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16 aprile, 2010

Lulu alla Scala

Ieri sera la terza recita di Lulu alla Scala. Teatro con parecchi vuoti già all'inizio e poi ulteriormente vuotatosi nei due intervalli (nobbuono!)

Dopo la Casa di Janacek, anche per quest'altra Opera del '900 viene impiegata la tecnica della partenza-lampo (solo per il primo atto, però): luci in sala accese, l'orchestra che ancora borbotta, il Direttore che entra in buca strisciando sui gomiti come un marine in azione di commando, per non esser visto da alcuno, raggiunge il podio, vi sale e attacca di botto, nel mentre le luci in sala si spengono ex-abrupto, cogliendo tutti di sorpresa. E va 'bbè.

Comincio dalla regìa di Peter Stein, più scene, costumi e altri accessori. L'ambientazione è più o meno quella prevista da Berg, che ha spostato in avanti l'epoca della vicenda di una cinquantina d'anni, collocandola ai suoi tempi (1930). Questo ha comportato qualche piccola o grande modifica al testo di Wedekind (ad esempio l'illuminazione elettrica, citata da Alwa per il matinée, o il telefono usato da Schön, in luogo di un biglietto recapitato a mano, per avvertire la polizia del suicidio del pittore) ma anche qualche inevitabile incongruenza, come il permanere dell'annuncio – del tutto strampalato, nel 1930 - dello scoppio della rivoluzione a Parigi! (Viceversa il tracollo delle Jungfrau tutto sommato ci sta bene lo stesso, visti i tempi di depressione post-'29).

Per il resto Stein si attiene – a volte con una meticolosità certosina – alle didascalie di cui Berg ha cosparso la partitura. Anche le scene – suppellettili e furniture a parte – sono del tutto rispettose delle indicazioni originali (Berg ha lasciato addirittura dei disegni sulle planimetrie dei vari ambienti). Evidentemente questo tipo di Opere (stesso discorso per la Casa di Chéreau) non eccita la fantasia interpretativa - e spesso dissacrante - dei registi, a differenza di quanto avviene per i capolavori più conosciuti e rappresentati (vorrà pur dir qualcosa?)

Naturalmente ci sono anche alcune deviazioni rispetto all'originale, ma direi tutte più che accettabili ed anzi piacevoli o appropriate. Ad esempio il costume di Lulu (quella in carne e ossa e quella rappresentata sui poster) che non è propriamente quello di un Pierrot come chiunque se lo immaginerebbe: in particolare lascia in bella mostra le gambe della protagonista (il che non guasta per nulla, trattandosi di una donna bella e piacente come Laura Aikin, una che sembra nata per fare Lulu). Discorso analogo per la Geschwitz, che in luogo di un tailleur di taglio vistosamente maschile, indossa sì una giacca vagamente maschile, ma sotto ha una lunga gonna, con spacco vertiginoso che le scopre le lunghe gambe (belle anche queste, della Natascha Petrinsky). Oppure come il colore del salone parigino del terzo atto, non bianco stuccato, ma rosso pomodoro; in cui spicca l'arancio carico della tenuta (abito e pelle!) del Banchiere (sarà una pubblicità occulta o una satira feroce di un famoso conto?)

Nel prologo, dopo che Lulu è stata portata in scena come un manichino, quando il domatore annuncia al pubblico che metterà la sua testa fra le fauci di una belva feroce, in realtà la infila fra le gambe della medesima Lulu: ecco, un'invenzione geniale!

Altra libertà che Stein si prende sul libretto è il famoso interludio fra le due scene del secondo atto, dove Berg prescrive la proiezione di immagini (film muto, o foto) che raccontino la vicenda dell'arresto, processo, carcerazione e poi liberazione di Lulu. Qui vengono semplicemente proiettate sul sipario delle diapositive, che recano precisamente i termini che Berg ha lasciato scritti sulla partitura. Se posso fare qui un appunto, mi è parso che la sincronizzazione delle diapositive con le battute musicali cui sono da Berg associate non fosse perfetta: ad esempio quella recante Ein Jahr Haft (un anno di detenzione) è arrivata qualche attimo dopo la battuta apicale dell'Interludio, quella dove il pianoforte esegue la scala ascendente e poi - dopo una corona puntata su cui si dovrebbe appunto vedere la scritta di cui sopra - quella discendente. Ma va bene lo stesso.

Però la caratteristica che più mi ha colpito di questa regìa è l'approccio leggero (un misto di sarcasmo e satira più o meno feroce) che pervade sei delle sette scene dell'Opera. Tutto ciò che vediamo fino a metà del terzo atto, morti e ammazzamenti compresi, ci fa più divertire e sorridere, che non partecipare a un dramma. Le movenze dei vari personaggi (tutti bravissimi i cantanti ad interpretarle!) sono da commedia, se non proprio da farsa. Ci rappresentano in modo assai efficace – almeno a mio modesto giudizio – la fatuità e l'irresponsabilità di un intero mondo (quello borghese, ovviamente) che - ai tempi di Wedekind (e del Berg giovane) - andava verso la catastrofe ballando il walzer e che – ai tempi del Berg maturo, che lasciò tracce di antisemitismo proprio sulla partitura di Lulu – navigava altrettanto irresponsabilmente verso il naufragio del nazismo e del secondo conflitto mondiale.

Tutti i nodi arrivano al pettine nella scena finale, dove c'è solo dramma, desolazione, disperazione nera e morte per tutti. Guarda caso sono proprio gli stessi interpreti dei personaggi del bel mondo borghese che tornano quasi a prendersi la rivincita su quella parte della società che non ha voluto stare al gioco.

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La musica. Le mie prime personali impressioni, derivate dall'ascolto radiofonico della prima del 6 aprile, erano state positive, se non proprio entusiastiche: orchestra (e direzione) all'altezza e cantanti di buon livello. E l'audizione dal vivo di ieri sera ha confermato sostanzialmente questo giudizio: prestazione musicale di tutto rispetto.

Su tutti la Lulu della Laura Aikin, ma anche la Geschwitz della Natascha Petrinsky. Efficace e di voce stentorea la Magdalena Hofmann che interpreta lo Studente e il Groom. All'altezza gli uomini, da Thomas Piffka (Alwa) all'ultraottantenne Franz Mazura (un efficacissimo Schigolch) a Stephen West (voce sicura e potente, sia in Schön che in Jack). Un encomio si merita il corpulento Robert Wörle, che veste ben cinque diversi panni (due muti, o quasi: il Primario e il Professore; e tre cantati: Principe, Maggiordomo e Marchese). Han fatto dignitosamente la loro parte Roman Sadnik (Pittore e poi Negro) Rudolf Rosen (Domatore e poi Atleta) e Johann Werner Prein (Direttore e Banchiere) come pure gli altri interpreti minori.

Gatti ha diretto da par suo, dovendo dislocare parte delle percussioni in barcaccia, per far posto in buca all'ingombrante pianoforte a coda. Straordinario davvero l'Interludio fra la seconda e la terza scena del primo atto, musica che viene direttamente dalla nona di Mahler, ma che ha anche alcune sfumature che ricordano la spettrale veglia di Hagen! Purtroppo ciò che finisce per sfuggire un po' all'orecchio è il suono della Jazz-Band, nella scena del teatro, che effettivamente si dovrebbe udire in distanza, ma che si fatica a percepire chiaramente (per lo meno dalle gallerie). Impressionante davvero l'accordo dodecafonico (nel senso che vi compaiono precisamente tutte e 12 le note della scala cromatica!) con cui viene sottolineata dall'intera orchestra la morte della protagonista.

Alla fine gran trionfo per tutti, Aikin e Gatti (che si porta dietro in palcoscenico la sua spalla Francesco De Angelis) in testa, chè lo scarso pubblico che ha stoicamente resistito fin dopo le 11:30 di notte non ha fatto certo mancare il suo apprezzamento!

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