allibratori all'opera

bianca o nera?
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20 agosto, 2024

ROF-2024-live: Bianca£Falliero.

Finalmente si torna (almeno per una volta) in città! Il rinnovato, dopo mille peripezie non proprio edificanti, Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona memoria…) ha ospitato il ritorno sulla scena di Bianca&Falliero, ieri alla sua ultima recita (per la verità con molti posti vuoti…) che ha confermato in generale la buona impressione lasciata dall’ascolto radiofonico della prima.

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Felice Romani, oltremodo legato alla tradizione classica, confezionò (ispirandosi a Blanche et Montcassin di Antoine-Vincent Arnault, una tragedia dal finale a dir poco macabro) una storia a lieto fine, con tratti di pièce-à-sauvetage (lei che sfida l’autorità costituita per salvare lui dalla forca).

Un soggetto che su una base pseudo-storica (conflitto Venezia-Spagna nel secolo XVII) innesta in realtà la vicenda dei burrascosi rapporti di potere/denaro (Contareno-Capellio) e sentimentali (Bianca, Capellio e Falliero).

L’opera arrivò alla Scala (26 dicembre 1819) a soli due mesi di distanza da La donna del lago (24 ottobre, SanCarlo) e con essa ha qualche vaga rassomiglianza proprio sul versante degli affetti.

E non solo per l’auto-imprestito musicale del finale, con Tanti affetti (appunto!) che da Elena passa - non pari-pari come avverrà al Maometto veneziano, ma con opportune varianti - a Bianca (Teco io resto) ma anche per quanto riguarda la vicenda, diciamo, sentimentale, caratterizzata da un triangolo che vede al centro la donna (Elena/Bianca) e due suoi spasimanti (Malcom/Giacomo e Falliero/Capellio). In entrambi i casi la donna (sempre un soprano) resta fedele fino alla fine al suo amato, un militare eroico ma piuttosto squattrinato (Malcom/Falliero, contralti en-travesti) rifiutando di unirsi all’altro spasimante, assai più facoltoso e potente (Giacomo/Capellio, tenore/basso).

Storici e critici del teatro musicale non concordano nemmeno su come l’opera fu accolta, e meno ancora sulle cause di tale ricezione. Di (quasi) certo c’è che la critica paludata fece pollice-verso, trovando l’opera antiquata di concezione (libretto) e raffazzonata con furbeschi auto-imprestiti (musica). La trentina di repliche sembrerebbe invece avallare la tesi di una ricezione positiva del pubblico. Sta di fatto che fu Rossini per primo a non essere pienamente soddisfatto dell’esito di questa operazione, dalla quale evidentemente si aspettava assai di più.

E che si aspettasse di più lo si deduce, secondo il mio modesto parere, proprio dai contenuti musicali dell’opera. Opera grandiosa sotto tutti gli aspetti; da quello della lunghezza (dove credo sia seconda solo al Tell) a quello della forma, che ad un ascolto non superficiale appare come caricata di (eccessiva?) enfasi: tempi assai sostenuti, declamati ieratici e complesse e interminabili (per quanto mirabili) cadenze corali o virtuosistiche. In poche parole, un’opera esagerata, e troppo… classica, mentre il romanticismo ormai bussava alla porta (o già la stava sfondando)!

Insomma, è come se Rossini, anche per rispetto all’ambiente che gli aveva commissionato l’opera, volesse ricompensare il pubblico milanese sciorinandogli il meglio della sua arte, nel pieno rispetto della tradizione che veniva, come minimo, da Gluck, Mozart e Cherubini.

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Roberto Abbado (a mani… nude) e la OSN-RAI hanno avuto il merito di tenere sempre sufficientemente alta la tensione, che rischierebbe di allentarsi pericolosamente proprio a causa dei lunghi momenti dal sapore fin troppo sostenuto e pomposo di cui è infarcita quest’opera ipertrofica (caratteristiche che la regìa, al contrario del Direttore, ha francamente un po’ troppo assecondato). Qualche eccesso di decibel ha saltuariamente impedito alle voci di passare adeguatamente, ma forse la cosa può anche dipendere dall’acustica dell’impianto, che non mi è parsa proprio eccellente, ecco.

Come per Ermione, Giovanni Farina ha guidato il Coro del Teatro Ventidio Basso ad una prestazione di alto livello, confermando di aver raggiunto gran dimestichezza con Rossini, ormai acquisita dopo anni di regolare presenza al ROF.

Come già alla prima, è stata Jessica Pratt a raccogliere i maggiori consensi. Perfettamente calata nel personaggio di Bianca - solo apparentemente remissivo, ma capace poi di ribellarsi all’asfissiante autorità paterna, come una moderna femminista – la giunonica australiana ne ha messo in risalto tutte le qualità musicali, sia tecniche (colorature e vertiginosi virtuosismi) che interpretative (sogni, apprensioni, slanci amorosi, momenti di disperazione e temerarie iniziative).

Va da sé che il pubblico si sia esaltato ai suoi acrobatici sovracuti (i DO# e persino un MI naturale, nei passaggi in LA maggiore) e i DO, RE e MIb, l’ultimo dei quali ha chiuso in modo spettacolare (ma forse di un… secondo più breve rispetto alla prima) il finale rondò.

Aya Wakizono ha nesso in mostra la sua bella voce, calda e sempre ben impostata, ma assai sbilanciata nel timbro e nell’estensione, non proprio da contralto. Così, a fianco della Pratt (e non solo per via del suo fisico mingherlino) pareva la sorellina minore (DO acuti a profusione) e non l’eroe guerriero e autorevole. Ma a parte questo, la sua è stata una prestazione di livello più che apprezzabile, che ha toccato il culmine nella massacrante scena dal carcere (cavatina e successiva aria) lungamente applaudita.

Ai due protagonisti maschili Rossini riservò un trattamento apparentemente bizzarro: al maturo padre-padrone di Bianca (Contareno) la voce di (bari-)tenore, e al più giovane, innamorato della figlia (Capellio) quella di basso(-baritono)! Ecco, le due voci ascoltate qui sono sbilanciate verso l’alto (la prima) e verso il basso (la seconda) e ciò mi pare non abbia giovato a nessuno dei due personaggi. Ai cui interpreti peraltro va riconosciuto di aver professionalmente dato il meglio di sé.

Dmitry Korchak, da veterano ormai del ROF, ha messo voce e mestiere al servizio del personaggio del rude Contareno. Che con lui appare per la verità un po’ meno rude… per via della voce di tenore lirico del cantante-direttore russo (nel 2025 tornerà sul podio per l’Italiana). Come per la Wakizono, anche per lui ampi e meritati consensi.

Giorgi Manoshvili impersona Capellio, uomo di solidi principii e di grande nobiltà d’animo: sinceramente innamorato di Bianca, ma pronto a difenderne i diritti al costo di perderla. Ma soprattutto, uomo ancora abbastanza… giovane! Ebbene, la resa musicale del personaggio lascia qualche dubbio proprio per l’eccessiva gravità (leggi: cavernosità) del suono che esce dalle labbra del basso georgiano, paradossalmente più appropriato per il ruolo di un maturo cattivone (!) Ma anche a lui il pubblico non ha lesinato consensi.

Più che onorevoli le prestazioni dei comprimari: la fedele Costanza di Carmen Buendìa, il severo e autorevole Doge di Nicolò Donini, il premuroso cancelliere Pisani di Dangelo Dìaz e il messo/usciere di Claudio Zazzaro.

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Lo spettacolo di Jean-Louis Grinda si colloca, come ambientazione (scene, costumi e oggetti di Rudy Sabounghiilluminati anonimamente da Laurent Castaingt) nell’alveo di una generica modernità: all’inizio, dove incombe l’invasione spagnola, un maxischermo TV invia immagini di scene di guerra o del tipo Roma-città-aperta (ma ambientato in Spagna…) alternate a proiezioni di carte geografiche militari e di annunciatrici TG che ragguagliano sulle operazioni belliche. Per il resto vediamo gente abbigliata come oggi, o come 50 anni fa, o con cineprese anche più antiche…

La gestione, come si dice, delle masse è proprio da saggio-di-fine-anno: movimenti ridotti all’osso, spesso quadri da tableau-vivant, così da permettere ai coristi di pensare a cantare (assai bene, come detto) invece che a simulare gli atteggiamenti più disparati. Gli interpreti paiono essere liberi a loro volta di mettersi nei panni dei personaggi un po’ come pare a loro, ecco.    

Domanda: ma chi è mai la vecchia babbiona che compare nella scena d’esordio di Bianca e poi ritorna nella scena finale? Ah, saperlo, si accettano scommesse: è sua madre, prostrata dalla convivenza con il marito-padrone Contareno? Oppure è la stessa Bianca, come sarà ridotta (a proposito di improbabili lieti-fini) dopo vent’anni di convivenza con Falliero?

A parte questa trovata che ci ha tolto il sonno, Grinda se ne esce senza infamia e senza lodi, benevolmente ignorato dal pubblico.  

Che invece ha gratificato la compagnia di canto e suono con lunghi e meritatissimi applausi 

20 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Il barbiere di Siviglia



Ritorno all’Adriatic Arena per questo nuovo Barbiere. Nuovo nell’allestimento (del venerabile Pier Luigi Pizzi) e semi-nuovo nell’edizione, che è quella approntata nel 2010 dal compianto Alberto Zedda e da lui già presentata al ROF in forma di concerto nel 2011 e poi in forma quasi-scenica nel 2014.

Pizzi non si smentisce e - da scenografo di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi, trova) un accettabile compromesso fra gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni che, da commedia con venature di buffo, riducono il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato. Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane... non fanno mai scadere lo spettacolo in farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che ormai pare una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto.

Passerella che circonda la pseudo-buca orchestrale, dove ha tenuto banco Yves Abel, che ha affrontato la partitura con molta leggerezza (alla radio non mi aveva entusiasmato) il che devo ammettere ha però il suo buon effetto, armonizzandosi assai bene con l’approccio della regìa. L’OSN-RAI (rinforzata per la chitarra dall’apporto del pesarese - milanesizzato - Eugenio Della Chiara) ha risposto alla grande, già dall’applauditissima Sinfonia.

Sempre efficace e compatto il coro del Ventidio Basso (Giovanni Farina) nei passaggi di insieme, come in quelli a gruppetti.

Le voci. Come curiosità c’è da registrare che quattro dei sette interpreti (Mironov, Wakizono, Luciano e Corrò) figuravano un anno fa nel cast de La pietra del paragone. Faccio poi o una premessa: lo scatolone ricavato nella pancia dell’enorme Adriatic Arena ha un’acustica davvero pessima (non v’è chi non reclami e attenda con impazienza il ritorno al glorioso Palafestival) però, accipicchia, le voci delle vecchie glorie Pertusi e Zilio vi passavano attraverso in modo spettacoloso... le altre, ahiloro, assai meno. Ancora accettabili quelle di Luciano e Spagnoli, ma quelle dei due protagonisti (Mironov e Wakizono) davvero faticavano a raggiungere indenni il fondo della sala (e va dato atto ad Abel di non aver mai coperto). Il che vorrà pur dir qualcosa (ricordo di aver mosso ai due lo stesso appunto critico, a proposito di decibel, un anno fa, in occasione della Pietra...)

A parte questo rilievo, dirò che tutti (aggiungo qui anche il bravissimo Corrò) si sono assestati su un livello più che discreto. Il pubblico da parte sua ha dato un voto che rasenta la lode, a giudicare dagli applausi (a scena aperta e poi alle uscite finali) riservati a tutti, musicanti e allestitori.