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04 settembre, 2019

A Rimini un po’ di Rotterdam


Il glorioso e centralissimo Teatro Amintore Galli di Rimini - che aveva ospitato nel 1857 la prima rappresentazione nientemeno che di un’opera di Giuseppe Verdi (Aroldo) - a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era caduto praticamente nel dimenticatoio. Fino a quando (pochi mesi orsono) è finalmente stato riportato al suo antico splendore: Cecilia Bartoli lo ha re-inaugurato nell’ottobre 2018.

Così ora può ospitare, oltre a rappresentazioni di opere, anche i concerti della Sagra musicale malatestiana (arrivata quest’anno alla 70ma edizione) che si tenevano tradizionalmente nelle sale alquanto anonime dei Palazzi dei Congressi (vecchio e poi nuovo) della periferica via della Fiera. Quest’anno la Sagra ha già ospitato Riccardo Muti (spostatosi di pochi chilometri dalla sua casa di Ravenna) e la London Symphony con Simon Rattle.

Ieri sera è stata la volta della prestigiosa Rotterdam Philharmonic, in tournèe estiva, proveniente da Gstaad e poi diretta (domani) a Verona ad offrire ad un pubblico folto quanto entusiasta un interessante programma otto-novecentesco.

Lahav Shani, trentenne israeliano pupillo di Mehta, fresco di nomina a Direttore musicale dell’Orchestra - uno che dirige fcendo uso assai parco della mano sinistra - ha presentato dapprima le musiche dallo stravinskiano Petruška, che hanno consentito ai professori della sua Orchestra di mettere in luce le loro grandi qualità, i fiati e le percussioni in particolare.

Poi la bella e brava 33enne violinista norvegese Vilde Frang ha interpretato quell’autentico distillato e concentrato di romanticismo virtuosistico che risponde al nome di Concerto op.26 di Max Bruch. E lei ne ha fatto emergere proprio il lato più dolciastro (detto nel bene e nel male) mentre Shani, quando era l’Orchestra a prendere la scena, ha un po’ troppo esagerato con il fracasso. Ma il successo non è mancato e i due protagonisti si sono poi esibiti in un bis di duo piano-violino.

Ha chiuso la serata ufficiale il Walzeraccio di Ravel, dove ancora Shani ha lasciato briglia sciolta all’Orchestra, davvero compatta e dal suono tagliente, proprio adatto ad esaltare le impertinenze di questa bizzarra partitura raveliana. Per mandarci a letto contenti, l’Orchestra ha offerto una bis... sognante.

Fra poche settimane toccherà a Jordi Savall, che proporrà un insolito - fino a poco tempo fa, per lui - programma beethoveniano: 3-5; e poi - a dicembre - alla Santa Cecilia (con Dudamel) chiudere il ciclo dei 5 concerti sinfonici della Sagra-70.

23 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 18


Dopo aver diretto la Nona a Capodanno, Oleg Caetani torna – con il braccio sinistro al collo! - sul podio dell’Auditorium per un concerto che accosta due brani quasi sconosciuti ad un ormai inflazionato Ciajkovski: i primi due sono contemporanei come epoca ma non potrebbero essere più lontani come impostazione, il terzo è la pretenziosamente tragica Quarta del russo.

Si apre con uno dei tanti autori tardo romantici, Max Bruch, di cui si esegue però un brano assai poco presente nei cartelloni sinfonici: il Concerto per clarinetto, viola e orchestra. Occasione per laVERDI per mettere in mostra le qualità di due prime parti – ed entrambe femminili! - dei rispettivi ruoli: Raffaella Ciapponi e Miho Yamagishi.

Il concerto (la parte di clarinetto, scritta da Bruch per il figlio, è sostituibile da una per violino) è dell’anno di grazia 1911. In quell’epoca il Mahler morente aveva già completato la Nona e il Lied e Strauss aveva già alle spalle cosucce quali Elektra e Salome; Schönberg si era da tempo incamminato sulla strada atonale e Stravinski da parte sua era ormai arrivato alla ribalta; non parliamo poi di Debussy. Non meraviglia quindi che almeno una buona parte del pubblico di allora abbia strabuzzato gli occhi le orecchie di fronte ad un pezzo che in quel momento sapeva di minestra riscaldata o di carne ammuffita; o anche di ciofeca invece che di profumato caffè.  

In realtà il problema sta nel… manico, come dimostra l’immortalità della musica antidiluviana (nel 1948!) uscita dalla penna di Strauss: e di manico, purtroppo per lui, Bruch ne aveva evidentemente pochino. Però, se in assoluto non ci sarebbe molto da salvare di questo brano, deboluccio nella forma e miserello nei contenuti melodici, va riconosciuto che non è poi peggiore di tanta altra musica di quel genere, che solo per avere 30-40 anni di più veniva 100 anni orsono e viene ancor oggi considerata con maggiore indulgenza.

Prendiamola quindi con… relativistica filosofia e intanto approfittiamone per fare i complimenti alle due simpatiche interpreti, che vi hanno profuso tutto il loro virtuosismo e la loro sensibilità.        

Sicuramente allineato con le tendenze del suo tempo fu invece Rudi Stephan, compositore tedesco coetaneo di… mia nonna (smile!) e purtroppo morto a soli 28 anni (come mio nonno, ahilui) nella Grande Guerra, sul fronte orientale, a Tarnopol. Di lui ascoltiamo Musik für Orchester, un brano che – tutto al contrario di quello di Bruch – si cala perfettamente in quel periodo storico (1912) in cui da un lato vennero a maturazione i germi dell’atonalità (che avrebbero poi portato alla dodecafonia) e dall’altro (ad ovest del Reno) imperava l’impressionismo di Debussy ed avanzavano prepotentemente le nuove tendenze della musica tonale, di cui si faceva interprete Stravinski.

La serietà programmatica dell’opera è testimoniata dall’approccio squisitamente sinfonico di Stephan. Che scolpisce subito un tema (a) dal sapore tristaniano; poi un altro (b) e quindi un terzo (c) impiegato in una fuga:

Questi tre temi principali vengono ripresi e sviluppati con grande maestrìa e con intelligenti variazioni di strumentazione e sonorità. Nella sezione fugata emerge anche una robusta preparazione di Stephan nel trattamento contrappuntistico (ad esempio il tema c elaborato per inversione). Il brano chiude in un vibrante DO maggiore con due sferzate orchestrali costruite sul tema a.

Insomma, un lavoro interessante e intelligente che Caetani, che ha l’indubbio merito di aver tolto dalla polvere la figura e l’opera di Stephan, ha diretto con estrema cura del dettaglio, guadagnandosi quindi un meritato successo personale.

Ha chiuso il concerto la Quarta di Ciajkovski, uno dei pezzi ormai entrati nel sangue dell’orchestra. Che Caetani, a dispetto della menomazione che gli ha (si spera momentaneamente) impedito l’uso del braccio sinistro, ha guidato con grande autorevolezza, trascinando i ragazzi ad una prestazione maiuscola.

Unico neo della serata… il pubblico, composto dai soli (anche se tanti) aficionados.

25 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°34


È John Axelrod ad occupare il podio nel concerto di questa settimana in Auditorium. Con un palinsesto che, contrariamente a certe più o meno radicate consuetudini, presenta due composizioni (relativamente) moderne che prendono in sandwich una dell’ottocento più romantico che si possa immaginare.

I due lavori che aprono e chiudono il programma hanno il titolo di Concerto per orchestra (il primo con la specifica di orchestra d’archi) e sono stati composti a breve distanza uno dall’altro (1948 e 1943). Gli autori sono due musicisti del vicino est (Polonia-Lituania e Ungheria) che hanno avuto profondi, anche se differenti, legami con la civiltà musicale mitteleuropea.

Si inizia con Grazyna Bacewicz, il cui Concerto per orchestra d’archi è la più famosa composizione del suo periodo classico (successivamente si sposterà su posizioni più moderniste, dodecafonia inclusa). È in tre movimenti ed è saldamente ancorato alla tonalità (per quanto sui righi non compaiano mai accidenti in chiave).

C’è chi tira in ballo Bach, chi Händel, per dare dei riferimenti formali-estetici di questa composizione. Che però già alla battuta 7 ti spara un bell’accordo di tritono (SOL#-RE) che avrebbe fatto fare il segno della croce ai due imparruccati barocchi (smile!)   
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Il primo movimento (Allegro) è in tonalità base di RE (con parecchie divagazioni…) e presenta in sostanza due temi: il primo, esposto in origine dagli archi bassi e sostenuto da un pedale ostinato di crome dei violini, è costituito da scalette discendenti di semiminime (che portano all’accordo col tritono) che poi verranno riprese dai violini e dalle viole:
Una variante del tema è proposta dai soli violino primo e violoncello, poi abbiamo il secondo tema, energico, in tempo di 2/4 con frequenti intrusioni di 3/4, 4/4 e 5/4, presentato da viole e archi bassi, con incisi di accordi dei violini, prima sincroni e poi sincopati:
Temi che vengono poi ripresi in una specie di sviluppo e ricapitolazione, quasi da forma-sonata, ed è il secondo a concludere su un RE pizzicato di tutti.   

L’Andante (3/4) riprende il ritmo oscillante del pedale di accompagnamento del primo tema dell’Allegro, sul quale il violoncello solo, all’inizio, poi due viole sole, cantano una delicata melodia:
Il tema è sviluppato assai gradevolmente – sembra quasi anticipare certe atmosfere di Ligeti, e nel contempo richiama vagamente l’impressionismo di Debussy - fino ad arrivare ad un climax (accelerando) da cui rifluisce lentamente, per poi chiudere (ancora verso il RE) su note in armonici.

Il terzo movimento è un Vivo (6/8) aperto, sempre sul RE, da martellanti semicrome che introducono il tema di questa specie di Scherzo:

Che è inframmezzato da due specie di Trii (in cui il tempo diminuisce e l’atmosfera si fa languida e rarefatta) prima che il tema principale si rifaccia largo per chiudere - con un anapesto - ancora sul RE in unisono di tutti gli strumenti.
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Questa composizione conferma come si potesse scrivere – ancora a metà del ‘900 - dell’ottima musica impiegando la vecchia cassetta degli attrezzi, senza necessariamente rincorrere avanguardie e sperimentalismi che hanno dato risultati (per me) francamente deludenti.

E gli archi de laVerdi ce l’hanno propinata con gran perizia ed efficacia, sotto l’esperta bacchetta di Axelrod, meritandosi convinti applausi dal non oceanico pubblico.

Ora si fa avanti il 32enne funambolo yankee-tedesco David Garrett, bardato come fosse appena sceso da una Harley-Davidson (gli mancava solo il foulard…) per proporci il Primo Concerto di Max Bruch. Per usare un linguaggio da pasticceria, trattasi di un babà al miele ripieno di mascarpone, ricoperto di panna vanigliata e sciroppo di fragole e guarnito con marron-glacé e cioccolato gianduia liquido. Insomma: al confronto la mappazza del cacao-meravigliaio ha il sapore di un grissino integrale (smile!)  

Per dire: per tutta la partitura è come se il compositore usasse solo i tasti bianchi del pianoforte, servendosi di quelli neri due o tre volte al massimo, e conoscesse solo accordi di tonica e dominante… roba da chiodi! Il culmine di questa melassa lo si raggiunge nell’Adagio, dove incontriamo quella che è la melodia più famosa – delle tante, una più dolciastra dell’altra - del concerto:
Insomma, siamo in un clima adatto ad un episodio di Harmony (smile!) Il vulcanico Garrett pare il primo a digerire con fatica questo pezzo, tanto che ci infila anche qualche gigionata di troppo, compresi un paio di glissando che Bruch si guardò bene dallo scrivere. Certo, lui ha una tecnica straordinaria e col violino può fare ciò che vuole, quindi tutto ok.

Per lui, tifo da discoteca alla fine, così prima fa il solito bis carnevalesco, con accompagnamento chitarristico degli archi, poi si congeda seriamente con Bach. Peccato che, con lui, si congedino anche decine e decine di spettatori (ahiahi!)

Quindi, dopo l’intervallo, è un Auditorium semideserto quello che accoglie il Concerto per orchestra di Béla Bartók, già altre volte eseguito da laVerdi (ad esempio un paio d’anni fa). Altro caso di ottima musica del ‘900 composta, con mezzi tradizionali, da quello che fu probabilmente il più ispirato autore del secolo scorso.

Pezzo che, programmaticamente, impegna gli strumentisti - timpani inclusi - a livello solistico, e i verdiani hanno quindi l’occasione per mostrare le loro eccellenti doti, sciorinando un’esecuzione (quasi) impeccabile, trascinati da un convincente Axelrod.

Perciò tanti e meritati applausi dal poco pubblico rimasto.

Un altro emergente direttore-bambino-prodigio (asiatico, si dà il caso) Darrel Ang ci delizierà (speriamo) la prossima settimana con un Mendelssohn inframmezzato da Testi.