È John Axelrod ad occupare il podio nel concerto di questa
settimana in Auditorium. Con un palinsesto che, contrariamente a certe più o
meno radicate consuetudini, presenta due composizioni (relativamente) moderne
che prendono in sandwich una
dell’ottocento più romantico che si possa immaginare.
I due
lavori che aprono e chiudono il programma hanno il titolo di Concerto per orchestra (il primo con la
specifica di orchestra d’archi) e
sono stati composti a breve distanza uno dall’altro (1948 e 1943). Gli autori
sono due musicisti del vicino est (Polonia-Lituania e Ungheria) che hanno avuto
profondi, anche se differenti, legami con la civiltà musicale mitteleuropea.
Si inizia
con Grazyna Bacewicz, il cui Concerto
per orchestra d’archi è la più famosa composizione del suo periodo classico (successivamente si sposterà su
posizioni più moderniste, dodecafonia inclusa). È in tre movimenti ed è
saldamente ancorato alla tonalità (per quanto sui righi non compaiano mai accidenti in chiave).
C’è chi
tira in ballo Bach, chi Händel, per dare dei riferimenti
formali-estetici di questa composizione. Che però già alla battuta 7 ti spara
un bell’accordo di tritono (SOL#-RE)
che avrebbe fatto fare il segno della croce ai due imparruccati barocchi (smile!)
___
Il primo movimento (Allegro)
è in tonalità base di RE (con parecchie divagazioni…) e presenta in sostanza
due temi: il primo, esposto in origine dagli archi bassi e sostenuto da un
pedale ostinato di crome dei violini, è costituito da scalette discendenti di
semiminime (che portano all’accordo col tritono) che poi verranno riprese dai
violini e dalle viole:
Una variante del tema è proposta dai soli violino primo e violoncello, poi abbiamo il secondo tema, energico, in tempo di 2/4 con frequenti
intrusioni di 3/4, 4/4 e 5/4, presentato da viole e archi bassi, con incisi di
accordi dei violini, prima sincroni e poi sincopati:
Temi che vengono poi ripresi in una specie di sviluppo e
ricapitolazione, quasi da forma-sonata,
ed è il secondo a concludere su un RE pizzicato
di tutti.
L’Andante (3/4)
riprende il ritmo oscillante del pedale di accompagnamento del primo tema dell’Allegro, sul quale il violoncello solo,
all’inizio, poi due viole sole, cantano una delicata melodia:
Il tema è sviluppato assai gradevolmente – sembra quasi
anticipare certe atmosfere di Ligeti,
e nel contempo richiama vagamente l’impressionismo di Debussy - fino ad arrivare ad un climax (accelerando) da
cui rifluisce lentamente, per poi chiudere (ancora verso il RE) su note in armonici.
Il terzo movimento è un Vivo (6/8) aperto, sempre sul RE, da martellanti semicrome che
introducono il tema di questa specie di Scherzo:
Che è inframmezzato da due specie di Trii (in cui il tempo diminuisce e l’atmosfera si fa languida e rarefatta) prima che il tema principale si rifaccia largo per chiudere - con un anapesto - ancora sul RE in unisono di tutti gli strumenti.
Che è inframmezzato da due specie di Trii (in cui il tempo diminuisce e l’atmosfera si fa languida e rarefatta) prima che il tema principale si rifaccia largo per chiudere - con un anapesto - ancora sul RE in unisono di tutti gli strumenti.
___
Questa
composizione conferma come si potesse scrivere – ancora a metà del ‘900
- dell’ottima musica impiegando la vecchia cassetta
degli attrezzi, senza necessariamente rincorrere avanguardie e
sperimentalismi che hanno dato risultati (per me) francamente deludenti.
E gli
archi de laVerdi ce l’hanno propinata
con gran perizia ed efficacia, sotto l’esperta bacchetta di Axelrod,
meritandosi convinti applausi dal non oceanico pubblico.
Ora si fa
avanti il 32enne funambolo yankee-tedesco David
Garrett, bardato come fosse appena sceso da una Harley-Davidson (gli mancava solo il foulard…) per proporci il Primo
Concerto di Max Bruch. Per
usare un linguaggio da pasticceria, trattasi di un babà al miele ripieno di mascarpone, ricoperto di panna vanigliata
e sciroppo di fragole e guarnito con marron-glacé e cioccolato gianduia
liquido. Insomma: al confronto la mappazza del cacao-meravigliaio ha il sapore di un grissino integrale (smile!)
Per dire:
per tutta la partitura è come se il compositore usasse solo i tasti bianchi del
pianoforte, servendosi di quelli neri due o tre volte al massimo, e conoscesse
solo accordi di tonica e dominante… roba da chiodi! Il culmine di questa
melassa lo si raggiunge nell’Adagio,
dove incontriamo quella che è la melodia più famosa – delle tante, una più
dolciastra dell’altra - del concerto:
Insomma, siamo
in un clima adatto ad un episodio di Harmony
(smile!) Il vulcanico Garrett pare il
primo a digerire con fatica questo pezzo, tanto che ci infila anche qualche gigionata
di troppo, compresi un paio di glissando
che Bruch si guardò bene dallo scrivere. Certo, lui ha una tecnica
straordinaria e col violino può fare ciò che vuole, quindi tutto ok.
Per lui, tifo
da discoteca alla fine, così prima fa il solito bis carnevalesco, con accompagnamento chitarristico degli archi, poi si congeda seriamente con Bach. Peccato
che, con lui, si congedino anche decine e decine di spettatori (ahiahi!)
Quindi,
dopo l’intervallo, è un Auditorium semideserto quello che accoglie il Concerto
per orchestra di Béla Bartók,
già altre volte eseguito da laVerdi
(ad esempio un
paio d’anni fa). Altro caso di ottima musica del ‘900 composta, con
mezzi tradizionali, da quello che fu probabilmente il più ispirato autore del
secolo scorso.
Pezzo che,
programmaticamente, impegna gli strumentisti - timpani inclusi - a livello solistico, e i verdiani hanno quindi l’occasione per mostrare le loro eccellenti
doti, sciorinando un’esecuzione (quasi) impeccabile, trascinati da un
convincente Axelrod.
Perciò
tanti e meritati applausi dal poco pubblico rimasto.
Un altro
emergente direttore-bambino-prodigio
(asiatico, si dà il caso) Darrel Ang
ci delizierà (speriamo) la prossima settimana con un Mendelssohn
inframmezzato da Testi.
Nessun commento:
Posta un commento