Resta da vedere quanto essa sia determinante, o invece ininfluente, come causa del gradimento dell’opera presso il pubblico.

La tabella che si può esplorare a questo link è derivata da molte dello stesso contenuto presenti in diverse esegesi (incluso il libretto del Teatro): ho semplicemente introdotto un livello di dettaglio molto più fine rispetto al normale (riferendomi prevalentemente alla struttura dell’opera come presentata nel testo di George Perle) tralasciando invece i riferimenti al soggetto. Una curiosità: in due sole occasioni, sempre nell’atto III, Berg impiega l’armatura di chiave, tipica della musica tonale: dapprima nella variazione 5 della prima scena (la parabola del piccolo orfanello, FA minore) e poi nella prima parte dell’interludio dopo la quarta scena (morte di Wozzeck, RE minore).

Qualche nota esplicativa sui contenuti della tabella.

Per la scena IV dell’atto I (Passacaglia) nella colonna componente sono indicati gli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione del tema di base nelle diverse variazioni. Analogamente, per le scene II, III e IV dell’atto III, la colonna componente reca i riferimenti agli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione dell’oggetto dell’invenzione (nota, ritmo e accordo, rispettivamente).

La colonna più a destra reca invece i riferimenti di minutaggio relativi alla pregevole edizione cinematografica dell’opera, datata 1970 e concertata da Bruno Maderna con la Philharmonische Staatsorkester Hamburg. Anche qui l’esame dei tempi ci porta a constatare come spesso e volentieri le forme impiegate da Berg facciano apparizioni fugaci se non addirittura fugacissime (pochi secondi di musica) il che spiega perché la loro presenza sfugga all’orecchio anche degli ascoltatori più attenti e preparati: soltanto la consultazione della partitura consente di individuarle e censirle.   

E a proposito di censimenti, vedremo nella puntata successiva a quali livelli di paranoica complicazione si sia arrivati.

(2. continua)

25 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 1. La rinuncia alla tonalità


Uno spiacevole contrattempo (la malattia della moglie che non ha permesso a György Kurtág di completare in tempo per il 2015 la sua Fin de partie – opera rischedulata a fine stagione 15-16) riporta alla Scala dal 29 ottobre il Wozzeck messo in scena da Jürgen Flimm, per la quarta volta in meno di 20 anni. La prima fu nella stagione 1996-7 (sul podio il compianto Sinopoli); poi venne Conlon (1999-0) indi Gatti (2007-8); oggi Metzmacher.
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Wozzeck è per antonomasia l’opera atonale: composta cioè prescindendo da tutta quella serie di regole (codificate e non-) oltre che di consuetudini, stereotipi, usanze, abitudini sulle quali si era appoggiata tutta la musica occidentale dal ‘500 in poi, passando attraverso una lunga serie di innovazioni culminate nell’esasperato cromatismo del wagneriano Tristan, che aveva portato la musica al limite di rottura delle regole consolidate. Dopo Wagner qualcuno aveva cercato di avanzare e progredire ulteriormente sul sentiero della tonalità (Mahler, Strauss); altri (Debussy) si erano indirizzati verso sistemi musicali alieni (scale esotiche); i giovani della seconda scuola di Vienna (Schönberg, Webern e Berg) avevano invece cominciato a contestare radicalmente la tonalità, col rifiutarne precisamente i fondamentali presupposti, primo fra i quali la necessaria presenza di un centro di gravitazione tonale in ciascun brano di musica.

Però l’assenza di qualunque regola è in po’ come l’anarchia: una bella utopia, in pratica… impraticabile. Se ne accorgerà lo stesso Schönberg (del quale proprio Mahler, pur appoggiandolo in quanto innovatore, affermava di non capire la musica) che in questa anarchia si impantanerà e, per uscirne vivo, dovrà inventare (o meglio: codificare cose inventate da altri…) un nuovo metodo compositivo, basato su regole ancor più ferree e cogenti di quelle della vecchia musica: e nascerà allora la dodecafonia, qualcosa di… talebano, ecco.

Ma Berg si interessò al soggetto del Wozzeck nel 1914, quando ancora la dodecafonia con le sue regole era ben di là da venire e così si trovò per primo a sperimentare la composizione atonale su un’opera di grandi dimensioni, mentre fino ad allora la nuova musica si era espressa quasi esclusivamente su oggetti assai limitati, per non dire a livello aforistico. E per non smarrire la rotta, avendo rinunciato alla bussola (la tonalità) decise di orientarsi con… le stelle: cioè ricorrendo all’impiego di tutte le forme musicali conosciute. (Le vedremo in dettaglio nella prossima puntata.)   

Che la musica atonale presentasse potenziali problemi di ricezione e fruizione da parte del vasto pubblico era Berg per primo a temerlo. Dico, opere come il Barbiere o Norma, o Nabucco o anche Lohengrin, pur essendo diversissime - e per certi aspetti rivoluzionarie nei contenuti musicali - da quelle di Paisiello, di Gluck, di Mozart, erano state accolte con entusiasmo da tutti. E Bellini mai dovette tenere conferenze per aiutare il pubblico ad apprezzare la sua Sonnambula! Lo stesso Tristan incontrò all’inizio più ostilità dagli addetti ai lavori che non dal pubblico. Ecco che invece Berg, ancora anni dopo la prima di Wozzeck, sentiva il bisogno di esibirsi in dotte concioni sulla sua opera, per spiegarne tutti gli intimi segreti. Dopodichè – ma guarda un po’… - chiedeva al pubblico di scordare tutto ciò che lui aveva raccontato e di approcciare Wozzeck come si approccia Norma! Si legga al proposito l’ultimo paragrafo del testo di una di tali conferenze (dove c’era tanto di orchestra e cantanti a supportare Berg nella proposizione di esempi concreti) tenuta nel 1929.      

Ma allora: si può apprezzare Wozzeck anche senza conoscerne l’intima struttura? Semplicemente lasciandosi coinvolgere e trascinare da questa musica (così diversa da quella di quasi tutte le altre opere) che evoca passioni, sentimenti, gioie (pochissime) e dolori (soverchianti)? Mah, va riconosciuto che le prime rappresentazioni tedesche ebbero un’accoglienza tipo-Tristan: pubblico tutto sommato plaudente (addirittura Berg ne rimase stupefatto!) e critica a dir poco ostile. Le uniche disapprovazioni a scena aperta si ebbero a Praga, pochi mesi dopo la prima di Berlino del 1925 e molti anni dopo (1952) alla Scala, dove il venerabile Mitropoulos venne rumorosamente interrotto da un pubblico esasperato. In compenso l’opera era già stata rappresentata (in italiano, come alla Scala) con Serafin e Gobbi ben 10 anni prima e con buon successo a Roma, sotto il fascismo, in piena guerra e in barba alla scomunica nazista che l’aveva colpita in quanto musica degenerata.  

Musica che, proprio per la sua congenita struttura (di ostica afferrabilità per le nostre orecchie, inutile negarlo!) pare più adatta ad evocare soggetti cupi o truci, situazioni di squilibrio sociale e psichico, incubi ed allucinazioni, sopraffazioni e delitti (insomma tutti i principali ingredienti di Wozzeck) piuttosto che scenari di normalità (sia pure drammatici, se non proprio idilliaci). Domanda: come mai con il metodo atonale in più di un secolo non è stata composta una sola commedia brillante, un dramma giocoso, e men che meno una farsa? E perché anche in Wozzeck i pochissimi squarci di sereno (o di pietà) in mezzo a tante tempeste sono evocati con il ricorso alla vecchia e cara tonalità ?!

Forse chi teorizzava che dissonanze e tritoni fossero errori e rappresentassero lo scardinamento delle regole costituite non aveva tutti i torti, se la musica che fa delle dissonanze e dei tritoni la regola e non l’eccezione è stata impiegata per lo più a rappresentare fenomeni di sfascio sociale o psicologico. O magari… stonature, come si evince da questo esempio preso dalla seconda scena del primo atto, dove Andres canta un’allegra canzoncina che dopo due incisi (dominante-tonica, MIb-Lab) della tromba - e su un tappeto del flauto (REb-MIb) in quella stessa tonalità - attacca calando su un SOL maggiore per poi sconfinare in un orrendo tritono (LA-RE#)!


Ok, abbiamo capito che Andres ha qualche problema di intonazione, poveretto (ma non datene la colpa al tenore!) Sì, perché la stagione in cui nascevano, rustici ma intonatissimi, i Nemorini era irrimediabilmente finita!

(1. continua)

16 aprile, 2010

Lulu alla Scala

Ieri sera la terza recita di Lulu alla Scala. Teatro con parecchi vuoti già all'inizio e poi ulteriormente vuotatosi nei due intervalli (nobbuono!)

Dopo la Casa di Janacek, anche per quest'altra Opera del '900 viene impiegata la tecnica della partenza-lampo (solo per il primo atto, però): luci in sala accese, l'orchestra che ancora borbotta, il Direttore che entra in buca strisciando sui gomiti come un marine in azione di commando, per non esser visto da alcuno, raggiunge il podio, vi sale e attacca di botto, nel mentre le luci in sala si spengono ex-abrupto, cogliendo tutti di sorpresa. E va 'bbè.

Comincio dalla regìa di Peter Stein, più scene, costumi e altri accessori. L'ambientazione è più o meno quella prevista da Berg, che ha spostato in avanti l'epoca della vicenda di una cinquantina d'anni, collocandola ai suoi tempi (1930). Questo ha comportato qualche piccola o grande modifica al testo di Wedekind (ad esempio l'illuminazione elettrica, citata da Alwa per il matinée, o il telefono usato da Schön, in luogo di un biglietto recapitato a mano, per avvertire la polizia del suicidio del pittore) ma anche qualche inevitabile incongruenza, come il permanere dell'annuncio – del tutto strampalato, nel 1930 - dello scoppio della rivoluzione a Parigi! (Viceversa il tracollo delle Jungfrau tutto sommato ci sta bene lo stesso, visti i tempi di depressione post-'29).

Per il resto Stein si attiene – a volte con una meticolosità certosina – alle didascalie di cui Berg ha cosparso la partitura. Anche le scene – suppellettili e furniture a parte – sono del tutto rispettose delle indicazioni originali (Berg ha lasciato addirittura dei disegni sulle planimetrie dei vari ambienti). Evidentemente questo tipo di Opere (stesso discorso per la Casa di Chéreau) non eccita la fantasia interpretativa - e spesso dissacrante - dei registi, a differenza di quanto avviene per i capolavori più conosciuti e rappresentati (vorrà pur dir qualcosa?)

Naturalmente ci sono anche alcune deviazioni rispetto all'originale, ma direi tutte più che accettabili ed anzi piacevoli o appropriate. Ad esempio il costume di Lulu (quella in carne e ossa e quella rappresentata sui poster) che non è propriamente quello di un Pierrot come chiunque se lo immaginerebbe: in particolare lascia in bella mostra le gambe della protagonista (il che non guasta per nulla, trattandosi di una donna bella e piacente come Laura Aikin, una che sembra nata per fare Lulu). Discorso analogo per la Geschwitz, che in luogo di un tailleur di taglio vistosamente maschile, indossa sì una giacca vagamente maschile, ma sotto ha una lunga gonna, con spacco vertiginoso che le scopre le lunghe gambe (belle anche queste, della Natascha Petrinsky). Oppure come il colore del salone parigino del terzo atto, non bianco stuccato, ma rosso pomodoro; in cui spicca l'arancio carico della tenuta (abito e pelle!) del Banchiere (sarà una pubblicità occulta o una satira feroce di un famoso conto?)

Nel prologo, dopo che Lulu è stata portata in scena come un manichino, quando il domatore annuncia al pubblico che metterà la sua testa fra le fauci di una belva feroce, in realtà la infila fra le gambe della medesima Lulu: ecco, un'invenzione geniale!

Altra libertà che Stein si prende sul libretto è il famoso interludio fra le due scene del secondo atto, dove Berg prescrive la proiezione di immagini (film muto, o foto) che raccontino la vicenda dell'arresto, processo, carcerazione e poi liberazione di Lulu. Qui vengono semplicemente proiettate sul sipario delle diapositive, che recano precisamente i termini che Berg ha lasciato scritti sulla partitura. Se posso fare qui un appunto, mi è parso che la sincronizzazione delle diapositive con le battute musicali cui sono da Berg associate non fosse perfetta: ad esempio quella recante Ein Jahr Haft (un anno di detenzione) è arrivata qualche attimo dopo la battuta apicale dell'Interludio, quella dove il pianoforte esegue la scala ascendente e poi - dopo una corona puntata su cui si dovrebbe appunto vedere la scritta di cui sopra - quella discendente. Ma va bene lo stesso.

Però la caratteristica che più mi ha colpito di questa regìa è l'approccio leggero (un misto di sarcasmo e satira più o meno feroce) che pervade sei delle sette scene dell'Opera. Tutto ciò che vediamo fino a metà del terzo atto, morti e ammazzamenti compresi, ci fa più divertire e sorridere, che non partecipare a un dramma. Le movenze dei vari personaggi (tutti bravissimi i cantanti ad interpretarle!) sono da commedia, se non proprio da farsa. Ci rappresentano in modo assai efficace – almeno a mio modesto giudizio – la fatuità e l'irresponsabilità di un intero mondo (quello borghese, ovviamente) che - ai tempi di Wedekind (e del Berg giovane) - andava verso la catastrofe ballando il walzer e che – ai tempi del Berg maturo, che lasciò tracce di antisemitismo proprio sulla partitura di Lulu – navigava altrettanto irresponsabilmente verso il naufragio del nazismo e del secondo conflitto mondiale.

Tutti i nodi arrivano al pettine nella scena finale, dove c'è solo dramma, desolazione, disperazione nera e morte per tutti. Guarda caso sono proprio gli stessi interpreti dei personaggi del bel mondo borghese che tornano quasi a prendersi la rivincita su quella parte della società che non ha voluto stare al gioco.

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La musica. Le mie prime personali impressioni, derivate dall'ascolto radiofonico della prima del 6 aprile, erano state positive, se non proprio entusiastiche: orchestra (e direzione) all'altezza e cantanti di buon livello. E l'audizione dal vivo di ieri sera ha confermato sostanzialmente questo giudizio: prestazione musicale di tutto rispetto.

Su tutti la Lulu della Laura Aikin, ma anche la Geschwitz della Natascha Petrinsky. Efficace e di voce stentorea la Magdalena Hofmann che interpreta lo Studente e il Groom. All'altezza gli uomini, da Thomas Piffka (Alwa) all'ultraottantenne Franz Mazura (un efficacissimo Schigolch) a Stephen West (voce sicura e potente, sia in Schön che in Jack). Un encomio si merita il corpulento Robert Wörle, che veste ben cinque diversi panni (due muti, o quasi: il Primario e il Professore; e tre cantati: Principe, Maggiordomo e Marchese). Han fatto dignitosamente la loro parte Roman Sadnik (Pittore e poi Negro) Rudolf Rosen (Domatore e poi Atleta) e Johann Werner Prein (Direttore e Banchiere) come pure gli altri interpreti minori.

Gatti ha diretto da par suo, dovendo dislocare parte delle percussioni in barcaccia, per far posto in buca all'ingombrante pianoforte a coda. Straordinario davvero l'Interludio fra la seconda e la terza scena del primo atto, musica che viene direttamente dalla nona di Mahler, ma che ha anche alcune sfumature che ricordano la spettrale veglia di Hagen! Purtroppo ciò che finisce per sfuggire un po' all'orecchio è il suono della Jazz-Band, nella scena del teatro, che effettivamente si dovrebbe udire in distanza, ma che si fatica a percepire chiaramente (per lo meno dalle gallerie). Impressionante davvero l'accordo dodecafonico (nel senso che vi compaiono precisamente tutte e 12 le note della scala cromatica!) con cui viene sottolineata dall'intera orchestra la morte della protagonista.

Alla fine gran trionfo per tutti, Aikin e Gatti (che si porta dietro in palcoscenico la sua spalla Francesco De Angelis) in testa, chè lo scarso pubblico che ha stoicamente resistito fin dopo le 11:30 di notte non ha fatto certo mancare il suo apprezzamento!