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25 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°34


È John Axelrod ad occupare il podio nel concerto di questa settimana in Auditorium. Con un palinsesto che, contrariamente a certe più o meno radicate consuetudini, presenta due composizioni (relativamente) moderne che prendono in sandwich una dell’ottocento più romantico che si possa immaginare.

I due lavori che aprono e chiudono il programma hanno il titolo di Concerto per orchestra (il primo con la specifica di orchestra d’archi) e sono stati composti a breve distanza uno dall’altro (1948 e 1943). Gli autori sono due musicisti del vicino est (Polonia-Lituania e Ungheria) che hanno avuto profondi, anche se differenti, legami con la civiltà musicale mitteleuropea.

Si inizia con Grazyna Bacewicz, il cui Concerto per orchestra d’archi è la più famosa composizione del suo periodo classico (successivamente si sposterà su posizioni più moderniste, dodecafonia inclusa). È in tre movimenti ed è saldamente ancorato alla tonalità (per quanto sui righi non compaiano mai accidenti in chiave).

C’è chi tira in ballo Bach, chi Händel, per dare dei riferimenti formali-estetici di questa composizione. Che però già alla battuta 7 ti spara un bell’accordo di tritono (SOL#-RE) che avrebbe fatto fare il segno della croce ai due imparruccati barocchi (smile!)   
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Il primo movimento (Allegro) è in tonalità base di RE (con parecchie divagazioni…) e presenta in sostanza due temi: il primo, esposto in origine dagli archi bassi e sostenuto da un pedale ostinato di crome dei violini, è costituito da scalette discendenti di semiminime (che portano all’accordo col tritono) che poi verranno riprese dai violini e dalle viole:
Una variante del tema è proposta dai soli violino primo e violoncello, poi abbiamo il secondo tema, energico, in tempo di 2/4 con frequenti intrusioni di 3/4, 4/4 e 5/4, presentato da viole e archi bassi, con incisi di accordi dei violini, prima sincroni e poi sincopati:
Temi che vengono poi ripresi in una specie di sviluppo e ricapitolazione, quasi da forma-sonata, ed è il secondo a concludere su un RE pizzicato di tutti.   

L’Andante (3/4) riprende il ritmo oscillante del pedale di accompagnamento del primo tema dell’Allegro, sul quale il violoncello solo, all’inizio, poi due viole sole, cantano una delicata melodia:
Il tema è sviluppato assai gradevolmente – sembra quasi anticipare certe atmosfere di Ligeti, e nel contempo richiama vagamente l’impressionismo di Debussy - fino ad arrivare ad un climax (accelerando) da cui rifluisce lentamente, per poi chiudere (ancora verso il RE) su note in armonici.

Il terzo movimento è un Vivo (6/8) aperto, sempre sul RE, da martellanti semicrome che introducono il tema di questa specie di Scherzo:

Che è inframmezzato da due specie di Trii (in cui il tempo diminuisce e l’atmosfera si fa languida e rarefatta) prima che il tema principale si rifaccia largo per chiudere - con un anapesto - ancora sul RE in unisono di tutti gli strumenti.
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Questa composizione conferma come si potesse scrivere – ancora a metà del ‘900 - dell’ottima musica impiegando la vecchia cassetta degli attrezzi, senza necessariamente rincorrere avanguardie e sperimentalismi che hanno dato risultati (per me) francamente deludenti.

E gli archi de laVerdi ce l’hanno propinata con gran perizia ed efficacia, sotto l’esperta bacchetta di Axelrod, meritandosi convinti applausi dal non oceanico pubblico.

Ora si fa avanti il 32enne funambolo yankee-tedesco David Garrett, bardato come fosse appena sceso da una Harley-Davidson (gli mancava solo il foulard…) per proporci il Primo Concerto di Max Bruch. Per usare un linguaggio da pasticceria, trattasi di un babà al miele ripieno di mascarpone, ricoperto di panna vanigliata e sciroppo di fragole e guarnito con marron-glacé e cioccolato gianduia liquido. Insomma: al confronto la mappazza del cacao-meravigliaio ha il sapore di un grissino integrale (smile!)  

Per dire: per tutta la partitura è come se il compositore usasse solo i tasti bianchi del pianoforte, servendosi di quelli neri due o tre volte al massimo, e conoscesse solo accordi di tonica e dominante… roba da chiodi! Il culmine di questa melassa lo si raggiunge nell’Adagio, dove incontriamo quella che è la melodia più famosa – delle tante, una più dolciastra dell’altra - del concerto:
Insomma, siamo in un clima adatto ad un episodio di Harmony (smile!) Il vulcanico Garrett pare il primo a digerire con fatica questo pezzo, tanto che ci infila anche qualche gigionata di troppo, compresi un paio di glissando che Bruch si guardò bene dallo scrivere. Certo, lui ha una tecnica straordinaria e col violino può fare ciò che vuole, quindi tutto ok.

Per lui, tifo da discoteca alla fine, così prima fa il solito bis carnevalesco, con accompagnamento chitarristico degli archi, poi si congeda seriamente con Bach. Peccato che, con lui, si congedino anche decine e decine di spettatori (ahiahi!)

Quindi, dopo l’intervallo, è un Auditorium semideserto quello che accoglie il Concerto per orchestra di Béla Bartók, già altre volte eseguito da laVerdi (ad esempio un paio d’anni fa). Altro caso di ottima musica del ‘900 composta, con mezzi tradizionali, da quello che fu probabilmente il più ispirato autore del secolo scorso.

Pezzo che, programmaticamente, impegna gli strumentisti - timpani inclusi - a livello solistico, e i verdiani hanno quindi l’occasione per mostrare le loro eccellenti doti, sciorinando un’esecuzione (quasi) impeccabile, trascinati da un convincente Axelrod.

Perciò tanti e meritati applausi dal poco pubblico rimasto.

Un altro emergente direttore-bambino-prodigio (asiatico, si dà il caso) Darrel Ang ci delizierà (speriamo) la prossima settimana con un Mendelssohn inframmezzato da Testi.

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