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25 marzo, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 22

Torna sul podio dell’Auditorium Jader Bignamini, per dirigere un concerto dall’impaginazione piuttosto insolita, che aveva come protagonista il violino di Domenico Nordio, per aprire e chiudere la serata. Poi all’ultimo momento l’impaginazione è tornata... classica, con il Concerto solistico in seconda posizione e la Sinfonia a chiudere: ne ha risentito un po’ l’equilibrio dei tempi delle due parti: 75’ la prima e 30’ la seconda...ma va bene anche così.
Il primo brano è una novità assoluta, commissionata dalla fondazione a Silvia Colasanti: Esercizi per non dire addio, per violino e orchestra. Qui c’è una specie di rimpatriata fra i tre protagonisti: Bignamini è Direttore-in-Residenza de laVerdi; Colasanti è Compositore-in-Residenza e Nordio è stato, dal 2017 al 2020 - prima che il Covid gli tirasse un brutto scherzo - Artista-in-Residenza.

Il contenuto del brano (poco più di un quarto d’ora) è descritto dalla stessa compositrice come uno sguardo al (suo) passato musicale a cui guardare senza rimpianti ma con piena consapevolezza:

...è un pezzo attorno al tema del distacco e della perdita, nel ricordo vivo di quello che si è amato e che si continua ad amare in modo sempre nuovo, un racconto in suoni dei tentativi che un’esistenza compie, lungo un cammino fatto di richiami interni e di memoria, per vivere il presente, guardando al futuro ma con la consapevolezza piena del nostro legame con il passato.

Questo brano della Colasanti conferma una tendenza chiaramente in atto nella musica contemporanea: back-to-basics! Non ho ovviamente sottomano la partitura, ma un orecchio appena appena allenato distingue chiaramente all’attacco un’atmosfera di MI minore! E tutto il brano si muove nel più classico diatonismo, compresi stilemi di stampo mahleriano (maggiore>minore). L’atmosfera, sempre composta e con vaghe increspature, pare virare al SIb. Il violino introduce qualche escursione espressionista, ma alla fine è ancora il SIb a farla da padrone, esalato dal solista su un sommesso tocco di (?) grancassa.

Insomma, un brano da riascoltare (speriamo venga presto messo in rete o su altri supporti) poichè merita davvero gli applausi che il pubblico dell’Auditorium ha riservato a compositrice e interpreti. 
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Torna subito il violino di Nordio - che si tiene davanti lo spartito elettronico - con Beethoven e il celeberrimo Concerto in Re maggiore op. 61Lui e Bignamini danno vita ad un’interpretazione coinvolgente, l’uno ad impreziosire la... razionalità beethoveniana con buone dosi di rubato e l’altro a supportarlo con sapiente dosaggio delle dinamiche. Successo calorosissimo premiato con due encore, scelti (casualmente?) quasi a rappresentare in musica la complessità della situazione politica che si vive in Europa orientale: il primo di Mieczyslaw Weinberg, compositore novecentesco polacco emigrato in Russia e amico di Shostakovich; il secondo dell’ukraino del Donbass Sergei Prokofiev!   
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Si chiude quindi con una Sinfonia (ma... piccola): la Nona di Dmitri Shostakovich. Così come la Quinta, udita qui non più tardi di una settimana fa, si potrebbe definire una Sinfonia (volutamente) insincera, anche questa è interpretabile come una sotterranea espressione di pessimismo, in aperto contrasto con il trionfalismo delle istituzioni sovietiche a fronte della conclusione vittoriosa della WWII. Interessante al proposito anche questa recente analisi dell’opera che sottolinea la presenza in essa di diffusi riferimenti a stilemi musicali ebraici, che Shostakovich avrebbe impiegato per esprimere le sue preoccupazioni sulla brutta piega che stava prendendo la situazione in URSS a dispetto dei trionfalismi di regime, legati all’eroica e vittoriosa resistenza al nazismo.    

Qui invece è il grande Lenny ad introdurcela con la sua proverbiale carica emotiva, dopodichè lo possiamo vedere all’opera, con i Wiener. Per alcune mie personali riflessioni rimando ad un mio scritto in proposito.

Davvero esaltante l’esecuzione di Bignamini e dei ragazzi, salutata da ovazioni per tutti. Mi limito a citare, come alfiere, Andrea Magnani e il suo fagotto magico.

Serata da incorniciare... ma dopo pochi minuti, ahinoi, la disfatta di Palermo!

09 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°16


Carlo Boccadoro (chiamato a sostituire l’indisposto Direttore musicale) Fabio Vacchi e Domenico Nordio (poi c’è anche un tale Mendelssohn...) sono i protagonisti del concerto di questa settimana, che incastona un’opera modernissima fra due che ormai si avvicinano ai due secoli di vita, ma benissimo portati!

Si apre quindi con la Ouverture zu den Hebriden (Fingals-Höhle) composta dal giovane Mendelssohn dopo una gita alle Ebridi, in particolare a Staffa, dove si trova la celebre grotta marina che dal ‘700 ha preso il nome dall’eroe scozzese Finn mac Cool (per gli amici… Fingal):


L’Ouverture, canonicamente in forma-sonata, è tutta pervasa da atmosfere ossianiche, che si ritroveranno anche nel movimento iniziale e in quello finale dell’ultimo brano in programma, la sinfonia scozzese, concepita guarda caso nello stesso periodo (1829-30) anche se completata anni e anni più tardi.

Ascoltandola si resta sempre ammirati dalla cristallina purezza di forma e contenuti che traspare da questo come da altri lavori giovanili di Mendelssohn (penso all’Ouverture del Sogno) e anche l’esecuzione di ieri non ha mancato di far emergere quelle qualità.
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Ecco poi due artisti-in-residence presso laVerdi, Fabio Vacchi e Domenico Nordio, interpretare Natura naturans, il Concerto per violino e orchestra che Vacchi compose nel 2016 e che ha recentemente rivisitato, dandogli anche il titolo che richiama sentimenti eco-ambientalisti. La prima versione ricevette il battesimo a Bari con D’Orazio al violino e un’altra vecchia conoscenza dell’Auditorium, John Axelrod sul podio (qui la registrazione dei tre movimenti del concerto: 1-2 e 3). 

Questa seconda versione vide la luce nel 2018, eseguita  a Budapest (1/10) e NY (5/11); come la prima, e come il quasi contemporaneo Concerto per violoncello, è dedicata alla figura di Livia Pomodoro, eminente donna di legge ma soprattutto paladina della difesa dei diritti, oltre che attiva anche nel mondo dell’arte e della cultura. Una dedica che, almeno nello spirito, ne richiama un’altra: quella alla memoria di un angelo, che Alban Berg appose al suo Violinkonzert, opera che Vacchi dichiara apertamente essere stato il suo modello di riferimento.  

Ecco come il compositore presenta il suo lavoro, ma in realtà anche la sua... visione del mondo e dell’arte:

Il mio primo concerto per violino è nato senza titolo. Ho lavorato a questa seconda, riveduta versione mentre ero immerso nella natura. Le aggiunte, i tagli e le modifiche derivano da un impulso che mi spingeva ad aderire anche dal punto di vista creativo a scelte ambientaliste, animaliste e, proprio in quanto tali, in difesa dell’uomo. In termini estetici, ad avvicinarmi sempre più a una scrittura che non dimenticasse mai, per ragioni puramente strutturali e soggettive, il rispetto della nostra fisiologia, della nostra percezione, della nostra natura.

La musica non è per me frutto di convenzioni astratte, la cui natura può essere definita solo in base a considerazioni arbitrarie, concettuali, ideologiche, filosofiche. La musica deve riflettere anche un’essenza umana universale innata, fisiologica, antropologica e in quanto tale collettiva. Ci sono alcuni processi organici, psicologici e simbolici che sono sostanziali nella composizione, anche contemporanea, dai quali non si può prescindere nel cercare una sintesi tra patrimonio popolare e storico da un lato e innovazione, sperimentazione, ricerca dall’altro.

Gli studi etnomusicologici e l’amore per la musica folcloristica innervano, insieme alle radici nell’avanguardia strutturalista e all’assimilazione della grande lezione classica e romantica, Natura naturans. Le melodie, i ritmi, le armonie e le atmosfere di ascendenza popolare mi hanno insegnato la libertà con cui utilizzare materiali consonanti o atonali, gesti tradizionali ed esplorativi. Oltre all’esigenza di rigore formale, la mia musica ricerca infatti una gestualità diretta, naturale ed emotiva, che deve penetrare al di là della superficie per arrivare alla più oscura logica sottostante. Le neuroscienze ci dicono che esistono limiti naturali entro i quali la comunicazione, anche musicale, può raggiungere le menti e i corpi degli altri: devono essere forzati dalla fantasia e dall’urgenza di scoprire inediti orizzonti, ma rispettati come tali.

Nell’arte e nella musica, l’imprescindibile necessità di inventare e di rivoluzionare deve quindi rimanere entro i limiti naturali della dimensione umana che è definita anche in termini biologici, fisici, chimici, neurologici. La bellezza e l’arte hanno il dovere di opporsi all’avanzata del consumismo e del semplicismo. Bisogna contrastare l’impoverimento, la banalizzazione del linguaggio. La musica è anche una via per riavvicinarci e aprirci ad altre culture, ad altri punti di vista, ad altre tradizioni. Per non cadere nel fanatismo, nell’oscurantismo. Difendere la natura significa difendere l’uomo e la vita.

I tre movimenti, costruiti sugli stilemi del concerto solista del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, sono un omaggio all’impareggiabile Concerto per violino di Berg, che è per me il più grande punto di riferimento del ventesimo secolo. La struttura estremamente unitaria poggia sul legame intrinseco tra il materiale armonico e melodico del solista e quello dell’orchestra.

Il primo movimento, l’Allegro moderato, sebbene estremamente virtuosistico, ha accenti lirici che emergono quasi contrapponendosi all’andamento rapido, per rallentarlo, per interrogarlo, per svelarne l’espressività profonda in un dialogo onirico e ipnotico tra «l’interno e l’esterno», qui rappresentati dal violino e dall’orchestra.

Il cantabile Andantino è desiderio e nostalgia di melodia, della sua naturale forza espressiva e narrativa.

Nel terzo movimento, Presto brillante, la velocità è metafora di una pulsione primaria al superamento delle barriere, senza però mai violare quei limiti naturali oltre i quali si nega la nostra stessa umanità: la violenza verso gli altri, verso i deboli, verso i diversi, verso il pianeta, verso gli animali. Per quanto riguarda l’arte e la musica, la violenza contro la memoria, il pensiero, la natura cui apparteniamo.

Il Concerto per violino nella sua prima versione, nata per il Petruzzelli di Bari nel 2016, e nella sua seconda versione, Natura naturans, che ha avuto la prima europea all’Opera di Budapest il 12 ottobre 2018, la prima americana alla Carnegie Hall di New York il 5 novembre e questa prima italiana, ora, alla Verdi di Milano, è dedicato a Livia Pomodoro. Anche il concerto per violoncello, che ha avuto la prima al Petruzzelli di Bari il 30 ottobre 2018, fa parte di questo dittico dedicato a una grande donna d’oggi che ha dato tutta se stessa per i valori in cui credeva, e in cui io credo: la giustizia, la tutela dei minori, il teatro e l’arte.

Boccadoro, che è soprattutto compositore, rende un bel servizio al collega Vacchi, guidando da par suo l’orchestra ad integrare la prestazione di Nordio, che ci mette tutta le sensibilità e il pathos di cui è capace per valorizzare al massimo l’opera, accolta da vibranti apprezzamenti del folto pubblico dell’Auditorium. 

Così alla fine grande trionfo per Vacchi, salito sul palco visibilmente emozionato, poi ripetutamente chiamato alla ribalta, con interprete e direttore; lui più volte manda baci di ringraziamento all’orchestra, la cui prestazione evidentemente deve averlo soddisfatto appieno.
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Conclusione ancora ossianica con la Scozzese, di certo la migliore delle quattro sinfonie di Mendelssohn (non per nulla è anche l’ultima ad essere stata completata, a dispetto della numerazione). Nata - proprio in compagnia dell’Ouverture che ha aperto il concerto - da sensazioni ed emozioni vissute dall’Autore durante il viaggio (professional-turistico) del 1829 in terra albionica. E perciò la si può anche descrivere come fosse un poema sinfonico...

Nel primo movimento, aperto à-la-Haydn da un Andante con moto di ben 63 battute (la cui melodia verrà impiegata nella Walküre da un tale che di Mendelssohn - in quanto ebreo - scriverà peste e corna) che poi fa posto ad un Allegro un poco agitato, emergono proprio scenari da isole sferzate dal vento, di cui gli archi evocano ripetutamente le folate.

Nel Vivace non troppo (lo scherzo) la melodia del tema principale assume forme quasi telluriche, quando sono gli archi bassi e ottoni ad appropriarsene.

Una vera e propria oasi di pace sopraggiunge con l’Adagio, uno scorcio di mirabile lirismo, un intermezzo davvero pastorale, rotto soltanto da un paio di energici richiami degli ottoni.

Il conclusivo Allegro vivacissimo ci riporta in mezzo a bufere e tormente che spazzano e bruciano le coste scozzesi, ma alla fine tutto si placa, Ossian si dilegua e ci appare, quasi per incanto... Buckingham Palace, con Sua Maestà la Regina Vittoria (dedicataria dell’opera, non dimentichiamolo) circondata dalla sua corte, in un Allegro maestoso assai che - impiegando poche note dell’introduzione al primo movimento - porta la sinfonia all’enfatica e decisamente regale conclusione. 
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Grande prova di sicurezza e compattezza dell’orchestra, che Boccadoro deve più che altro... tenere in strada: ecco, per lui dev’essere stato come guidare una Ferrari, dove si deve evitare il pericolo di farla imbizzarrire. Gloria e applausi per tutti, da un pubblico evidentemente appagato.

15 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°31

                          
Il concerto che chiude la stagione principale de laVerdi è interamente dedicato a Robert Schumann, del quale ascoltiamo un brano strumentale, un concerto solistico e una sinfonia. Protagonista sul podio e nel ruolo di solista il residente Domenico Nordio. Il quale rinuncia alla bacchetta ma (certamente per la prima volta in Auditorium, ma forse anche in assoluto) invece delle consunte partiture cartacee si serve di un tablet che sfoglia con il polpastrello di un dito della mano (quando non deve suonare) oppure con un bluetooth-remote-control (in sostanza, un mouse azionato dai piedi) quando le mani sono impegnate ad imbracciare violino e archetto. Evviva la tecnologia!

Programma che ricorda da vicino quello diretto ormai più di 7 anni fa dal compianto sir Neville Marriner, anch’esso completamente dedicato a Schumann, ma con il più famoso concerto per pianoforte al posto di quello per violino. Questa volta il percorso tonale dei tre brani retrocede curiosamente dal MI al RE per chiudere sul DO.

Si apre con Ouverture, Scherzo e Finale, una specie di Sinfonia dei primordi (à la Schubert, in 3 movimenti) che tuttavia non manca di ispirazione moderna e di una solida struttura formale. Nell’Ouverture Nordio fa emergere i contrasti fra l’introduzione lenta e i due temi principali; nello Scherzo tiene un tempo non troppo agitato e poi lascia correre il Finale (senza risparmiarci la ripetizione dell’esposizione dei due temi) fino alla stentorea chiusura in MI maggiore. Davvero un’esecuzione pregevole che mette in mostra i pregi di questa partitura (per Schumann sperimentale) ancor oggi poco valorizzata.
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Ecco quindi il Concerto per violino, opera postuma, e di fatto un concerto maledetto, anche a causa dell’eccesso di invenzioni romanzate che si sono diffuse relativamente alla sua composizione e poi alla sua riscoperta. Creazione che avvenne quando Schumann era in piena attività professionale e quando ancora la malattia mentale che lo avrebbe portato alla fine non era entrata nella fase critica, pur essendo latente ormai da almeno 10 anni. Ma la leggenda metropolitana si è inventata di tutto, compresa l’individuazione della presunta causa della pazzia del compositore e così qualcuno si spinge addirittura a scrivere di suono sifilitico a proposito della musica del concerto. Che lo stesso dedicatario Joachim si rifiutò di eseguire in pubblico ed anzi del quale tenne nascosta la partitura fino alla sua morte. (Del resto non si sente spesso dire che anche gli ultimi quartetti di Beethoven sono opere di un pazzo?)

Poi nel 1933 Schumann sarebbe comparso nel bel mezzo di una seduta spiritica (!) a reclamare la pubblica esecuzione del suo concerto, che nel 1937 fu aspramente contesa fra USA e Germania (no, non credete a chi vi racconta che questa fu la causa scatenante della WWII...) Sta di fatto che i nazisti ne fecero una questione di Stato e imposero che la prima avvenisse in Germania, così fu Georg Kulenkampff a suonare e poi incidere per primo il concerto, seguito a distanza da Yehudi Menhuin.

Nordio è uno dei pochissimi violinisti italiani a cimentarsi con quest’opera derelitta: prima di lui Uto Ughi e prima ancora (ne fui testimone ocu/aurico-lare) la leggendaria Pina Carmirelli. Un collega di Nordio (ha 10 anni più di lui) che come lui alterna e/o coniuga il podio allo strumento solista, Thomas Zehetmair, circa 30 anni fa ha operato una revisione del Concerto che ha eseguito anche di recente con la radio finlandese. In Auditorium il pezzo è alla sua quarta presenza (la precedente con un altro versatile musicista, Kolja Blacher) il che testimonia dell’attenzione che laVerdi gli dedica da sempre.

Devo dire che Nordio, rispettando in pieno le indicazioni agogiche in partitura (che sono quelle che rendono il concerto indigeribile, secondo molti) ha invece pienamente valorizzato (ovviamente è una mia opinione) i tesori nascosti di questo brano: per dire, la sostenutezza del tempo della polacca del terzo movimento, notoriamente irrisa dai puristi con la puzza al naso, che ne reclamano la trasformazione in carica dei bersaglieri, ieri sera - grazie all’equilibrio mirabile creatosi fra solista e orchestra - ha mostrato tutta la sua accativante bellezza, che il pubblico non oceanico dell’Auditorium ha accolto con grande calore.
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Si chiude con la Seconda Sinfonia, e qui entriamo in clima di festa di fine anno scolastico. Lo dico in senso assolutamente buono, per carità, e nulla di scandaloso è accaduto. Parlo però di certi effetti plateali (strappi all’agogica e alla dinamica) che servono ad eccitare gli animi e a suscitare entusiasmi. Encomiabile ovviamente la prestazione dei ragazzi che (dopo le prossime due repliche del concerto e la presenza al Castello sforzesco in luglio) ritroveremo insieme alla Scala il prossimo 16 settembre, per la partenza della stagione 18-19.

16 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°9


Sul podio de laVerdi torna il violista-direttore Maxim Rysanov, per dirigervi un concerto (quasi) tutto mozartiano.

L’eccezione è il pezzo che apre la serata, Fratres del compositore estone Arvo Pärt, brano di cui viene eseguita qui una delle innumerevoli versioni succedutesi negli anni (a partire dal 1977): quella per archi e percussioni.

Ad un ascolto passivo si rimane piacevolmente coinvolti dalla nobile spiritualità del brano, la cui agogica resta immutata per tutto il tempo (circa o poco più di 10') e dove la dinamica ha un picco poco dopo la metà del percorso. Sempre al primo ascolto si noteranno il continuo bordone di violoncelli e contrabbassi (una quinta vuota grave LA-MI) e i reiterati interventi delle percussioni (clave / tomtom o grancassa coperta) sempre sul primo, terzo e quarto tempo di due battute di 6/4 ad anticipare la melodia degli archi alti (e poi dei celli); cosa che si ripete precisamente per nove volte, semplicemente mutando le altezze dei suoni (la prima nota parte da MI e poi, nelle successive riprese, scende di terza minore o maggiore, quindi: MI-DO#-LA-FA-RE-SIb-SOL-MI-DO#).

Quanto alla melodia (escludendo quindi le due battute affidate alle sole percussioni) essa si snoda su 6 battute suddivise in due blocchi di 3: nel primo blocco viene esposto il tema, a sua volta creato per arricchimento successivo (4 note nella prima battuta in 7/4, 2 note in più nella seconda in 9/4 e altre 2 note in più nella terza in 11/4); il secondo blocco di 3 battute ripresenta il tema in forma cancrizzante, dove cioè in ogni battuta le note si succedono in sequenza retrograda rispetto all’originale:

Il tutto ci dà l’impressione di un imperturbabile fluire sonoro che trasmette oniriche sensazioni di pace.

E invece, guarda un po’, dietro tutto questo c’è nientemeno che una costruzione scientifica, un’invenzione di Pärt, basata su ciò che lui ha battezzato tintinnabuli. In parole povere, la melodia principale viene accompagnata, nota per nota, da una nota (tintinnabuli, appunto) di una triade caratteristica del brano (nel nostro caso: LA minore, LA-DO-MI). Le note tintinnabuli stanno in altezza sopra o sotto la nota della melodia e possono essere solo due note della triade: quella più vicina o la seconda più vicina a quella della melodia, evitando però consonanze e aspre dissonanze. Ecco qui un esempio preso dalla partitura (battuta 5):

In questo caso (e per l’intero brano) la melodia è suonata da due strumenti a distanza di una decima (MI-DO# sulla prima nota della battuta) e i tintinnabuli sono posti sempre ad altezza intermedia fra quelle delle due note di melodia, secondo la regola esposta. Quindi sulla prima nota (MI-DO#) ecco comparire un LA, che è la nota della triade di LA minore più vicina alle note di melodia DO# e MI (qui il LA è scartato perchè consonante e il DO è scartato per non creare dissonanze con il DO#). Sulla seconda nota (RE-SIb) abbiamo il MI, che permane anche sulla nota successiva (DO#-LA). Segue il DO (su SIb-SOL) e così via.

Proviamo a seguire l’esecuzione di questa versione 1983-1991, diretta da un compatriota dell’Autore, il più giovine rampollo della gloriosa famiglia Järvi:

0”  primo intervento percussioni
13”  prima esposizione tema (parte 1) dal MI
46”  prima esposizione tema (parte 2)
1’16”  secondo intervento percussioni + tema dal DO#
2’33”  terzo intervento percussioni + tema dal LA
3’49”  quarto intervento percussioni + tema dal FA
5’06”  quinto intervento percussioni + tema dal RE
6’19”  sesto intervento percussioni + tema dal SIb
7’35”  settimo intervento percussioni + tema dal SOL
8’53”  ottavo intervento percussioni + tema dal MI
10’21”  nono intervento percussioni + tema dal DO#
11’59”  intervento percussioni di chiusura

Insomma, Pärt ha inventato un metodo compositivo che tende a garantire sempre una stabilità (ed una gradevolezza) armonica; al contrario, per dire, del metodo seriale, che tale stabilità e gradevolezza esclude di fatto.

Per le nostre orecchie (beh no, parlo per me) molto meglio questo Pärt... E ieri sera Rysanov e l’Orchestra ci hanno offerto un’esecuzione invero coinvolgente, dosando perfettamente l’arco delle dinamiche, dal pianissimo iniziale, al limite dell’udibilità, al forte dell’apice sulla sesta ricorrenza, al nuovo pianissimo che chiude il brano.
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Poi, tutto Mozart, come detto. Si parte con la celeberrima Concertante K364 per violino e viola, in cui Rysanov (rientrato in... maniche di camicia) è affiancato dal violino dell’Artista residente Domenico Nordio. Una coppia strepitosa, che ci delizia con quel continuo botta-e-risposta che caratterizza i tre movimenti del brano. Un’Invenzione di Bach corona la loro prestazione, accolta trionfalmente. 
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Dopo la pausa, ancora Nordio nel Quinto Concerto per violino, il più noto ed eseguito dei 5 composti da Mozart, chiamato turco per quel passaggio - appunto, da turcheria – incastrato nel Menuetto finale. Ma anche il primo movimento contiene una... stranezza, con una sezione in Adagio calata inopinatamente nel bel mezzo dell’Allegro aperto.

Nordio ne dà una lettura esemplare, ben supportato da Rysanov e dall’Orchestra, meritandosi a sua volta ovazioni ripagate ancora con Bach.
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Si chiude in bellezza con la K543, la prima del trittico sinfonico con cui Mozart diede l’addio a questo mondo... Rysanov – sempre senza bacchetta – l’affronta col dovuto cipiglio, non risparmia nessun da-capo, nemmeno nel Finale, e i ragazzi (guidati ieri da Dellingshausen) rispondono da par loro. 

Insomma, una serata da incorniciare per chiudere il 2017. A cavallo di Capodanno tornerà l’immancabile Nona.     

12 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°10


Riecco Tito Ceccherini (stavolta da titolare) nel decimo concerto della stagione 2016, tutto dedicato all’Italia (emigrati inclusi...) L’impaginazione prevede di incastonare due concerti per violino (Busoni e Malipiero-1, protagonista Domenico Nordio) fra due - i più eseguiti - dei tre poemi sinfonici romani di Respighi. Quanto alle date, si esplorano 35 anni, che separano il Busoni tardo-romantico di fine ‘800 - passando per il Respighi a cavallo della Grande Guerra (1916-1924) - dal Malipiero in pieno fascismo (1932).     

Si parte con Fontane di Roma, in cui subito appare nei secondi violini (ad introdurre il tema debussyano negli oboi) una vaga reminiscenza mahleriana: sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquìo, che rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia. Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina (qui fa capolino Sheherazade del grande Rimski, maestro di Respighi) e poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi della campana. 

Come sempre impeccabile l’orchestra, dalla quale Ceccherini sa cavar fuori le appropriate sonorità, in particolare dai timbri di legni, arpa e tastiere (celesta, organo, pianoforte) per questo brano di grande raffinatezza impressionista.
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La parte centrale del concerto è dedicata a due opere per violino solista. Ceccherini e Nordio rifanno coppia in Auditorium - lo sono spesso in Svizzera - dopo nemmeno un anno (lo scorso maggio si erano esibiti in Bartók). Nordio prosegue da parte sua l’esplorazione del repertorio italiano, dopo che nel 2012 ci aveva proposto Castelnuovo-Tedesco.

Oggi: Busoni e Malipiero, due compositori che hanno molti aspetti in comune, ma altrettanti, se non di più, che li differenziano radicalmente. Il mai abbastanza compianto Sergio Sablich ci ha lasciato al proposito un acutissimo scritto, che mette in risalto la complessità del rapporto fra i due musicisti.  

Il Concerto di Busoni fu presentato l’8 ottobre 1897 alla Singakademie Berlin, con l’Autore sul podio alla guida dei Berliner Philharmoniker, solista Henri Petri, dedicatario dell’opera. Il concerto, che fu bollato da un critico berlinese come abbastanza scialbo e scarso di contenuti (!) da allora ha invece avuto un discreto successo presso i principali interpreti: qui una storica interpretazione (1936) del grande Adolf Busch con Bruno Walter, al Concertgebouw.

Busoni, trentenne alla data della composizione, si muove ancora nell’800, come mostrano reminiscenze di Beethoven, Brahms e persino di Bruch, ma al contempo cerca un po’ velleitariamente di innovare: la struttura è più vicina a quella di una fantasia dove i motivi si susseguono ma senza svilupparsi, nè interagire (quindi: niente forma-sonata); le sezioni (movimenti?) sono tre, caratterizzate da tempi diversi, ma tra loro concatenate (tipo Mendelssohn e Bruch). In definitiva l’impressione che se ne trae è di qualcosa di indecifrabile: al confronto il concerto di Sibelius, sfornato quasi 8 anni dopo a ‘900 ormai inoltrato, avrà un successo largamente superiore, proprio per la sua caratteristica di rifarsi esplicitamente (e assai prudentemente) alla tradizione ottocentesca, senza pretese di innovare, non dico stravolgere, alcunchè.
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Proviamo a decifrare quest’opera piuttosto fuori dagli schemi, seguendone la citata interpretazione di Busch-Walter.

L’inizio dell’Allegro moderato è di pretta marca beethoveniana: su un RE all’unisono di tutti gli archi, i legni e i corni presentano subito (4”) un primo tema cantabile (tema-a, che tornerà anche nelle altre due sezioni del concerto, conferendogli quindi una caratteristica di ciclicità) che si chiude con tre quarte e una quinta discendenti dei clarinetti e poi si spegne rapidamente sulla sottodominante per far posto all’entrata del solista (27”) che per ora si limita a sciorinare virtuosismi, con ondeggiamenti di crome e poi semicrome, accompagnato quasi soltanto da rulli di timpano, finchè il fagotto prima (56”) quindi i clarinetti (1’04”) ancora fagotto e corni (1’10”) ne contrappuntano le evoluzioni con un motivo (tema-b) costituito da una scala ascendente che copre un’intera ottava (rispettivamente di DO, FA# e LA, sfociando un semitono più in alto) e che tornerà nel seguito.

Finalmente il solista, dopo una sospensione di sapore brahmsiano in corona puntata sulla sensibile DO#, espone a sua volta (1’26”) il tema-a, successivamente reiterato (1’51”) con sviluppo di virtuosismi e sfociante (2’02”) in una plateale perorazione cadenzante dell’orchestra. Subito il solista (2’05”) si imbarca in virtuosismi sopra il tema-b esposto (sul RE) da fagotto e viole, poi ancora (sul LA) da fagotti e clarinetti, fino ad arrivare ad una nuova feroce esternazione dell’orchestra (2’25”) che richiama le quarte discendenti del tema-a.

Il violino (2’31”, tranquillo) riprende i suoi virtuosismi accompagnato con discrezione da oboi e poi corni (che ripetono la cadenza di poco prima) e clarinetti e corni, per giungere (2’59”, più moderato) ad un passaggio dei fiati che paiono anticipare un nuovo tema, per ora solo accennato (ricorda qui l’Italiana di Mendelssohn) e subito interrotto (3’05”, allegro) dal solista, sempre più ostinato e scalpitante finchè non si acqueta (3’30”, quasi adagio) per esporre in ottave in corda doppia (sul SOL#) il tema-b e quindi ancora adagiarsi su trilli di DO#.

Ora (4’03”, Tempo I) i fiati espongono compiutamente il nuovo tema (tema-c) che il solista ancora accompagna con i suoi svolazzi di semicrome, fino ad arrivare (4’23”) ad un fortissimo a piena orchestra, sul quale corni e tromboni reiterano pomposamente (sul LA) il tema-b, chiudendolo (4’27”) con uno schianto di settima diminuita dal quale il solista si lancia in un’ennesima volata di semicrome, prima staccate, poi in corda doppia. Su esse intervengono (4’34”) i corni e gli archi bassi con l’incipit del tema-c, quindi tutti si incaponiscono in una pesante cadenza, che sfocia (4’57”, Gemessen, mit Humor) invece che nel canonico sviluppo e poi ripresa, in una sorprendente e bizzarra sezione che si potrebbe plausibilmente interpretare come la lunga coda del primo movimento del concerto.

Il solista espone un nuovo, spigliato motivo in LA maggiore e poi dialoga con l’orchestra su un ostinato ritmo marziale degli archi in pizzicato, poi (5’25”, Scherzoso) tutti si sbizzarriscono in trilli e note staccate, quindi è ancora il solista a trascinare l’orchestra animando sempre più, finchè su un suo MI acuto in trillo le trombe (6’04”) espongono per l’ennesima volta e con grande luminosità (sul MI) il tema–b. Qui si innesta la perorazione finale (sulla dominante LA maggiore) della sola orchestra, enfatica e magniloquente, che si spegne però (6’27”) su una cadenza sommessa in continuo ritardando, in cui si riaffacciano le quarte e quinta discendenti del tema-a, e che porta direttamente ad un tempo quasi andante sul quale di fatto ha inizio la sezione centrale (o movimento lento, se così si preferisce) del concerto.

I contrabbassi (6’59”) la aprono, subito dopo affiancati dai celli, in un cupo DO minore, sul quale si ode (7’14”) un richiamo della tromba (SOL-DO); poi, dopo un altro richiamo di corno e tromboni, ecco l’oboe (7’42”) che canta la sua melopea, sempre in DO minore, insieme ai clarinetti. Sembra affacciarsi (8’14”) il DO maggiore nei corni, ma il solista (8’17”) entra per esporre il suo languido motivo in FA maggiore, che però (8’43”) vira a DO maggiore e poco dopo, con un’ulteriore modulazione a SOL maggiore (8’52”) ci porta ad una chiara reminiscenza di Bruch (tema in MIb maggiore – poi DO maggiore - dell’Adagio del celebre concerto op.26). La melodia del violino si estende ancora largamente con successive increspature e modula più volte, fino a morire sul RE maggiore (10’16”).

Qui il tempo accelera a Poco agitato e sul tremolo di RE di primi violini e viole il solista in corda doppia (10’20”) ricorda ancora Bruch (in SOL maggiore). Sono poi gli archi bassi a rimuginare un lugubre motivo sul quale il violino innesta il suo canto appassionato, che sfocia (11’11”, Tempo I) in un prolungato dialogo con i fiati. Il solista poi (11’56”) espone una nuova, lunga melodia in corda doppia in MIb, accompagnato dapprima da fagotti e corni, poi (12’49”) dai clarinetti. Dopo una modulazione a DO maggiore, ecco (13’57”, Più lento) entrare corni e tromboni con un inciso corale, basato sulle prima note del tema-a, con cui il concerto si era aperto, tema il cui incipit infatti ritorna (14’29”) nel violino.

Con il sottofondo dei corni il solista si avvia a concludere, in territorio... beethoveniano: dapprima (14’59”) con una ondeggiante cadenza e poi (15’15”) con una reminiscenza del Larghetto dell’op.61. I tromboni accompagnano con la triade di DO maggiore e un sommesso rullo di timpano la corona puntata del MI sovracuto del violino.

Senza soluzione di continuità attacca (15’48”) il conclusivo Allegro impetuoso, in atmosfera di SI minore che sfocia poi nel RE maggiore d’impianto. Il solista si esibisce, interrotto da brevi incisi di fagotti e archi, in velocissime scale discendenti in semicroma, seguite – contrappuntato dai fiati -  da una scalata di trilli di ben 9 terze maggiori (3 ottave!) dal LA# sotto il rigo al LA# sovracuto, che sfocia poi (16’04”) nel SI, da dove il solista si imbarca in un’agitatissima specie di moto perpetuo (tema-d) che si muove dal SI minore per sfociare (16’51”) sul un fortissimo RE maggiore di tutta l’orchestra, che adesso si esibisce da sola in una cadenza che si chiude (16’59”) con il ritorno del solista.

Il quale espone un nuovo motivo in corda doppia, e quasi subito ricompare nelle viole (17’04”) il tema-a. Ora il violino torna ad esibire grandi volate di semicrome, accompagnato dapprima da note lunghe del clarinetto e poi (17’15”) dal flauto che lo imita una terza sotto. A 17’22” il flauto tace e si ode un richiamo della tromba (lo stesso inciso dell’apertura) ripetuto dal clarinetto, mentre il solista prosegue imperterrito con le sue semicrome, che sostengono (17’29”) veloci terzine ascendenti. Il fagotto lo accompagna, con crome in staccato, con un motivo in MI maggiore - che riprende le quarte discendenti del tema-a, qui esposte proprio con un chiaro sapore mahlerian-titanesco - più volte reiterato, che poi (17’42”) passa ai corni modulando a DO maggiore e poi ancora - mentre il solista torna in corda doppia – passa alla tromba (17’48”) in SI maggiore e infine (17’54”) arriva al DO, enfatico, negli archi.

Dopo che questi hanno emesso quattro proterve strappate, ecco (17’59”) il solista riesporre in SI minore il tema-d, che culmina (18’19”) in una perorazione di corni e trombe cui segue, nel violino (18’25”) un nuovo tema ondeggiante, di languido sapore zingaresco, interrotto dall’orchestra (18’35”) che intercala altre folate del violino e poi riduce la velocità e (18’53”) in tempo Moderato, attacca un ritmo marziale nelle trombe. Ecco quindi - Alla marcia, pomposo umoristico (!) – i legni presentare (19’05”) un nuovo motivo per terze, che sembrerebbe venire da Smetana, la cui conclusione è ripresa poi (19’31”) dal solista in corda doppia.

Il dialogo fra orchestra e violino prosegue, fra velocissime folate del solista ed incisi anche pesanti (20’20”) del pieno strumentale. A 20’32” ha inizio (Più stretto) la forsennata coda del concerto, con il solista che accelera sempre più esponendo un tema eroico fino al Quasi presto (21’05”) e poi (21’25”) al definitivo Più presto, dove tutti ingaggiano una vera e propria rincorsa verso gli schianti conclusivi.
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Splendida davvero l‘esecuzione di Nordio e dell’orchestra: il solista accentua il lato per così dire romantico del brano, con ampio uso di rubato e sonorità che spaziano dall’elegiaco all’eroico; e Ceccherini accentua da parte sua tutti i contrasti che emergono da questa interessante partitura, che meriterebbe forse di essere messa in programma più spesso di quanto non accada.  
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Il primo Concerto per violino di Gian Francesco Malipiero è del 1932 e vide la prima esecuzione ad Amsterdam, Concertgebouw. 

Erano gli anni d’oro (si fa per dire, come del ventennio berlusconiano...) del fascismo e un personaggio in vista come Malipiero non poteva non trovarsi nella scomoda posizione in cui è difficile far convivere le proprie convinzioni progressiste e allo stesso tempo patriottiche con tutti i vincoli che il regime bene o male imponeva. Insomma, una storia di successi e riconoscimenti cui si accompagnarono parecchie (vere o presunte, o millantate) umiliazioni, che per certi versi ricorda quella dello Shostakovich alle prese con lo stalinismo. E il risultato delle (apparenti?) ambiguità degli atteggiamenti di Malipiero verso il fascismo fu di renderlo inviso (cosa che lo addolorò sommamente) anche al CNL di Venezia, che dopo la Liberazione lo accusò senza mezzi termini di connivenza con il regime appena abbattuto.

E proprio il concerto per violino in programma in Auditorium ci presenta un Malipiero che percorre strade altrettanto lontane dalla tradizione romantica (forma-sonata e sviluppi tematici, come il virtuosismo fine a se stesso, erano per lui quasi delle bestemmie) quanto dalle (allora) relativamente recenti conquiste dell’atonalità e della serialità.

Il suo conterraneo Domenico Nordio, che oltre a quello di Castenuovo-Tedesco ha già inciso anche il concerto di Casella, ha mirabilmente colto lo spirito dell’opera, che si muove fra tonalità e modalità arcaiche sulle quali si innestano spunti di assoluta modernità. La forma tripartita è soltanto un involucro che nasconde in realtà un continuo alternarsi di momenti vivaci e di pause di riflessione, quasi una simbiosi di Vivaldi e Monteverdi, i due autori più amati da Malipiero. Nordio in particolare è parso particolarmente coinvolto nel centrale Lento ma non troppo, interpretato quasi con sofferenza fisica.

Grande successo per lui che ci dedica (con Santaniello in veste di gira-pagine) un bis moderno fatto di spettacolari invenzioni virtuosistiche.
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Chiusura in bellezza con Pini di Roma. Introdotti dal corno inglese e dal primo fagotto, con la punteggiatura dei corni, che intonano – a Villa Borghese - la popolaresca Oh quante belle figlie madama Dorè. E non è la sola filastrocca che compare in questo quadro d'apertura; poco dopo ecco infatti un paio di giro-girotondo, il primo introdotto da archi e fiati a canone, il secondo da oboi e clarinetti, che viene ripetuto più volte, fino a sfociare nel lugubre passaggio presso le Catacombe, con il suo sghembo intermezzo in 5/4, pieno di note ribattute.

Nei Pini del Gianicolo, proprio alla fine (ultime 10 battute e mezza) è previsto che canti un usignolo vero: no, non è in gabbia ed in penne ed ossa, oltretutto ci vorrebbe anche l'ammaestratore a corredo, per dargli l'attacco giusto… In partitura è segnato come una registrazione su nastro (ai tempi gli mp3 potevano essere, al massimo, dei moschetti) e invece ieri lo si è udito proprio suonato dal computer.

Nel conclusivo I Pini della via Appia, dopo un lungo assolo del corno inglese, compaiono le sei buccine, specie di enormi unicorni che accompagnavano le marce delle legioni romane. Respighi – che ne prevederà tre anche in Feste Romane - prescrive in partitura dei flicorni (2 soprani, 2 tenori e 2 bassi). Sul martellante ritmo di timpani e gran cassa, sono loro a portare all'enfatico epilogo dell'opera.

Strepitosa la prestazione dei ragazzi, che non fanno rimpiangere esecuzioni ormai storiche, come questa del venerabile Prêtre con i ceciliani.

L’unico neo della serata è costituito dall’affluenza invero scarsa all’Auditorium. Ma mai come in questo caso gli assenti (che hanno ancora domenica pomeriggio per rimediare) hanno avuto torto marcio!

16 maggio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 34

  
Chiuso il ciclo 13579 di Mahler si torna ad una programmazione più variegata e subito abbiamo un accostamento interessante, con un’alternanza di due Mozart e due  Bartók. A proporceli dal podio Tito Ceccherini, che ritorna qui dopo quattro anni, in compagnia di Domenico Nordio per il violino… ungherese.
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Lunedì 29 dicembre 1783 Mozart poneva la parola fine ad una composizione per due fortepiano, la Fuga in DO K426. Sono 119 battute in 4/4 e tempo Allegro moderato, nelle quali il Teofilo mostra tutto il suo magistero in quell’arte che Bach aveva così splendidamente illustrato. Se ne può ascoltare qui una particolare interpretazione di Stravinski-padre-e-figlio, del 1938, un’epoca in cui il compositore russo guardava spesso a Bach. Di questa Fuga si era innamorato anche Beethoven, che ne aveva realizzato una sua propria trascrizione per due pianoforti.

Di un giovedì di quasi 5 anni dopo (26 giugno 1788) è invece il completamento dell’opera in programma qui in Auditorium: l’Adagio e Fuga in DO, K546. Il quale non è altro che l’estensione (appunto con l’anteposizione dell’Adagio) della precedente Fuga, il tutto affidato ora agli archi (quartetto o complesso).

L’Adagio consta di 52 battute in 3/4, ed è una pagina di grande rilievo drammatico, che serve mirabilmente, proprio a somiglianza dei Preludi e delle Toccate di Bach, ad introdurre la Fuga. La quale è stata trascritta da Mozart vivacizzandone leggermente l’agogica (qui siamo in Allegro) e affidando ai Primi e ai Secondi Violini rispettivamente le parti della mano destra delle due tastiere, alle Viole e ai Violoncelli (+Contrabbassi) rispettivamente le parti della mano sinistra delle due tastiere. In più, a partire dalla battuta 110 della Fuga e per le restanti 10, Mozart ha aggiunto anche una parte specifica di accompagnamento per i contrabbassi. Un altro cultore di Bach, Benjamin Britten, ce ne dà qui una sua vibrante interpretazione, con la English Chamber Orchestra, nella sua Aldeburgh, 1967.

Convincente l’esecuzione di Ceccherini, che tiene tempi (Allegro compreso) assai sostenuti e mette in risalto tutta l’austerità e severità davvero bachiana di questo brano, ben assecondato dagli archi, ieri guidati da Nicolai (Freiherr von) Dellingshausen.
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Il Secondo Concerto per Violino di Béla Bartók fu composto alla fine degli anni ’30 del secolo scorso e coniuga un rispetto abbastanza rigoroso per le forme classiche (3 movimenti, i due esterni veloci e il centrale più lento; simulacri di forma-sonata; cadenze solistiche) con la proverbiale predisposizione dell’Autore verso echi di musica popolare ungherese e – dal punto di vista della tecnica compositiva – anche con un occhio al sistema seriale schönberg-iano.

Composto espressamente per l’amico violinista Zoltán Székely, nelle intenzioni originarie dell’Autore doveva essere un Pezzo da concerto in forma di tema con variazioni; poi, a fronte delle insistenze del commissionario/dedicatario, Bartók si rassegnò all’idea del concerto tradizionale, ma in qualche modo si tenne fedele alla sua prima impostazione: infatti non solo il secondo movimento è (pur non essendo ciò esplicitamente scritto sulla partitura) precisamente un tema con sei variazioni, ma anche il finale è una specie di variazione sui temi del primo movimento.

Seguiamo il Concerto in questa incisione del 1958 di Isaac Stern, con Bernstein e la NYPO.
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Primo movimento (4/4, tonalità di base SI minore, Allegro non troppo). Sono 6 battute (24 accordi, dapprima in SI maggiore, in stile popolare dűvő) dell’arpa, cui si aggiungono il SI tenuto dei corni e i pizzicati di viole e archi bassi a creare un’atmosfera quasi idilliaca, nella quale il solista (18”) presenta il primo tema di 8 battute, caratterizzato da soggetto e controsoggetto:

Il violino sviluppa poi il tema in modo cantabile, finchè (1’01”) sopraggiunge un’improvvisa accelerazione, fino a 1’42” doveil tema riappare in forma variata. A 2’19” ecco un ponte, assai vivace, che ci porta verso il secondo tema (2’57”) più elegiaco, com’è tradizione della forma-sonata, il quale è curiosamente costruito su una serie di 12 suoni:

Pare che il compositore volesse con ciò ad un tempo riconoscere la validità del sistema di Schönberg e però mostrare come, applicandolo, si potesse comporre ancora musica tonale! (Del resto persino Mozart nel Don Giovanni e poi Liszt nella Faust-Sinfonie avevano utilizzato serie dodecafoniche senza per questo pretendere di imporne talebanamente l’impiego come regola compositiva…) Dopo che il tema è stato sviluppato, ecco un altro tema, vivacissimo (4’00”) che funge da sezione di chiusura dell’esposizione.

Abbiamo ora un articolato sviluppo (4’45”) introdotto ancora dagli accordi delle arpe, poi caratterizzato da un’improvvisa accelerazione (6’45”) che porta infine (8’12”) alla ripresa, con la riproposizione del primo tema, poi del ponte (9’26”) quindi del secondo tema (9’40”) e ancora della sezione di chiusura (10’48”) che incorpora (da 12’05” a 13’40”) anche la corposa cadenza solistica. Una coda (14’28”) chiude il movimento, che muore su un lunghissimo SI tenuto all’unisono da tutta l’orchestra.

Secondo movimento (9/8, tonalità di base SOL maggiore). Come detto, si tratta di un Tema con variazioni: è il solista ad esporre (in Andante tranquillo) il dolcissimo e sognante tema (15’26”) dopo una battuta di attacco con gli armonici dell’arpa e un sottofondo degli archi:


È l’orchestra, in cui si distinguono i rapidi arpeggi dell’arpa, a suggellare l’esposizione del tema, preparando il terreno alla Prima variazione (che si ascolta a 17’02”) sempre in SOL e in tempo Un poco più andante. È caratterizzata da spiccato cromatismo e dal muoversi della linea del solista prevalentemente per gradi congiunti alternati ad ampi intervalli. L’accompagnamento discreto viene dai contrabbassi e dai timpani.

A 18’15” ecco la Seconda variazione, in tonalità MI (Un poco più tranquillo) introdotta dal corno e successivamente caratterizzata dal formarsi di un’atmosfera liquida, creata dall’arpa e dalla celesta, che accompagnano la melodia esposta dal solista, con gli strumentini che pure si mantengono nel registro acuto. La Terza variazione, in tonalità SI (Più mosso) viene presentata a 19’52”: il solista la esegue suonando quasi costantemente in corda doppia, una vaga reminiscenza della musica popolare gitana. È ancora il timpano a condurre l’accompagnamento principale.

A 20’38” ecco la Quarta variazione, 4/4 in tonalità REb e tempo Lento: a dispetto del quale il solista si imbarca in una sequenza di velocissime biscrome che seguono trilli nervosi. La variazione ha un improvviso ritardando (21’20”) per poi riprendere in Andante chiuso dal REb e poi dal LAb degli archi. A 22’01” troviamo la Quinta variazione, in tonalità SIb, 9/8 Allegro scherzando: qui il solista si sbizzarrisce in rapide evoluzioni, ben spalleggiato dall’arpa, dalle percussioni e dalle volate gli strumentini.

A 22’37” ecco la Sesta variazione, l’ultima, in tonalità SIb, tempo Comodo, 3/2: inizia con semibiscrome del solista accompagnate dal pesante ritmo degli archi, sul quale si inseriscono i timpani e il tamburino con isolati interventi: il solista sale poi in tremolo ad altezze vertiginose, prima di acquetarsi in vista della riesposizione (23’48”) del Tema principale, in SOL, 9/8, dove gli archi lo accompagnano nella cadenza conclusiva del movimento.

Terzo movimento, Allegro molto, 3/4, SI minore. Qui si manifesta il carattere di ciclicità del Concerto, a partire dalla struttura del movimento, abbastanza simile a quella dell’Allegro non troppo di apertura: vi possiamo riconoscere un’esposizione di due idee tematiche, in qualche modo legate a quelle del primo movimento; uno sviluppo, una ripresa dei temi e quindi una coda. La chiusura del Concerto presenta due varianti: quella originale (riportata però in Appendice della partitura, come opzionale) affidata alla sola orchestra; e quella reclamata dal dedicatario Székely e normalmente eseguita, che invece impegna il solista fino all’ultima battuta.

A 25’31” quattro battute occupate da violente strappate degli archi introducono il solista che (25’36”) espone il primo tema:


Il quale, come si può notare, ha chiare affinità con il suo corrispondente del primo movimento, a partire dalle sette note iniziali, proprio identiche, pur con lunghezze diverse. A 26’00” (Risoluto) ecco uno sviluppo caratterizzato da veloci terzine del solista accompagnate solo da tocchi del tamburino e sporadici interventi dell’orchestra. La quale a 26’27” si scatena invece in ondate sonore, che portano successivamente (26’54”) ad una sezione di ponte fra il primo ed il secondo tema, dove il solista torna a muoversi su veloci e fluide terzine, con accompagnamento assai scarno dell’orchestra.

Si arriva così all’esposizione del secondo tema (27’33”) che – come il corrispondente del primo movimento – è costituito da una serie completa delle 12 note della scala cromatica:


Qui certo Schönberg avrebbe da ridire, essendo violata una delle sue regole fondamentali della dodecafonia (mai ripetere una nota prima di aver esaurito le restanti 11!) Il tema viene poi sviluppato con interventi di arpa e celesta e archi, mentre il tempo illanguidisce. Per poi tornare risoluto (28’23”) con il solista che ancora si imbarca in volate ascendenti e discendenti, imitato dall’orchestra, che ci portano (29’10”) alla sezione di chiusura dell’esposizione (Più mosso). Qui il solista suona frasi in corda doppia, poi l’orchestra prende il sopravvento e conduce alla sezione di sviluppo (29’41”, Meno mosso).

Il solista si adagia su note lunghe, mentre sono i clarinetti a sbizzarrirsi con volate di terzine; poi (30’33”, Mosso, agitato) il solista tace ed è l’orchestra a incalzare con un crescendo che si esaurisce a 30’54” (Molto tranquillo) dove il solista riprende la guida e, accompagnato dagli accordi dell’arpa e poi dei corni, conduce alla sezione di ripresa.

Qui il solista momentaneamente tace e così il primo tema (31’36”) viene esposto dai fiati, successivamente anche dagli archi. Il solista rientra solo in corrispondenza (32’18”) del ponte che separa i due temi principali. Si arriva così (32’37”, Tranquillo) alla riproposta del secondo tema variato, costituito da altra serie (non dodecafonica) di dodici note, ottenuta ripetendo (quasi irriguardosamente rispetto a Schönberg) ciascuna nota a distanza di un’ottava:


A 33’22” (Assai lento) abbiamo la sezione di chiusura di questa ricapitolazione, introdotta da accordi dell’arpa, che poi si ripetono, interrotti da una brevissima cadenza solistica, e che portano alla coda (35’11”) con ritorno al Tempo I, dove il solista si sbizzarrisce ancora in veloci terzine. A 35’48” abbiamo l’epilogo, che in questa esecuzione vede la presenza… ingombrante del solista.
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L’interpretazione di Domenico Nordio mette bene in risalto sia la cantabilità dei temi (come nell’Andante) che gli squarci espressionisti del concerto, e l’orchestra fa benissimo la sua parte, a cominciare dall’arpa di Elena Piva, giustamente applaudita con il solista, che ci regala non uno ma due bis bachiani.
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Dopo l’intervallo ecco la K543, terzultima delle 41 sinfonie di Mozart, già udita qui negli ultimi anni, due volte con Rilling e poi con Xian. Ceccherini non si (e ci) risparmia nemmeno una nota, rispettando tutti i ritornelli, anche nel finale, per farci godere di questo gioiellino del grande salisburghese.
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Chiude il concerto il Mandarino meraviglioso (o miracoloso che chiamar si voglia) in forma di Suite. La quale altro non è se non il balletto (anzi, la pantomima) originale troncato del bizzarro finale in cui il protagonista fa la sua… Tod und Verklärung. Qui invece tutto finisce con la conclusione della furibonda caccia all’uomo condotta dai malviventi ai danni del povero malcapitato. Successo e applausi da un pubblico piuttosto… scarno.