No, il titolo non è farina del mio sacco, ma qualcuno lo coniò ai
tempi di Muti, ultimo a proporre
l’opera in Scala nell’ormai lontano 2000 (ma l’allestimento è proprio quello
ripreso oggi).
Certo, se era un trovatello
quello di Muti con Nucci-Frittoli-Urmana-Licitra (tutti al loro top, ai tempi) allora
per quello di oggi si dovrebbe inventare un nomignolo davvero imbarazzante!
Invece, dopo la prima semi-burrascosa
(a leggere in giro) di sabato scorso, ieri la seconda è passata (come da cliché, che
vuole la Scala trasformarsi in MET) non solo senza danni, ma in modo più che
positivo. Però in un teatro che purtroppo presentava numerosi vuoti: brutto
segno, trattandosi della riproposta dopo anni di uno dei titoli che dovrebbero
immancabilmente fare cassetta.
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Come si sa, Salvadore
Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García
Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico)
che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa
donna (Leonora). Ecco, riguardo i due
personaggi il buon librettista si prese una non marginale libertà rispetto
all’originale ispanico, come vado a spiegare.
Sappiamo che il Conte fa la parte del
cattivone: viene risparmiato da Manrico in un duello rusticano (a proposito di
Leonora) e per tutta… riconoscenza più tardi lo ferisce quasi mortalmente in
battaglia; poi vuole conquistare Leonora - che non lo ama affatto - a tutti i
costi e con tutti i mezzi, proprio come fosse un oggetto (Leonora è mia!) Ergo gli viene affibbiata,
secondo i sacri crismi del melodramma, la tessitura vocale di baritono. A Manrico – buono,
disinteressato, amorevole e soprattutto… riamato da Leonora (soprano) – tocca ovviamente, secondo gli
stereotipi della lirica, la voce di tenore.
Ne consegue
che il Conte (laido, protervo e libidinoso) deve apparire anche piuttosto attempato, se non proprio vecchio; Manrico
(puro, eroico e idealista) giovine. E
infatti il libretto di Cammarano ci conferma che il Conte è il fratello maggiore; infatti Ferrando racconta,
proprio all’inizio della prima parte, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida
nutrice del secondo nato dormia presso la cuna. E il
secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato
e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena
(mezzosoprano) per vendetta
contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due
fratelli.
Bene, qual è
la libertà che si è preso Cammarano? Semplice: invertire l’età dei due personaggi!
In Gutiérrez Manrique è infatti il
maggiore, e Nuño (il Conte) è più
giovane di due anni. Racconta infatti Jimeno:
Don Nuño, el menor
de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró
hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.
Insomma, il
rispetto delle regole del gioco del
melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei
protagonisti!
E anche di
addolcire certe …ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime
battute del cui dramma Azucena grida al Conte: él es... tu hermano, imbécil!
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Ora vediamo come mi è parsa la recita di ieri.
Maria Agresta si conferma cantante di gran talento: una Leonora convincente, proprio
in virtù della sua voce, che non è da soprano drammatico spinto, e quindi è aderente
a questo personaggio verdiano, lontano assai dalle Abigaille e consimili.
Piccola pecca la scarsa penetrazione (negli ampi spazi scaligeri) del registro
basso.
Ekaterina Semenchuk mi è parsa musicalmente un po’ troppo… zingarella (smile!) Nel senso di non avere un chiaro indirizzo di casa, quanto
ad approccio interpretativo. Però la voce c’è, e tanta: andrà (se lei lo vorrà e
saprà fare) meglio coltivata.
Marcelo Álvarez si è difeso con mestiere, distribuendo bene le sue (non esuberanti) energie per arrivare sano e salvo alla fine. (Mi chiedo ancora perché, per le parti da eseguire fuori scena - qui sono due - il cantante venga seppellito chissà dove, cosicchè la voce pare arrivi dall’aldilà…) Quanto alla pira, anche lui ha scelto la soluzione (relativamente) più conservativa: intanto si è scontato la ripetizione, poi non volendo rinunciare a far colpo sul pubblico, con lo sparo della tonica finale (invece di fermarsi, come scrive Verdi, alla più comoda dominante) e nel contempo evitare figuracce (il DO è pur sempre un azzardo…) è prudentemente degradato sul SI, come del resto hanno fatto e fanno spesso anche i tenori più titolati. Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:
Se il tenore, sul fi-glio, invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema agli orecchi dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa…
Franco Vassallo così e così: chissà, forse per cercare di
conquistare Leonora, lui prova a cantare come… Manrico (stra-smile!) Quello che ne esce fuori è un Luna…tico (!)
Chi ha fatto la sua bella figura (ma pochi avevano dubbi, data la
caratura del basso coreano) è Kwangchul
Youn: un Ferrando assolutamente di alto livello.
Marzia Castellini
(Ines) e Massimiliano Chiarolla
(Ruiz) bene nelle loro piccole parti. Come sempre onesti comprimari
l’immarcescibile Ernesto Panariello e
Giuseppe Bellanca.
Il Coro di Casoni in queste opere si trova proprio a casa sua e non si è
smentito.
Che dire di Daniele Rustioni?
Che non sarà il migliore, ma nemmeno il peggiore del pacchetto di ggiovani che in questi ultimi anni la
Scala ha deciso di mandare… allo sbaraglio. Per prudenza, si è portato sul
leggìo una seconda bacchetta di scorta (non si sa mai…) Così anche lui –
piuttosto contestato, così si racconta, alla prima – ha ricevuto, come tutti, solo applausi e pure qualche bravo!
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Quanto alla messinscena (di Hugo
De Ana, a.d. 2000) è di quelle – magari fin troppo - serie e rassicuranti
(qualità ai giorni nostri sempre meno reperibili in natura e sempre più
vituperate dalle élite che contano).
In definitiva, un trovatello (smile!)
non proprio disprezzabile.
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