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21 agosto, 2022

ROF-43 live: Otello

In una Vitrifrigo-Arena con almeno il 20% di poltrone vuote (ahi ahi…) il cartellone principale del ROF-XLIII ha emesso ieri sera il suo ultimo vagito, con la quarta recita di Otello, nuova produzione curata dalla coppia Cucchi-Abel. Qui il video della precedente realizzazione del 2007. Qui invece l’audio della prima dell’11 scorso.

In una stringata paginetta sul programma di sala, Rosetta Cucchi individua lucidamente i due pilastri sociologici della tragedia di Shakespeare, pur maldestramente adattata dal gallico Jean-François Ducis per il mercato francese e a ruota dal nobile librettista partenopeo, il Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza) al servizio del giovane e rampante Gioachino.

E i due pilastri sono le personalità (gli stereotipi, potremmo dire) di Otello e Desdemona. Sì, perché la tragedia del bardo di Stratford-upon-Avon titola The Tragedy of Othello, the Moor of Venice ma è in realtà la storia di Othello and Desdemòna. Proprio Desdemòna, con l’accento sulla… mòna, come soleva sottolineare argutamente il venerabile professor Carlo Bo nelle sue lezioni di inglese all’Università Commerciale Luigi Bocconi (quando ancora vi si sfornavano laureati in lingue e letterature straniere… mica solo i futuri finanzieri alla Draghi o gli economisti da strapazzo alla Giorgetti!)

Dunque: Otello, o l’incarnazione del diverso, un essere umano che a noi del Nord del mondo risulta abbastanza ripugnante, non fosse altro per il colore della pelle (nera-nera o anche solo olivastra, non fa differenza). Poi, se vince sotto le insegne tricolori qualche battaglia, oppure addirittura un’Olimpiade, sempre un alieno rimane.

La Desdemòna di Shakespeare incarna invece lo stereotipo della donna ridotta ad oggetto di consumo, cui si nega qualsivoglia autonomia e autodeterminazione. Se poi è una delle nostre che se la fa con il diverso, apriti cielo e pollice… verso!

Dunque, la Cucchi mostra di aver colto in pieno i due aspetti del dramma che lo rendono di assoluta attualità anche ai giorni nostri, caratterizzati da proclami para-razzisti di chi vorrebbe buttare a mare chiunque si avvicini a Lampedusa e femminicidi dilaganti, in nome del diritto di possesso del maschio: i ritagli di giornale proiettati mentre Ives Abel dirige passabilmente bene la Sinfonia ce ne danno prova.

Quindi: tutto a posto? Mah, la corretta analisi che la regista fa del soggetto, nella sua sostanza, viene in buona parte contraddetta dalla forma impiegata per portarlo sulla scena. Sì, perchè un’opera teatrale, oltre che presentare contenuti più o meno pertinenti con la realtà in cui vive lo spettatore, si caratterizza anche (e soprattutto) sotto aspetti che riguardano strettamente l’Autore (o gli Autori) dell’opera medesima e la loro concezione (sotto il profilo letterario e musicale) artistica ed estetica. Non a caso, tanto per schematizzare al massimo, si parla, nel teatro musicale, di classicismo, di romanticismo e di verismo, approcci artistico-estetici assai diversi fra loro (soprattutto nei contenuti musicali!) e piuttosto chiaramente associabili a periodi storici e alle relative produzioni. 

Ora vengo al dunque: Rossini come lo definiamo? Non certo romantico (o al massimo proto-romantico) né tanto meno verista. Peccato che la Cucchi abbia invece inscenato l’Otello di Rossini come un’opera di teatro squisitamente verista! E siccome – per nostra fortuna – Abel e tutte le voci impegnate sul palcoscenico hanno suonato e cantato il Rossini autentico (classico, come lui stesso  ebbe ad autodefinìrsi su Otello) ecco che si è creata una frattura quasi insanabile fra ciò che si sente (testo&musica) e ciò che si vede! Insomma: l’errore della Cucchi è lo stesso, ma proprio identico, a quello – tanto per fare un esempio ancora caldo – commesso da Mario Martone con il suo Rigoletto scaligero: tradire cioè alla radice l’approccio estetico dell’Autore.

Il primo atto è ambientato in una grande sala da pranzo con attiguo foyer dove gli invitati, fra i quali lo stesso Otello (?!) vagano chiacchierando amabilmente in attesa di accomodarsi alla lunghissima tavola e fregandosene del merito dell’evento e del premiato. Poi si accomodano a tavola e lì restano a pasteggiare ignorando, nell’ordine: l’esternazione e la cavatina di Otello, l’incontro Elmiro-Rodrigo e il successivo duetto Rodrigo-Iago. Insomma, una scena lontana le mille miglia dalla solennità dell’evento e della musica che lo sottolinea.

Il second’atto è ambientato nel guardaroba attiguo al salone, dove si aggirano inservienti che hanno il solo scopo di distrarre l’attenzione dello spettatore dal drammatico confronto Rodrigo-Desdemona e dalla confessione di quest’ultima ad Emilia. Verismo misto a comicità nella scena del diverbio Otello-Rodrigo, con i due che si sfidano alla roulette russa con un revolver che fa regolarmente cilecca, mentre per nostra fortuna i DO e i RE sovracuti sparati dai due vanno perfettamente a segno! Poi Desdemona, invece di svenire, casca al suolo maltrattata con crudo verismo da Rodrigo (ma ovviamente anche Iago con le femmine che gli capitano a tiro non scherza, in fatto di sexual harassment…) La scena di Emilia che soccorre la padroncina è anch’essa funestata dalla gratuita e disturbante presenza di comparse. Poi nel finale le damigelle del coro appaiono tutte macchiate di sangue, per ricordarci che sono… carne da macello.

Nel terzo atto, invece dell’intimità della camera da letto di Desdemona, torna in primo piano la gran tavola da pranzo, attorno alla quale la povera donna si dispera, poi ascolta il gondoliere, canta meravigliosamente le sue canzoni e infine vi si addormenta sopra, raggiunta poi da Otello che la finirà (forse) per shakespeariano soffocamento, strangolata con la di lei sciarpona. Si riapre alle spalle la vista sul foyer, dove ad un’altra tavola stanno banchettando gioiosamente gli invitati, tutti felici e contenti per lo scioglimento del dramma e il prossimo lieto fine (quello del 1820 a Roma?!) Ma Otello – non si sa con quale strumento – li delude, chiudendo l’opera come si deve.

Il pubblico di ieri sera ha accolto la Rosetta solo con applausi, depurati da mugugni e dissensi che si erano chiaramente uditi alla prima. Evidentemente viene confermato il moderno andazzo di giudicare prestazione musicale e presentazione scenica come due compartimenti stagni del tutto indipendenti, dimenticando di valutare – sul piano estetico - la coerenza tra le due componenti essenziali del teatro musicale.
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Detto dell’allestimento, non mi resta che accomunare in un giudizio di assoluta positività l’intera compagnia di canto (solisti e il coro di Farina) e i Musikanten della OSN-RAI, diretti con salda autorevolezza dal veterano Abel. Punte di eccellenza per i due protagonisti, Eleonora Buratto (una Desdemona vocalmente perfetta) ed Enea Scala (più tenore che bari-tenore, ma ci sta). Ma sugli scudi anche Dmitry Korchak (che farebbe bene a ri-dedicarsi solo al canto, lasciando le velleità di Kapellmeister ad un lontano futuro…) e Antonino Siragusa. Evgeny Stavinsky mi ha lasciato ancora qualche perplessità, per alcune forzature vociferanti, mentre più che discretamente ha fatto Adriana Di Paola come Emilia. Julian Henao Gonzales ed Antonio Garès hanno completato dignitosamente il cast.
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Il ROF-XLIII chiude i battenti questa sera con il Gala per i 40 anni pesaresi di Pier Luigi Pizzi. Dato che io ho un filino di idiosincrasia per questo tipo di spettacoli, non sarò alla famigerata Vitrifrigo Arena, ma nel cuore della città, a seguirlo in mezzo alla ggente di Piazza del Popolo, dove come sempre verrà irradiato su schermo gigante a cura del Comune.

Poi, arrivederci – Meloni permettendo, hahaha! - al 2023, quando finalmente il Festival toglierà anche l’ultimo zero dal suo glorioso tabellino: Eduardo&Cristina

20 gennaio, 2020

La Risurrezione di Firenze


Eccomi quindi a riferire della seconda recita (ieri pomeriggio in un’OF ben affollata - mentre pare che così non fosse alla prima di venerdi...) dell’alfaniana Risurrezione.

L’ascolto della prima su Radio3 mi aveva positivamente impressionato: non già per la qualità della musica, che è quella che è... ma per quella degli interpreti (voci e strumenti) che mi era sembrata di buon livello. E devo dire che l’ascolto dal vivo ha confermato sostanzialmente questa impressione.

Anne Sophie Duprels è stata la regina della serata: voce abbastanza solida e corposa di soprano lirico-drammatico, ha proposto una Katiusha convincente nelle tre diverse prospettive nelle quali il personaggio si materializza: l’ingenua, spaurita ma infine voluttuosa adolescente; la spoetizzata e involgarita condannata-prigioniera; e infine la donna che trova la via della redenzione, pur non rinnegando i suoi sinceri sentimenti legati al tempo dell’ingenuità. 

Degna di apprezzamento la performance del tenore Matthew Vickers, un Dimitri a momenti spavaldo, oppure sconvolto (la rivelazione del figlio perduto) o ancora sinceramente premuroso con Caterina e leale con Simonson. La voce, che Alfano impegna spesso e volentieri nell’ardua zona di passaggio, è squillante e abbastanza ben proiettata, gli acuti sono staccati senza problemi. I duetti con Caterina sono stati fra le perle della serata.

Il catto-comunista Simonson era Leon Kim, che ha affrontato a viso aperto una parte baritonale per nulla facile, per quanto limitata al solo ultimo atto, mostrando buona intonazione e sicurezza anche nelle impervie salite al FA e al SOL cui lo chiama la partitura.

Applauditissima Romina Tomasoni, che ha incarnato la Matrena Pavlovna e (nel second’atto alla stazione) la fedele e premurosa Anna.

Francesca Di Sauro (Sofia Ivanovna) e Ana Victoria Pitts (sdoppiatasi in Korableva e Vera) hanno completato il cast dei ruoi principali con pieno merito.

Benissimo il Coro di Lorenzo Fratini, di rilievo quantitativamente non debordante, ma fondamentale, con interventi a bocca chiusa e a cappella. In più, alcune voci femminili hanno ricoperto ruoli non marginali, in particolare nel terz’atto della prigione.

Francesco Lanzillotta ormai non è più una promessa, e la sua concertazione ne è testimonianza, per accuratezza e costante ricerca del miglior equilibrio dei suoni di voci e strumenti. Poi, nei diversi passaggi puramente strumentali, il Direttore fa tesoro della lunga esperienza alla guida di Orchestre Sinfoniche.
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L’allestimento è affidato a Rosetta Cucchi, che si avvale delle scene - essenziali, ma di sicuro impatto - di Tiziano Santi e degli appropriati costumi di Claudia Pernigotti. Le luci, ideate da D.M.Wood, sono curate da Ginevra Lombardo e nella loro essenzialità ben supportano l’ambientazione ora serena, più spesso cruda, dell’opera. 

Approntata per un appuntamento irlandese, questa messinscena si fa innanzitutto apprezzare per la fedeltà rigorosa (parlo della sostanza) al testo originale: la storia che ci viene raccontata è precisamente quella che esce dal libretto di Hanau. Dopodichè la regista ci deve mettere qualcosa di suo, come l’apparizione in scena di una bimbetta che rappresenta la Caterina nella sua infanzia spensierata; oppure ambientare il carcere in cui è rinchiusa la donna in un laboratorio di cucito, con una selva di macchine Singer, la cui presenza nella Russia del 1880-90 è dubbia; o ancora mostrarci nel quarto atto i binari di una Transiberiana che era con tutta probabilità ancora di là da venire... e altre cosucce francamente innocue, ecco. Assai efficace la resa dei personaggi e delle loro interazioni. Mirabile ed emozionante, senza scadere nel banale, la scena ultima, con l’apparizione di un luminoso paesaggio agreste nel quale si incontrano la Caterina risorta e la sua piccola controfigura.
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Che dire, in definitiva? Lo spettacolo è di ottimo livello e l’accoglienza del pubblico è stata oltremodo calorosa. Insomma, un'azzardata scommessa (chè tale era e rimane) ampiamente vinta!

12 gennaio, 2020

Rarità in arrivo a Firenze: Risurrezione


Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinchè nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli; – pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città. Il sole riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini – gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare sè stessi e gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutti gli esseri, – quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo, all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano inventato per dominare gli uni sugli altri.

Greta? Francesco?

Queste parole di assoluta attualità sono l’apertura di Risurrezione di Leo Tolstoi, 1899. Da questa novella nel 1902 Henry Bataille trasse il testo di una pièce teatrale che fu vista da Franco Alfano. Il quale ne rimase tanto colpito da decidere di metterla in musica; ma le pretese eccessive del letterato francese indussero il compositore a ripiegare su una soluzione diversa: un libretto (affidato a Cesare Hanau, supportato dal drammaturgo Camillo Antona-Traversi) direttamente ispirato a Tolstoi e non a Bataille, il che spiega le non banali divergenze fra il testo del francese e quello dell’italiano.

L’OF ospiterà fra pochi giorni quattro rappresentazioni di quest’opera che ebbe un discreto successo al suo apparire, per poi... sparire o quasi dai cartelloni dei Teatri. Quando Alfano la presentò a Torino Giacomo Puccini aveva da meno di un anno sfornato la Butterfly, e certo non immaginava che una ventina d’anni dopo proprio al giovane collega partenopeo sarebbe stata affidata la sua tormentata e incompiuta Turandot per portarla... all’altare.

Il lavoro di Tolstoi ha caratteristiche piuttosto particolari, anche se non certo insolite per un’opera letteraria di quel genere: è infatti un racconto pieno di flash-back che mal si adatta al teatro (di prosa o musicale, cambia poco) e che la stessa cinematografia ha le sue belle gatte da pelare per rendere in modo efficace. Tolstoi apre il suo racconto proprio in-medias-res, in questo caso nel bel mezzo cronologico della sua storia (il processo a Caterina) metà della quale apprenderemo via via, appunto, come ricordi e riferimenti al passato, e l’altra metà come descrizione di eventi successivi, fino alla catartica conclusione. La pièce di Bataille e il libretto di Alfano-Hanau seguono invece un percorso rettilineo, che parte dall’evento scatenante del dramma (il prolifico incontro nella notte di Pasqua fra Dimitri e Caterina) e da lì procede fino alla fine.

Va subito sottolineato come le due riduzioni teatrali (Bataille e Alfano-Hanau) si concentrino esclusivamente (e, direi, appropriatamente, essendo opere destinate al teatro) sulla vicenda umana dei due protagonisti (Dimitri e Caterina) che invece in Tolstoi rappresenta - si potrebbe dire - solo il pretesto per l’esposizione di un vero e proprio trattato scientifico-antropologico-politico-giuridico-religioso, con tanto di critica corrosiva della società del suo tempo! Nel racconto del russo - che ha risvolti autobiografici - troviamo lunghissime dissertazioni sulla problematica della proprietà privata, in particolare di quella delle terre; e le proposte concrete, con tanto di contrattualistica, che il Principe Dimitri fa ai contadini dei suoi poderi essendo intenzionato a cedere loro la terra. Non parliamo poi della tematica relativa all’amministrazione della giustizia e delle carceri, con tanto di analisi dettagliate di leggi, norme, consuetudini e soprattutto con l’elencazione di casi che testimoniano infinite storture e brutalità del sistema. Ancora: argomenti squisitamente politici e ideologici, che occupano la mente di Dimitri, la cui parabola passa da un ingenuo idealismo adolescenziale, al conformismo che subentra con la maggiore età e il contatto con l’ambiente della nobiltà e dell’esercito, comprese le attitudini da libertino verso le donne (testimoniate anche da una relazione con una nobile sposata) di cui la povera Caterina diventa vittima; e infine - dopo il drammatico e quasi casuale incontro in tribunale con la ragazza sedotta anni prima e ora imputata di omicidio - il subentrare, attraverso il senso di colpa, di una volontà di riparazione, non solo del male fatto alla ragazza, ma del male dell’intero universo... maturando con ciò idee che oggi definiremmo catto-comuniste, un misto di radicalismo e filantropia, di cui è lampante esempio l’incontro-scontro con il cognato, membro dell’establishment dell’amministrazione giudiziaria e portatore di idee conservatrici, se non proprio reazionarie. Il racconto di Tolstoi si chiude con Dimitri che rilegge il Vangelo dopo l’addio di Caterina, rifiutatasi di accettare la sua proposta di matrimonio riparatore, il che fa esplodere in lui una profonda fede religiosa, che ispirerà la sua vita futura (Risurrezione!)

La mappa che segue reca le indicazioni delle principali località di cui si parla nel romanzo:


Panovo è la residenza delle zie di Dimitri, presso le quali il giovane aveva passato, da laureando, un periodo di vacanza, iniziando una tenera amicizia con la piccola Caterina. A distanza di pochi anni - ufficiale dell’Esercito - ci torna per trascorrere la Pasqua prima di andare a Odessa, e di lì al fronte per la guerra contro i turchi. Nella notte di Pasquetta mette incinta Caterina. (Si noti che Tolstoi ci rivela il nome del villaggio solo al 62° capitolo del racconto, dopo averne parlato già in lungo e in largo!) Alla periferia sud-est di Mosca (Kusminskoie) c’è il possedimento della madre di Dimitri, che lui deciderà poi di cedere ai suoi contadini. A Mosca (lo si deduce dal contesto, non viene detto esplicitamente!) si svolge anche - dopo qualche anno da quella Pasqua con Caterina - il processo alla ragazza (nel frattempo finita in casa di tolleranza) nel quale Dimitri fa da giurato popolare. A Pietroburgo si svolge la sessione del Senato in cui si discute la richiesta di cassazione del processo a Caterina, richiesta promossa da Dimitri ma respinta, il che comporta per la donna l’esecuzione della pena: lavori forzati in Siberia. Nizni (allora capolinea della ferrovia) Perm, Ekaterinburg, Tjumen e Tomsk sono le città citate nel romanzo e incontrate sul percorso di Caterina e dei deportati in Siberia, che Dimitri ha seguito, intenzionato a convincere la donna a sposarlo: dopo Tomsk la marcia prosegue ancora, ma senza che venga esplicitamente citata la località (forse Krasnojarsk...o l’ancor più remota Irkutsk) dove avviene la definitiva separazione fra Dimitri e Caterina.    

Tolstoi non dà precise indicazioni sull’epoca degli avvenimenti, ma il periodo storico si può abbastanza plausibilmente individuare in quella decina d’anni che decorre dallo scoppio della seconda guerra Russia-Turchia (1877): un indizio di ciò è nella presenza della ferrovia che passa nei pressi di Panovo, che Dimitri usa per andare al fronte turco, che certo non poteva esistere al tempo della prima guerra (quella di Crimea, per intenderci, che è del 1853-56).

Ora, dovendo ridurre un tomo di 800 pagine (129 capitoli suddivisi in tre parti) ad un testo teatrale, o a libretto d’opera, è evidente che si dovessero fare delle scelte. Lo schema sottostante riporta sinteticamente la struttura dei due lavori teatrali di Bataille e Hanau(-Alfano):


Come si può notare, le due riduzioni hanno alcune parti importanti in comune, ma altre diverse, a conferma dell’indipendenza del libretto di Hanau dal testo di Bataille. Entrambi contengono inoltre parecchie divergenze rispetto all’originale di Tolstoi, quasi inevitabili in casi come questo: quando si prendono, da un enorme mosaico, soltanto alcune tessere per costruirne uno più ridotto, è fatale che le tessere scelte poi non combacino più perfettamente, il che costringe a qualche... acrobazia per far tornare i conti. Incominciamo da Hanau. Il quale, nel secondo atto, modifica radicalmente la vicenda del mancato incontro fra Caterina e Dimitri alla stazione di Panovo.

Tolstoi: Dimitri è di ritorno dal fronte, ma fa sapere alle zie di non aver tempo di fermarsi nemmeno un giorno; è probabile che voglia evitare di incontrarsi con Caterina, che ancora abita lì (la sua gravidanza è tuttora un segreto, scoperto il quale verrà brutalmente cacciata): lei quindi, avendo evidentemente avuto l’informazione del giorno e ora di passaggio da Panovo del treno su cui viaggia Dimitri, si propone di parlargli in quei tre minuti di sosta del treno alla stazione, in piena notte. Purtroppo non ci riesce, per banali contrattempi.

Ora, costruire su questo prosaico episodio un intero atto d’opera sarebbe davvero dura... ed ecco che allora Hanau si inventa tutto di sana pianta: che Dimitri si ferma dalle zie per qualche giorno e (per matematica conseguenza) che la gravidanza di Caterina è stata già scoperta, portando alla cacciata della giovane dalla casa (altrimenti i due si incontrerebbero proprio lì, dalle zie...) Quindi si vede costretto ad inventare che Caterina abbia saputo da qualcuno della presenza a Panovo di Dimitri e del giorno della sua partenza, e che si rechi quindi alla stazione per incontrare il padre della creatura che porta in pancia (domanda: perchè non va direttamente a cercare Dimitri?) Ma adesso bisogna anche inventare un motivo per il quale l’incontro va a vuoto: ed ecco quindi la creazione del personaggio (muto) di Nora, che accompagna Dimitri e la cui presenza trattiene Caterina dal farsi avanti con l’amato (!)

Transigiamo sull’inspiegabile scambio di ruoli nel ricordo della corsa nei prati (in Tolstoi è lui che cade in mezzo alle ortiche, non lei, come nell’opera!) e sulla collocazione di Hanau della prigione di Caterina a Pietroburgo, invece che a Mosca, come correttamente fa Bataille. Il quale, da parte sua, costruisce il suo secondo atto mescolando due distinti episodi del romanzo: il battibecco a sfondo ideologico fra Dimitri e il cognato, e la rottura del fidanzamento dello stesso Dimitri con Missy. Comune a Bataille e Hanau è l’invenzione - nell’ultimo atto - della Pasqua in Siberia (in Tolstoi il racconto si chiude ancora in pieno inverno e sul mistico colpo-di-fulmine di Dimitri).
     
L’opera di Alfano viene (non proprio unanimemente) definita come verista: ma è un verismo (almeno secondo me) che si riduce a qualche contenuto musicale particolarmente carico di colori ed eccessi drammatici. Nella sostanza, il verismo autentico è in Tolstoi! Insieme all’assoluta coerenza del testo. Basta osservare come ci viene presentata dallo scrittore russo la vicenda della seduzione pasquale: Dimitri si era già, per così dire, traviato nei tre anni precedenti, con l’ingresso in società e il suo approccio verso Caterina in quella fatale Pasqua-Pasquetta, dopo un iniziale quanto fugace slancio romantico, fu di pura libidine e carnalità, desiderio maschilista di possesso: per tutta la giornata di Pasqua lui non fece che pensare a come possederla e per tutta la notte successiva non fece altro che darle letteralmente la caccia, fino a raggiungere il suo libidinoso obiettivo (infatti ricompensato con una banconota da 100 rubli, consegnata quasi di forza alla povera ragazza, trattata quindi come una prostituta!)

Nell’opera tutto ciò risulta assai edulcorato (verismo? haha...) ed anzi troviamo il giovane ancora ingenuo e romantico di qualche anno prima (cita addirittura Carducci: ecco l’albero a cui stendevi invano la piccioletta man...) L’unione fra i due alla chiusura del primo atto, a parte qualche timida esitazione di lei prima di abbandonarsi, è proprio la classica scena d’amore da melodramma tradizionale (...è il dì che unisce i nostri cuori in un solo destin!) La verità (di Tolstoi) la verremo sorprendentemente a sapere solo nel terzo atto, quando sarà proprio Caterina a svelarcela, rinfacciando a Dimitri l’affronto dei 100 rubli!

La stessa chiusa dell’opera è quanto di più melodrammatico (ma anche banalotto) si possa immaginare: il duetto strappalacrime fra due che si giurano amore e contemporaneamente si lasciano... e l’invenzione (mutuata da Bataille) della Pasqua siberiana con quella reiterata invocazione Cristo è risuscitato! che sa tanto di sagra paesana (dove magari spadroneggia la più grande ipocrisia). Tolstoi al contrario ci mostra il distacco fra Dimitri e Caterina con grande realismo (i due si lasciano come buoni amici, senza alcuna enfasi); e poi chiude con un fulminante concetto: dopo la lettura del Vangelo, che Dimitri fa la notte successiva, preparandosi a tornare in Russia, nulla - per lui, almeno - sarà più come prima!
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Sul piano musicale siamo di fronte - sempre a parere mio personale - ad un velleitarismo degno di miglior causa. Per carità, si può apprezzare la buona volontà di questo 28enne che cerca di farsi largo seguendo la corrente italiana che in quel momento pareva prevalere, ma i risultati sono piuttosto modesti. E non a caso lo stesso compositore abbandonerà assai presto il filone verista per cercare altre strade originali (Sakuntala ne sarà un frutto apprezzabile). Tornando a Risurrezione, a parte pochi spunti (da contarsi col contagocce) non trovo in quelle quasi due ore di musica molto di coinvolgente, nulla che faccia vibrare genuinamente qualche corda interiore. È un quasi continuo recitativo accompagnato (o arioso al massimo) su motivi abbastanza anonimi, poco scolpiti e poco penetranti, che devono oltretutto supportare un testo di per sè piuttosto piatto e incolore. Qui una delle poche registrazioni dell’opera, dove di apprezzabile c’è soprattutto la straordinaria voce di Magda Olivero. 

Insomma: un’opera appena appena interessante, certo non bella. Possiamo sperare che il bravo Lanzillotta e la creativa Cucchi ce la rendano almeno interessante! Venerdi 17 alle 20 su Radio3 la prima.

19 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Adina



Ieri al Teatro Rossini (con qualche vuoto di troppo, probabilmente dovuto al bizzarro orario di inizio, le 16:00, quando anche i melomani più incalliti sono ancora in spiaggia o in barca) è andata in onda la terza recita di Adina.

Prima dell’inizio si ode l’annuncio che la protagonista Lisette Oropesa canterà regolarmente, anche se afflitta da una non meglio precisata indisposizione (di certo non una scottatura...) Invece un doveroso minuto di raccoglimento per ciò di cui il Paese è ancora sotto choc è stato rispettato solo perchè uno spettatore ne ha urlato la richiesta a Diego Matheuz, che stava ormai dando l’attacco del preludio. E meno male che il Direttore venezuelano ha meritoriamente raccolto l’invito.
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Adina è opera notoriamente controversa, quanto alle origini e alle circostanze della sua composizione. Fabrizio Della Seta, che alla fine del secolo scorso ne curò l’edizione critica, ne ha ricostruito i contenuti musicali in un saggio pubblicato sul programma di sala. Da esso ho ricavato questo schema che sintetizza la struttura del lavoro, con l’indicazione della fonte di ciascuna sua parte, inclusi gli auto-imprestiti (dal Sigismondo). Come si nota, oltre al compositore, le musiche sono di mano di un non meglio identificato Collaboratore (così lo apostrofa Della Seta) e di copisti/collaboratori capaci di predisporre i recitativi secchi o di riprendere e adattare musiche auto-imprestate. Ma alcune parti sono di mano del compianto Philip Gossett e dello stesso Della Seta.

numero
Rossini
Collaboratore
copista / collab.
1. Introduzione
X


    recitativo


X
2. Cavatina (Adina)
(deriv. Gazza Ladra)
orchestrazione

3. Coro


(Sigismondo - Viva Aldimira)
    recitativo


Gossett - Dalla Seta (Coro 3b)
4. Duetto

X

    recitativo


X
5. Aria (Califo)

X

6. Sc.-Aria (Selimo)


(Sigismondo - Cavat. Ladislao)
    recitativo


X
7. Quartetto
X


    recitativo


X
8. Aria (Alì)


(Sigismondo - Rondò Anagilda)
    recitativo


X
9. Aria (Adina) - Fin.
X



Insomma, un bel pot-pourri che si spiega con la fretta di Rossini (che era occupato in ben più importanti impegni a Napoli) oltre che con le difficoltà relative al luogo della prima rappresentazione (Lisbona); difficoltà che spiegano probabilmente anche il ritardo di ben 8 anni fra composizione e andata in scena!
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La recita di ieri (mi) ha confermato le positive impressioni ricevute dalla prima ascoltata in radio. Lisette Oropesa ha sfoggiato la sua voce cristallina, oltre che una bella presenza scenica. Levy Sekgapane ha una vocina sottile-sottile, ma adatta a questo ruolo di ragazzo timido e ingenuo. Efficace Vito Priante nella parte del ruvido Califo, capace peraltro anche di slanci affettuosi. Di buona fattura le prestazioni dei due comprimari: Matteo Macchioni che impersona la... macchietta di Alì e Davide Giangregorio, un simpatico Mustafà. Eccellente il Coro della Fortuna (Mirca Rosciani) ben disimpegnatosi anche sul fronte dellla presenza scenica.

Diego Matheuz  ha diretto con sobrietà la Sinfonica Rossini, senza sbracature e con attenzione all’equilibrio fra buca e voci.
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La farsa fu originariamente definita come un’opera in un atto unico, di contenuto serio o comico. La trama si fonda tipicamente su equivoci, qui-pro-quo, malintesi, fischi-per-fiaschi, roma-per-toma e simili bizzarrie, che possono dar luogo indifferentemente ad esiti esilaranti o tragici. Con l’andar del tempo per farsa si è sempre più intesa una pièce di carattere umoristico e improbabile, e il termine farsesco è divenuto sinonimo di ridanciano, sboccato e cialtronesco.

E proprio in questa accezione Rosetta Cucchi ha interpretato il soggetto di Adina, a dispetto del suo sottofondo potenzialmente tragico. Così l’ambientazione è in un’allegra festa di matrimonio (fra Califo e Adina) e poco traspare del dramma della protagonista e del suo innamorato Selimo. Salvo il loro arresto al momento della tentata fuga, arresto peraltro eseguito da guardie abbigliate come nelle più classiche vignette di cartoon satirici. 

La scena di Tiziano Santi è assolutamente statica: una gigantesca torta nuziale a tre piani, sui quali si muovono protagonisti e figuranti (o coristi) e all’interno della quale si intravedono ambienti domestici. I costumi di Claudia Pernigotti nulla hanno a che vedere con il testo del Bevilacqua, riproducendo una fauna umana popolata da tamarri o capi-cosca (Califo) e moderni eunuchi (Alì, che calza scarpe da donna, peraltro con tacco basso per evitare... cadute) con la quale devono convivere i poveri Selimo e Adina (anche loro tutt’altro che sobri nei rispettiivi abbigliamenti). Anonimo invece il giardiniere Mustafà, con qualche vegetale in testa. Daniele Naldi firma l’impiego delle luci, piuttosto elementare: sempre chiaro abbagliante, salvo che nel siparietto notturno.

Tutto sommato uno spettacolo accattivante e scorrevole, che il pubblico ha mostrato di gradire assai, con calorosi applausi e numerose chiamate per tutti.

19 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 2


Ieri pomeriggio terza recita del nuovo Werther bolognese. Bibbiena piacevolmente affollato e, lo dico subito, entusiasta dello spettacolo, guidato in scena da Rosetta Cucchi e in buca da Michele Mariotti.

Occhi (orecchi, soprattutto) puntati sul mitico JDF, che non ha tradito le attese, anche se in questo repertorio dà l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua: non certo perchè canti male, ma per la forse eccessiva assuefazione che abbiamo noi, suoi ascoltatori, ad aspettarci sempre da lui i mirabolanti virtuosismi rossiniani, che il tardo-romanticismo ha irrimediabilmente mandato in soffitta. Insomma, il problema non è suo, ma nostro! Dopodichè stabilire graduatorie (meglio Kraus? Kaufmann?) è esercizio che lascio volentieri agli specialisti (o millantati tali): a me personalmente è piaciuto abbastanza come cantante e un po’ meno come attore, sempre impacciato e poco credibile.

I suoi fan non hanno perso l’occasione per osannarlo dopo Pourquoi me réveiller che, essendo l’unica aria dell’opera degna di questo nome, da sempre viene usata per celebrare il tenore di turno: fatto sta che quell’applauso prolungato rovina irrimediabilmente la drammaticità della scena (Massenet in quel punto non prevede alcuna pausa, arpa e archi bassi devono continuare a suonare, gli strumentini riprendono subito la melodia). Ma si sa, certo pubblico è lì per il fenomeno da baraccone, mica per il dramma! E ieri l’insistenza è stata tale da convincere JDF al bis. Così, quasi per vendetta, il destino ha voluto che il dramma, cacciato dal palcoscenico, si sia trasferito in platea, dove una persona è stata colta da malore proprio durante le rumorose richieste di bis: chissà se per l’emozione provocatale dal canto di JDF o per lo spavento dovuto a tutto quel baccano. Sta di fatto che sono dovuti intervenire gli addetti alla sicurezza per trasportare la vittima fuori dalla sala, passando dall’uscita di emergenza posta proprio a lato della buca. Mariotti ha visto, ma si è girato per attaccare il bis: insomma, una scena assai poco edificante!

Isabel Leonard veste i panni, ma soprattutto dà la voce a Charlotte e devo dire che se l’è cavata più che bene, mostrando belle qualità vocali in tutta la gamma e restituendoci efficacemente tutta l’ambiguità di cui Massenet (al contrario di Goethe) riveste il personaggio. Interessante, con lei, anche la sorellina, la Sophie di Ruth Iniesta, voce ben impostata e robusta, sempre a suo agio in questa parte leggera e scanzonata.

Albert è interpretato da Jean-François Lapointe: senza infamia e senza lode la sua prestazione, davvero in linea con la grigiosità (?!) del personaggio. Da dimenticare il borgomastro di Luca Gallo, vociferante invece che cantante. Bravi invece Alessandro Luciano, Lorenzo Malagola Barbieri, Tommaso Caramia e Aloisa Aisemberg nelle parti di contorno. Encomiabili i sei piccoli fratellini di Alhambra Superchi.  

Michele Mariotti non si scopre oggi: sapiente la sua direzione, che ha esaltato le raffinatezze dell’orchestrazione di Massenet; sempre precisi ed efficaci gli attacchi ai cantanti; fracassi mai esagerati e invadenti.

Complessivamente mi è parsa una prestazione più che accettabile.
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Rosetta Cucchi (coadiuvata da Tiziano Santi per le non mirabili scene, Claudia Pernigotti per i costumi anonimi e Daniele Naldi per le luci, molto efficaci) ha proposto un’idea allo stesso tempo interessante e abusata: il protagonista appare sin dal preludio seduto su una sedia al proscenio, dalla quale osserva gli avvenimenti in una specie di flashback, che però è anche flashforth, visto che Werther prevede anche il futuro ménage Charlotte-Albert con tanto di figlioletto (... mah).

Questa idea dell’osservatore fuori-scena viene sapientemente sfruttata dalla regista alla fine del terz’atto: lei deve essersi resa conto che quel finale è - nel libretto e contrariamente a Goethe – quanto di meno plausibile si possa immaginare, con quell’accavallarsi di avvenimenti nel giro di pochi secondi; così ha ideato un’autentica genialata: niente domestico di Werther a recare il messaggio delle pistole, ma il biglietto lo lascia sul tavolino direttamente Werther prima di andarsene. Però ci si chiede: come faranno adesso le pistole ad arrivare in mano all'aspirante-suicida? Semplice: è la stesa Charlotte che, invece di consegnarle al domestico, le deposita direttamente sulla poltrona al proscenio dalla quale Werther ha osservato in flashback-and-forth gli avvenimenti, e sulla quale lei lo troverà poi già sparato!

Ambientazione di inizio ‘900, come conferma l’etichetta 1919 della bottiglia di grappa che il Werther, osservatore di passato e futuro, sorseggia seduto sulla poltrona in proscenio (il libretto non fa cenno, contrariamente a Goethe, alle attitudini libatorie del protagonista). Tutto ciò forse in omaggio all’epoca di massimo sviluppo delle teorie di Freud, anticipate da Goethe già a fine ’700. Suppellettili e costumi adeguati all’epoca. Il clavicembalo di Charlotte si trasforma in un minuscolo carillon, così anche il libretto viene adattato alla bisogna: Werther canta (e il display lo conferma) Voilà le carillon, al posto dell’originale Voilà le clavecin. I libri posti sul tavolino di casa si trasformano nel terz’atto in un’enorme libreria occupata da lussuosi tomi rilegati in pelle, mentre Ossian è relegato a paginette di un’agendina tascabile di Werther. Ma insomma, piccolezze.  

La Natura, tanto adorata da Werther, è rappresentata da foglietti di cartavelina che cadono dall’alto e da due altissimi alberi, che poi si riducono ad uno soltanto e di cui infine non resta che un tronco di... tronco, radici all’aria. 

Tutto sommato, pochi danni e va bene così. Anche per il pubblico!