ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

24 febbraio, 2014

Penultima Lucia alla Scala


Il calendario dei turni di abbonamento scaligeri ha fatto finire (nel mio caso) la Lucia dopo il Trovatore: così solo ieri pomeriggio ho potuto gustarmi (beh, insomma…) la penultima recita, in un teatro ancora una volta ben lontano dall’esaurimento.

 

La produzione arrivava direttamente dal MET, quindi assolutamente terra-terra, come si conviene ad un pubblico (quello yankee) che va ancora a teatro per divertirsi (ridendo e/o piangendo) guardando ed ascoltando ciò che gli autori dell’opera in programma hanno creato, e non per fare esercizi spirituali di decifrazione del geniale pensiero del regista di passaggio (smile!)

Così  Mary Zimmerman si è presa come unica libertà lo spostamento in avanti (di tre centuries, l’un per l’altro) dell’ambientazione. Se qualcuno si fosse domandato per quale precisa ragione, verso la fine del second’atto avrebbe avuto la risposta: doveva essere un’epoca in cui fosse già stata inventata la macchina fotografica! Sì, perché la scena finale dell’atto di mezzo (quella del famoso sestetto) è una festa nuziale (pur rovinata dall’intruso Edgardo) e nell’immaginazione della classica vecchietta del Nebraska (smile!) che va in pellegrinaggio al MET è giusto immortalarla con foto di gruppo (escluso ovviamente il disturbatore…)

Invece nel terzo atto la scenografia ricorda vagamente un saloon (con annesse camere al piano di sopra, dove si recano gli sposini e dove avverrà il fattaccio) o anche la ringhiera di un Holiday Inn ante-litteram. Per il resto scene e movimenti di masse e personaggi del tutto prevedibili. 

Sul fronte dei suoni, buone notizie (per me) da Albina Shagimuratova, una Lucia apprezzabile per sensibilità e portamento. Emozionante la sua scena della pazzia e convincente anche la prestazione strettamente vocale, impreziosita da una raffica di MIb acuti sparati come fossero noccioline. 

Vittorio Grigolo (trionfatore della serata) ormai sta conquistandosi saldamente il titolo di Kaufmann de no’ antri. Al bel Jonas non ha da invidiare né il look nè certe posture vocali piuttosto… posticce.  

Il cattivone Enrico era Massimo Cavalletti, autore di una prestazione tra lo sbiadito e l’incolore (smile!) Non molto meglio il Raimondo di Sergey Artamonov. Gli altri tre comprimari (Arturo Juan Francisco Gatell; Alisa Barbara Di Castri e Normanno Massimiliano Chiarolla) onestamente sufficienti, come il coro di Casoni.

 

Pier Giorgio Morandi ha diretto con mestiere e senza prendersi troppe… iniziative personali. Quando ci ha provato (il duetto Lucia-Raimondo) si è beccato un paio di sonori buh! (Effettivamente lì mi è parso avesse tenuto tempi da mortorio.)

In definitiva una domenica pomeriggio (quasi primaverile, da queste parti) da non disprezzare.
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Allego una monografia su Donizetti a firma William Ashbrook, comparsa su Musica&Dossier del marzo 1990.

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PS:  visto che oggi vanno di moda le staffette (dove però il testimone non viene passato ma scippato, stra-smile!) nel second’atto della Lucia abbiamo proprio la materializzazione della staffetta musicale Bellini-Donizetti-Verdi:


21 febbraio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°22

 

Aldo Ceccato, fresco-fresco di compleanno (sono 80 e davvero non li dimostra!) torna anche in questa stagione sul podio de laVerdi. Ma non per dirigervi il suo adorato Dvorak (chissà se finirà mai il ciclo delle sinfonie…) bensì l’altrettanto amato Ciajkovski.

Programma fin troppo corposo (qui si rischia davvero l’indigestione, anzi - per dirla con Hanslick - l’ubriacatura da vodka, smile!) con tre pezzi davvero impegnativi per tutti: suonatori, direttore e… pubblico.

Apre la serata Romeo e Giulietta, un pezzo che l’Orchestra conosce praticamente a memoria. Ovviamente (si fa per dire…) trattasi dell’ultima versione dell’opera, del 1880, licenziata dall’Autore 11 anni dopo la prima e 10 dopo la radicale revisione seguita alle critiche di Balakirev. In questa, dell’originale Ciajkovski tenne buoni i due temi principali: la guerra Montecchi-Capuleti e l’amore Giulietta-Romeo. Sostituì invece il corale di ingresso (che si può ricondurre a Frate Lorenzo) con un altro che vagamente si richiama al tema dell’amore (con il quale si… sposa proprio alla fine) e arricchì il brano di più contrappunto fra i temi principali. Nella versione del 1880 venne ristrutturato solo il finale.
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A dispetto dell’indicazione del titolo (Fantasia) l’Ouverture si può (più o meno arbitrariamente) ricondurre ad uno schema di forma-sonata: una lunga introduzione, poi l’esposizione dei due temi principali (tonalità di SI minore e REb maggiore); un breve sviluppo, basato sul primo tema e su quello dell’introduzione; la ripresa, dove il secondo tema si adegua al primo (RE maggiore); e una coda che chiude sulla tonalità del primo tema. 

Come detto, una delle differenze sostanziali fra le due versioni è il corale introduttivo, come si può notare a prima vista:
Nello specchietto qui sotto ho (parecchio!) sintetizzato la struttura delle due versioni (1 e 3) indicando le rispettive battute musicali e la successione dei temi. Le colonne estreme rappresentano i tempi di esecuzione, come dedotti dalle interpretazioni di Geoffrey Simon e di ValeryGergiev, accessibili sul tubo.


Come si può notare (ovviamente più all’ascolto che dalla tabella!) a parte la maggior lunghezza (il che vuol dire poco e nulla) la versione definitiva mostra tutta la sua maturità rispetto alla sorella più anziana, opera di un Ciajkovski più acerbo, anche se forse più spontaneo (quindi anche… ingenuo?) ed esuberante.
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Ceccato, accolto da un lungo applauso all’ingresso, e poi da un altro - seguito ad un auguri! emerso dalla platea quando già stava dando l’attacco – non ci ha fatto mancare proprio nulla delle preziosità di questa partitura, perfettamente assecondato dai ragazzi.
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A seguire la Mozartiana (ultima delle quattro Suite) già eseguita qui tempo fa dalla Xian. Pezzo quasi di circostanza (l’anniversario del Don) non è certo da catalogare fra le vette della produzione del russo, anche se non vi manca la maestrìa e la grazia. Però (parere mio) Mozart è meglio valorizzato da Ciajkovski nelle Rococò… 

In ogni caso è l’occasione per far fare un figurone alle prime parti dell’Orchestra, chiamate ad interventi solistici di gran pregio.
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Chiude questa interminabile kermesse ciajkovskiana quella che io considero essere la più insincera delle opere del russo: la Quarta sinfonia. Voglio spiegarmi: l’appellativo di insincera non va riferito tanto al compositore (che quando compone non è né sincero, né insincero, semplicemente – e più o meno felicemente – ispirato) quanto a tutto l’alone di cui quest’opera è stata circondata da un’agiografia da strapazzo: il Ciajkovski distrutto, nichilista e sull’orlo del suicidio, che avrebbe riversato tutte le sue turbe esistenziali nella sinfonia. Penso invece che si tratti più semplicemente di un’ispirazione pedantemente e velleitariamente tardo-romantica, per non dire decadente. Discorso analogo (per me, almeno) vale per la Sesta di Mahler, tanto per intenderci. E proprio come accadrà al boemo (sentire parecchi anni più tardi proprio nella carne i morsi della dura realtà immaginati in tempi di vacche grasse) anche per Ciajkovski il momento del vero redde-rationem con il destino che bussa alla porta arrivò ben 15 anni dopo, e la Patetica (quella sì, come la Nona di Mahler) fu testimone della ineluttabile chiamata.

Ceccato qui ha – lo dico con la più grande simpatia! – abbastanza gigioneggiato, calcando la mano su un materiale già di per sé zeppo di enfasi e di retorica. E proprio il primo movimento è stato quello più penalizzato (selon moi…) da un approccio francamente troppo ricco di prosopopea e di affettazione. Ci sono stati anche momenti pregevoli, soprattutto la resa delle parti più… intimiste dell’opera, ad esempio quelle dove sono protagonisti gli archi, inclusa la sezione in pizzicato del terzo tempo. Poi il travolgente finale ha come sempre trascinato il pubblico all’entusiasmo.

Beh, come compleanno credo che il buon Aldo se lo sia passato bene; e poi ha anche fatto lui un bel regalo all’Orchestra, dirigendo a-gratis!    

19 febbraio, 2014

Un Trovatore… trovatello?

 

No, il titolo non è farina del mio sacco, ma qualcuno lo coniò ai tempi di Muti, ultimo a proporre l’opera in Scala nell’ormai lontano 2000 (ma l’allestimento è proprio quello ripreso oggi).

 

Certo, se era un trovatello quello di Muti con Nucci-Frittoli-Urmana-Licitra (tutti al loro top, ai tempi) allora per quello di oggi si dovrebbe inventare un nomignolo davvero imbarazzante! Invece, dopo la prima semi-burrascosa (a leggere in giro) di sabato scorso, ieri la seconda è passata (come da cliché, che vuole la Scala trasformarsi in MET) non solo senza danni, ma in modo più che positivo. Però in un teatro che purtroppo presentava numerosi vuoti: brutto segno, trattandosi della riproposta dopo anni di uno dei titoli che dovrebbero immancabilmente fare cassetta.

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Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora). Ecco, riguardo i due personaggi il buon librettista si prese una non marginale libertà rispetto all’originale ispanico, come vado a spiegare.


Sappiamo che il Conte fa la parte del cattivone: viene risparmiato da Manrico in un duello rusticano (a proposito di Leonora) e per tutta… riconoscenza più tardi lo ferisce quasi mortalmente in battaglia; poi vuole conquistare Leonora - che non lo ama affatto - a tutti i costi e con tutti i mezzi, proprio come fosse un oggetto (Leonora è mia!) Ergo gli viene affibbiata, secondo i sacri crismi del melodramma, la tessitura vocale di baritono. A Manrico – buono, disinteressato, amorevole e soprattutto… riamato da Leonora (soprano) – tocca ovviamente, secondo gli stereotipi della lirica, la voce di tenore.

Ne consegue che il Conte (laido, protervo e libidinoso) deve apparire anche piuttosto attempato, se non proprio vecchio; Manrico (puro, eroico e idealista) giovine. E infatti il libretto di Cammarano ci conferma che il Conte è il fratello maggiore; infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio della prima parte, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del secondo nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena (mezzosoprano) per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Bene, qual è la libertà che si è preso Cammarano? Semplice: invertire l’età dei due personaggi! In Gutiérrez Manrique è infatti il maggiore, e Nuño (il Conte) è più giovane di due anni. Racconta infatti Jimeno: Don Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire certe …ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte: él es... tu hermano, imbécil!  
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Ora vediamo come mi è parsa la recita di ieri.


Maria Agresta si conferma cantante di gran talento: una Leonora convincente, proprio in virtù della sua voce, che non è da soprano drammatico spinto, e quindi è aderente a questo personaggio verdiano, lontano assai dalle Abigaille e consimili. Piccola pecca la scarsa penetrazione (negli ampi spazi scaligeri) del registro basso.   

 

Ekaterina Semenchuk mi è parsa musicalmente un po’ troppo… zingarella (smile!) Nel senso di non avere un chiaro indirizzo di casa, quanto ad approccio interpretativo. Però la voce c’è, e tanta: andrà (se lei lo vorrà e saprà fare) meglio coltivata.

 

Marcelo Álvarez si è difeso con mestiere, distribuendo bene le sue (non esuberanti) energie per arrivare sano e salvo alla fine. (Mi chiedo ancora perché, per le parti da eseguire fuori scena - qui sono due - il cantante venga seppellito chissà dove, cosicchè la voce pare arrivi dall’aldilà…) Quanto alla pira, anche lui ha scelto la soluzione (relativamente) più conservativa: intanto si è scontato la ripetizione, poi non volendo rinunciare a far colpo sul pubblico, con lo sparo della tonica finale (invece di fermarsi, come scrive Verdi, alla più comoda dominante) e nel contempo evitare figuracce (il DO è pur sempre un azzardo…) è prudentemente degradato sul SI, come del resto hanno fatto e fanno spesso anche i tenori più titolati. Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:

Se il tenore, sul fi-glio, invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema agli orecchi dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa…

Franco Vassallo così e così: chissà, forse per cercare di conquistare Leonora, lui prova a cantare come… Manrico (stra-smile!) Quello che ne esce fuori è un Luna…tico (!)

Chi ha fatto la sua bella figura (ma pochi avevano dubbi, data la caratura del basso coreano) è Kwangchul Youn: un Ferrando assolutamente di alto livello.

Marzia Castellini (Ines) e Massimiliano Chiarolla (Ruiz) bene nelle loro piccole parti. Come sempre onesti comprimari l’immarcescibile Ernesto Panariello e Giuseppe Bellanca.

Il Coro di Casoni in queste opere si trova proprio a casa sua e non si è smentito.

Che dire di Daniele Rustioni? Che non sarà il migliore, ma nemmeno il peggiore del pacchetto di ggiovani che in questi ultimi anni la Scala ha deciso di mandare… allo sbaraglio. Per prudenza, si è portato sul leggìo una seconda bacchetta di scorta (non si sa mai…) Così anche lui – piuttosto contestato, così si racconta, alla prima – ha ricevuto, come tutti, solo applausi e pure qualche bravo!
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Quanto alla messinscena (di Hugo De Ana, a.d. 2000) è di quelle – magari fin troppo - serie e rassicuranti (qualità ai giorni nostri sempre meno reperibili in natura e sempre più vituperate dalle élite che contano).

In definitiva, un trovatello (smile!) non proprio disprezzabile.

17 febbraio, 2014

Troppa Clemenza?


O troppo Renzi? (stra-smile!)

Dopo quella – ultra-stagionata ma sempre giovine - appena passata alla Fenice, si è potuto godere (prima per radio l’11, poi sabato 15 in streaming) di quella, nuovissima nonchè tetesca, di München.

Ieri poi Reggio Emilia ha ospitato la seconda delle due recite dell’ultimo lavoro teatrale del Teofilo (transitato la scorsa settimana anche da Modena) nel fortunato allestimento barese del 2008.


Fra queste due ultime produzioni c’è qualche singolare analogia: in primo luogo la scena, che è praticamente fissa e a forma di emiciclo: quella tedesca (di Jan BosseStéphane Laimè) è in plastica chiara e trasparente, inserita in un contesto di teatro-nel-teatro; quella (in realtà una semicupola rovesciata) di Walter Pagliaro - Luigi Perego è in legno. Entrambe si ripresentano, nel secondo atto, degradate a fronte dell’incendio della fine del primo atto: quella tedesca coperta e annerita da ceneri e fuliggine, quella italiana semi-diroccata e sventrata in più punti.

Costumi vagamente settecenteschi nei due casi, però più sobri per Pagliaro-Perego, fin troppo appariscenti quelli di Bosse-Behr, con parrucche incredibili per Vitellia e Servilia e una tunica bianca da asceta-eremita per Tito. Il tedesco poi nel second’atto, dove quasi tutti i personaggi vanno in crisi, de-traveste Sesto e Annio e così crea due coppie… gay!

Altra analogia riguarda l’approccio registico al soggetto: in entrambi i casi assolutamente (fin troppo?) serioso e rispettoso dell’austerità del libretto, che a noi 3millenari rischia di annoiare o far sorridere. Pagliaro ha cercato di movimentare le scene più statiche, oltre che tagliando un 20% di recitativi secchi, facendo entrare sul palco dei mimi con compiti vagamente didascalici, o aggiungendo qualche tocco di pruderie agli incontri fra Vitellia e Sesto.

Resta il dubbio se produzioni come queste si giustifichino sul piano meramente economico (in questi tempi di vacche magre) e non converrebbe promuovere la musica del Tito (la sola che ne fa un capolavoro) tramite esecuzioni in forma semiscenica, se non proprio puramente di concerto.

Un altro curioso parallelo fra le due produzioni è il sesso del (ehm) corno di bassetto: a Monaco come in Emilia suonato da bravissime rappresentanti, per l’appunto, del gentil sesso (la nostra risponde al nome di Miriam Caldarini).  

Sul piano strettamente musicale, il cast nostrano non ha sfigurato rispetto a quello crucco, con un convincente Paolo Fanale nel ruolo del titolo (il Toby Spence di Monaco era assai poco… imperiale!) e una volitiva Gabriella Sborgi come Sesto. Ma bravi anche gli altri, a partire da Teresa Romano in Vitellia (a dispetto di qualche urletto di troppo) e poi la promettente Ruzan Mantashyan come Servilia e Aurora Faggioli in Annio. Valeriu Caradja è stato un buon Publio, anche nell’atteggiamento moderato e non truce come spesso (Monaco compresa) viene interpretato.

Su un buon standard il Coro di Modena (guidato da Stefano Colò) e convincente l’Orchestra Regionale dell’ER, che Eric Hull ha guidato con sicurezza e gran padronanza della partitura (cosa in cui il blasonatissimo Petrenko non mi pare lo abbia affatto superato, esibendosi anche in qualche gigioneria di troppo).   

Purtroppo c’è un aspetto di fondamentale importanza che ha invece differenziato Monaco da Reggio: lassù il sold-out, qui da noi la metà dei palchi vuota (ahi ahi…)

15 febbraio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°21

 

Zhang Xian si dedica in questo concerto al grande repertorio ottocentesco (una specie di DNA dell’Orchestra, del resto) presentando opere (poco o molto popolari) di Schumann e Schubert. 

Fra le meno popolari (si fa per dire) ci sono le due del genio (un po’ pazzo, smile!) di Zwickau: il concerto per 4 corni e quello per violoncello. Del viennese frequentatore di postriboli (beh, ognuno ha i suoi gusti, e la cosa è addirittura apprezzabile se conduce ad esiti musicali siffatti…) la Grande Sinfonia, che il pazzo di cui sopra – che l’aveva disseppellita dalle scartoffie del fratello dell’Autore - giudicava di lunghezza abnorme, ma… celestiale. (Siamo romantici o no?)
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Ad aprire la serata il Konzertstück per 4 corni e orchestra. È il residente Radovan Vlatkovich a guidare il pacchetto dei primi tre corni de laVerdi (Ceccarelli-Amatulli-Cardone) in questo autentico pezzo di bravura, composto da Schumann proprio per sfruttare tutte le possibilità espressive che (ai suoi tempi) erano state introdotte dall’invenzione del ventil-horn (il moderno strumento a valvole) che soppianterà progressivamente il corno naturale, certo più romantico, ma meno dotato sul lato cromatico. Inutile dire che i solisti sono chiamati a notevoli virtuosismi, compresi i LA sovracuti che il primo corno arriva a toccare verso la fine del Lebhaft e poi nel Sehr lebhaft conclusivo.  

In un pezzo di tale difficoltà qualche sbavatura è quasi scontata, e direi che quelle emerse ieri sera si possono tranquillamente perdonare. Cosa che il pubblico ha fatto volentieri, gratificando i quattro moschettieri di applausi ed ovazioni.
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L’invasione cinese continua (smile!): oltre al podio, è cinese anche il solista, Jian Wang, che si cimenta con il Concerto per violoncello, estremo lascito della grande (nonostante tutto) mente di Schumann. Concerto dalla struttura piuttosto anomala (a parte la suddivisione in tre tempi) dove singoli temi continuamente sviluppati occupano quasi interamente i diversi movimenti, quindi c’è relativamente poco dialogo. Insomma, poca forma-sonata e molta fantasia (del resto l’Autore aveva originariamente intitolato il pezzo come Konzertstück…)

Wang, e la Xian che lo ha spalleggiato, ne hanno dato un’interpretazione sofferta, non dico nichilista, ma insomma anche i pochi squarci di sereno sono sempre stati rapidamente oscurati da densi nuvoloni (forse Clara non avrebbe gradito, ma chi può dire avesse ragione lei a trovare in un pezzo come questo qualcosa di ottimistico?)  

Una curiosità: mentre molti interpreti se ne scrivono una propria, Wang ha eseguito la cadenza finale (quella accompagnata) predisposta da Schumann.

Successo pieno coronato da un bis: invece del solito brano da una suite bachiana, il simpatico Jian (ma in cinese vuol dire Gianni?) ci ha deliziato con una languida canzoncina della sua terra.
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Su Schumann allego un saggio del sommo Quirino Principe, apparso su Musica&Dossier del Settembre 1990.
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Quando è in programma la Grande schubertiana i bookmakers fanno affari d’oro accettando scommesse sulla durata e, soprattutto, sui… ritornelli. Questi ultimi riguardano, per la precisione:

- primo movimento: (1) l’intera esposizione (Allegro non troppo) per un totale di 176 battute su 684 (al netto);

- terzo movimento (escludendo la ripresa canonica dello Scherzo): (2) prima sezione dello Scherzo (Allegro vivace) di 56 battute; (3) seconda sezione dello Scherzo di 182 battute; (4) prima sezione del Trio di 48 battute; (5) seconda sezione del Trio di 102 battute; complessivamente 388 battute su un totale di 405 (al netto);

- quarto movimento: (6) l’intera esposizione (Allegro vivace) per un totale di 380 battute su 1154 (al netto).

È evidente come il rispettare o meno tutti o parte dei ritornelli abbia effetti anche sensibili sui tempi di esecuzione, che sono comunque egualmente influenzati dall’approccio alle agogiche tenuto dal Direttore.

Per fare degli esempi pratici: proprio qui in Auditorium, anni fa il venerabile Helmuth Rilling, rispettando scrupolosamente tutti e 6 i da-capo e tenendo però un piglio mediamente abbastanza spedito, fece durare la Sinfonia un’ora esatta.

Su Youtube si può ascoltare un’esecuzione di Giulini del 1990 (a Parigi) che dura ben 63 minuti. Eppure, di tutti i 6 da-capo, Giulini esegue – come è ormai prassi abbastanza consolidata - solo il (2) e il (4) (!!!) Per dire, Böhm (anni ’70) con gli stessi ritornelli impiega 12 minuti di meno!

Per divertimento si può calcolare quanto durerebbe una data esecuzione se fossero rispettati tutti i da-capo (oggi con diavolerie informatiche disponibili anche ai comuni mortali, e non solo agli studi delle case discografiche, si può persino ricostruirci un CD…) Nel caso di Böhm saliremmo da 51 a 62 minuti (cioè più o meno come Rilling). In quello di Giulini si arriverebbe addirittura ad un’ora e un quarto abbondante (neanche fosse… Mahler!!!)

Ai tempi dei vinili (non parliamo dei 78 giri!) una delle più banali ragioni del taglio dei ritornelli (o dei tagli tout-court, proprio da barbarie) era la durata registrabile di una faccia del microsolco, che faticava a superare (pena una gran perdita di qualità) i 25 minuti. Oggi certe scuse non reggono più e il razionale che giustificherebbe queste scorciatoie consisterebbe nelle mutate attitudini moderne all’ascolto (della serie: non facciamoli addormentare o esasperare, per carità, sennò non ritornano più…)

Razionale che si ammanta spesso di sopraffine considerazioni estetiche, del tipo: se passi due volte in 5 minuti a rivedere la Gioconda, la seconda volta ti viene da vomitare (smile!) Così potremmo dire che Giulini è un cicerone che ti fa stare mezz’ora di fila davanti alla Gioconda, spiegandotela lentamente e con parole pompose; Böhm ti ci fa stare solo 20 minuti, raccontandotela con fare più spedito; Rilling te la spiega ripetendo ogni concetto per due volte, il tutto in 25 minuti!

Beh, detto ciò prendiamo atto che anche la cinesina si è adeguata (e non certo da oggi, del resto) all’andazzo prevalente, però con una piccola deroga: ha eseguito il da-capo (1) dell’esposizione, così invece dei 48 minuti indicati sul programma di sala ne ha impiegati 53!

Un filino troppo spedito (per i miei personali gusti) l’Andante introduttivo. Emozionante l’Andante con moto, soprattutto all’entrata del secondo soggetto. Strepitoso lo Scherzo e travolgente il Finale, con qualche chilo di enfasi di troppo (smile!) in quei gruppi di quattro minime che precedono la chiusa. 

Insomma: nessuno si è addormentato né ha lasciato l’Auditorium anzitempo in preda a convulsioni isteriche. Tutt’altro: il successo è stato proprio travolgente. Bene così (?!)

13 febbraio, 2014

laBarocca omaggia Rameau

 

L’appuntamento di ieri con  laBarocca di Ruben Jais ha avuto come soggetto e protagonista Jean-Philippe Rameau (di cui ricorrono, il prossimo 12 settembre, i 250 anni dalla morte).  

Prima di cominciare a comporre musiche per il teatro, Rameau fu (oltre che provetto organista) uno dei più profondi teorici della Musica che la Storia ricordi. In particolare il suo Traité del l’Harmonie reduite à ses Principes naturels ha lasciato un segno indelebile nella nostra civiltà musicale. Ad esempio nello studio degli armonici naturali:
Wagner ci ha lasciato una mirabile applicazione pratica della teoria di Rameau nel Preludio del Rheingold, dove gli otto corni in sequenza intonano un tema (detto dell’Elemento primordiale) che è costituito dalla serie degli armonici 2-3-4-5-6-8-10, tutti componenti la triade fondamentale. 

E proprio a proposito di Wagner e del Rheingold, il primo brano in programma ieri era l’Ouverture da Zais, dove neanche a farlo apposta si evoca la nascita dei quattro elementi fondamentali dal caos preesistente. E alla quinta battuta cosa compare? Un arpeggio di RE che nei violini sale dalla dominante alla tonica, nelle viole dalla mediante alla dominante e nei fagotti dalla tonica alla mediante; tutti percorrendo i gradi della triade fondamentale! Casualità? O causalità?
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Jais ha poi predisposto un programma assai articolato, oltre che ben impaginato (programma che il Direttore ha illustrato brevemente al microfono, prima di riprendere la sua bacchetta… virtuale) offrendoci una specie di bigino (ma di quelli seri, oltre che avvincenti) della produzione teatrale di Rameau: ouverture, arie, balletti, entr’acte… insomma un campionario delle componenti del teatro musicale del barocco francese. Mancavano solo, ma francamente non si può pretendere tutto…, i cori.    

Ad esibirsi, oltre ai ragazzi dell’Ensemble guidati come sempre da Gianfranco Ricci, sono stati quindi anche cantanti (soprano Céline Sheen, tenore Samuel Boden e basso Ugo Guagliardo) e ballerini, ridotti all’osso nel numero (Chiara Vittadello, Jessica Rapelli e Lorenzo Macciò) ma efficacissimi nelle loro apparizioni in singolo (o al massimo in coppia, nelle Indes, con la coreografia di Camilla Meregalli). 

Estratti da due opere del ceppo Tragédie Lyrique hanno occupato la prima parte della serata. Dapprima dal Castor et Pollux (seconda versione del 1754) oltre all’Ouverture, abbiamo ascoltato i due minuetti del primo atto (Spartiates) e l’aria di Télaire del second’atto, Tristes apprêts, un autentico gioiello di musica, che anticipa l’Orfeo di Gluck e nulla ha da invidiare addirittura ai romantici! Poi l’altra bellissima aria di Castor (del quarto atto): Séjour de l’éternelle paix (qui da 3’58”) e infine la Chaconne delle Ore e dei Pianeti e la Gavotte che chiude l’opera.

Poi dal Dardanus (prima versione) oltre l’Ouverture, sono stati eseguiti i due Tambourins del Prologo. Qui Jais ha collocato l’intervallo (per ragioni di equilibrio di tempi, immagino). Alla ripresa ecco due arie dal quarto atto: il tenore ha esposto quella di Dardanus, Lieux Funestes; quindi il basso quella di Anténor, Voici les tristes lieux e Monstre affreux, dall’Atto IV. Infine la Chaconne conclusiva.

A rappresentare il genere Opéra-ballet ecco estratti da Les Indes galantes: Ouverture, poi Les Incas du Pérou, con l’aria del soprano Viens Hymen (accompagnata dal flauto di Francesca Torrie il Rondeau. Quindi l’ultima parte, aggiunta da Rameau in un secondo tempo, che ci parla dei Selvaggi: qui due danzatori ballano il Calumet de la paix e soprano-basso cantano Forets paisibles.

Ha chiuso il concerto la famosa aria dalla quinta ed ultima scena del second’atto dell’opera comica Platée: quella dove il personaggio della Follia prepara Platée, una ninfa piuttosto racchia ma piena di sé, al (finto) incontro amoroso con Giove (!) Eccone qui, gag incluse, la parte eseguita anche ieri sera. Qui invece – da 1h15’15” a 1h33’48” - la scena completa, in un allestimento… adeguato (smile!)

Una serata eccezionale, che il folto pubblico ha mostrato di apprezzare assai, spingendo Jais ad un bis dei Tambourins del Dardanus.
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Allego per l’occasione un saggio di Danilo Prefumo sulla Tragédie lyrique, comparso su Musica&Dossier nel marzo 1993.

07 febbraio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°20

 

Un’autentica scorpacciata verdiana caratterizza questo appuntamento in Auditorium, dove le masse strumentali e corali de laVerdi si cimentano per la terza volta nella stagione (era già accaduto altre due volte con Bignamini) con il… Verdi operistico!

Zhang Xian guida l’Orchestra in tre Preludi/Sinfonie e nei ballabili di Macbeth. Erina Gambarini guida (virtualmente, causa indisposizione, sostituita dal suo vice Luigi Ripamonti) il suo coro in cinque celebri pagine, fra cui il Tetto natìo e Và pensiero. E tutti insieme presentano per intero L’Idolo infranto del Nabucco.

Questi sconfinamenti nel lirico da parte dell’Orchestra (nata e cresciuta a pane-e-sinfonico) non sono certo una novità: basti pensare all’ormai stagionato Chénier della premiata coppia Armiliato-Dessì, oltre che alle recenti esecuzioni concertate della medesima opera, nel 2012, e della Cavalleria nel 2013, più la Carmen del Golfo. Nel caso di Bignamini (ormai pienamente avviato sulla strada del… melodramma) hanno tutta l’aria di un trampolino di lancio; mentre per la Xian sembrano rappresentare un progressivo avvicinarsi ad un mondo che si intende esplorare davvero con-i-piedi-di-piombo (il che è tutto fuorchè un rimprovero, sia ben chiaro!)   

Della prima parte della serata ho personalmente apprezzato il Patria oppressa, il primo Preludio di Traviata e il coro dei Lombardi. Oneste prestazioni nella Sinfonia della Giovanna e nei Ballabili del Macbeth.  

Dopo l’intervallo, tutto Nabucco, a partire dalla Sinfonia, la cui esecuzione è stata un filino sporcata (almeno ciò e apparso alle mie orecchie) dagli attacchi non perfetti di oboe e clarinetto nell’Andantino che anticipa il Và pensiero. Poi il coro, assai bene, nell’iniziale Gli arredi festivi.

Ecco quindi i due protagonisti, con il recitativo della seconda parte Ma chi s’avanza, seguito dal duetto. Lucio Gallo per la verità non (mi) ha incantato: voce piuttosto opaca, che appare scurita forzatamente, acuti piuttosto precari. A Elena Lo Forte (proprio qui cantò Lola lo scorso anno) si potrebbe applicare il vecchio slogan con quella bocca può dire ciò che vuole, però sostituendo bocca con… tette (stra-sbav-smile!) A parte le battute di bassa lega, la sua mi è parsa una prestazione dignitosa, coronata da un buon Su me morente esanime finale: certo, Abigaille non è solo questo…

Dopo un pregevole Và pensiero, è stata eseguita l’intera quarta parte dell’opera, dove - a fianco dei due protagonisti principali - ha avuto modo di mettersi in luce anche Erika Fonzar, una discreta Fenena (era stata Mamma Lucia in Mascagni lo scorso giugno). Buona impressione mi ha fatto anche Hong Shin Kil nella pur smilza parte di Zaccaria: chissà che non sia destinato a continuare la recente serie dei grandi bassi e baritoni coreani, nella scia degli Youn

A parte Francesco Frasca (vecchia conoscenza dell’Auditorium, qui in Abdallo) che qualche verso lo canta da solo, gli altri tre interpreti (Salvo Guastella come Ismaele, Massimiliano Catellani come Gran Sacerdote di Belo e Federica Vitali come Anna) si limitano ad accompagnare il coro a cappella e quello finale, quindi francamente si potevano anche… risparmiare, mettendo magari al loro posto tre baldi rappresentanti del coro. 

In complesso una serata piacevole, che ha chiuso degnamente le celebrazioni verdiane.

04 febbraio, 2014

La Russia in Auditorium


Un’Orchestra quasi coetanea (nata 3 anni prima) de laVerdi è stata ieri ospite in Auditorium: si tratta della Russian National Orchestra, diretta dal suo fondatore, Mikhail Pletnev.

Il concerto si collocava nel programma delle iniziative culturali italo-russe legate all’Anno del Turismo 2013-2014 e per l’occasione il proscenio era addobbato con i due tricolori realizzati da splendide composizioni floreali. Dopo i dovuti pistolotti del padrone di casa Cervetti e dei suoi due ospiti dei ministeri della cultura italiano e russo, ecco la musica, con due celeberrimi lavori di Rachmaninov e Ciajkovski: insomma, tutta Russia, ma con un importante ingrediente italico, il sempre più convincente Roberto Cominati.

Ed è stato il pianista nostrano ad aprire il programma con il più eseguito ed inflazionato dei Concerti di Rachmaninov, il Secondo. Era il suo primo incontro con questa orchestra, ma il nostro non sembrava affatto preoccupato della novità, come si evince da questa sua presentazione. Ed in effetti tutto è (mi pare proprio) filato liscio: Cominati ha sfoggiato la sua grande sicurezza e sensibilità, in questa partitura che comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata; e l’Orchestra, che Pletnev ha guidato con gesto scarno ed essenziale, lo ha supportato nel migliore dei modi.

Ne è uscita un’esecuzione trascinante e lungamente applaudita dal foltissimo pubblico, cui non è seguito alcun bis, per dovere – credo proprio – di ospitalità.   

Dopo l’intervallo, ecco la travolgente Quinta ciajkovskiana. Pletnev - sempre compostissimo e quasi flemmatico - e i suoi ragazzi (disposti alla alto-tedesca, violini secondi al proscenio e bassi al centro-sinistra) devono conoscerla non a memoria, ma proprio a… cromosomi, così ne cavano tutte le preziosità nascoste. Da incorniciare l’Andante cantabile, con alcuna licenza, dove il corno del biondino Alexey Serov si guadagna una lode. Sempre emozionanti le irruzioni del protervo tema del destino e davvero enorme la chiusa, con le quattro semiminime scandite quasi a seppellire tutte le disgrazie sotto una pesante lapide!       

Meritato trionfo finale, che chiama il bis, adesso invero dovuto, con un irresistibile Trepak!
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Qui un saggio su Ciajkovski di Aldo Nicastro, pubblicato nel febbraio 1988 su Musica&Dossier.