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20 agosto, 2019

ROF-XL live: L’equivoco stravagante


Ieri alla Vitrifrigo arena (non proprio esaurita) terza recita de L’equivoco stravagante. Non ho ancora visto il Demetrio (che però ricordo bene dal 2010) ma mi sento di affermare senza tema di smentita che lo spettacolo cui ho assistito ieri è di gran lunga il migliore di questo ROF e forse uno dei migliori in assoluto nella storia del Festival.

Con i soggetti seri o tragici il rischio che si corre oggi è di trovare un regista che si diverte (lui solo, però) ad interpretarli in modo diciamo... personale, spesso creando autentici mostri, come è accaduto proprio qui a Vick con la Semiramide. E come accadde anche a SantAmbrogio 2015 alla coppia Leiser-Caurier, responsabili di una Giovanna d’Arco invero... invereconda.

Viceversa, con le opere leggere (drammi giocosi, farse) il rischio è che vengano trasformate in volgari pezzi da avanspettacolo, e l’Equivoco ci si presta benissimo, con quel testo che Gasbarri infarcì (peraltro con raffinato humor) di doppi sensi, battute salaci e ammiccamenti da barzelletta sporca. Ci vorrebbe poco a trasformare l’opera in una goliardata tipo Ifigonia in Culide, ecco.

E invece - sorpresa sorpresa - il due registi hanno messo in piedi uno spettacolo di alto livello, senza mai cadere nel grossolano e nel becero, ma mantenendolo sempre su un piano di eleganza e buon gusto che davvero ha conquistato il pubblico.

Sobria ma intelligente ed efficace la scenografia di Christian Fenouillat: scena praticamente fissa, incorniciata come un grande quadro, nella casa di Gamberotto; pochissime suppellettili (tre sedie, un letto per parte del second’atto e nulla più); un (apparente) quadro gigante, raffigurante un paesaggio rurale con vacche pascolanti, che però si rivela essere un finestrone affacciato sulla campagna: lì circoleranno Ermanno ed Ernestina dopo la fuga dalla casamatta e soldati e servitori. Una quinta sulla destra della scena si apre temporaneamente per creare l’oscuro e angusto spazio della prigione in cui è chiusa Ernestina, poi liberata da Ermanno. Eleganti e simpatici i costumi di Agostino Cavalca. Elementari, ma ben gestite da Christophe Forey, le luci.

Molto curata la recitazione dei personaggi: Ernestina in particolare è efficacemente presentata come una ragazza un po’ snob, abbigliata (nella sua immaginazione) come una principessa e alla quale la cultura deve aver creato più complessi che maturità. Gamberotto e Buralicchio sono due ricchi, il primo però è un parvenu, grazie a tanto olio di gomito; l’altro probabilmente un nullafacente figlio-di-papà. Ermanno è il (futuro) Nemorino della situazione. Centrate anche le figure dei due domestici-amanti Frontino (che non si capisce dal libretto per quali ragioni sia confidente ed alleato del povero Ermanno) e Rosalia. Appropriati ed intelligenti i movimenti dei 14 coristi maschi, ora impersonanti la servitù di Gamberotto, ora i militari della guarnigione. Tutti i protagonisti sono dotati di lunghi nasi alla Cyrano, dei quali si disferanno platealmente sull’ultimo accordo di SIb maggiore dell’orchestra. 

In definitiva, un allestimento di gran classe (che sembra evocare certi spettacoli di Ponnelle...) che il pubblico ha mostrato di apprezzare assai. E che è auspicabile venga ripreso al ROF negli anni a venire.
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Ma altrettanto se non maggiore apprezzamento è andato alla prestazione musicale, che ha valorizzato in pieno questa partitura colma di cavatine, ariette, concertati e cori con la quale Rossini inaugurò la consuetudine dell’auto-imprestito, sia in... entrata (passaggi dal Demetrio e l’intera Sinfonia, più altri brani, dalla Cambiale); e poi (complice lo stop imposto all’Equivoco dalla censura) in... uscita, verso il vicino Inganno, ma anche verso una mezza dozzina di opere successive.

Le voci mi son parse tutte all’altezza del compito. Una classifica va comunque fatta (e l’ha fatta anche il pubblico con l’applausometro). Io ci metto in cima la Teresa Iervolino, che ha messo in mostra la sua bella voce contraltile, coniugata ad una efficace resa della bizzarra personalità della protagonista.

Poi Davide Luciano, un Buralicchio assai apprezzabile per sonorità e corposità di timbro. Con lui, benissimo l’ormai veterano Paolo Bordogna, una sicurezza assoluta in questi ruoli di buffo (dal 2005 ne ha interpretati qui quasi una dozzina!)

Pavel Kolgatin ha una voce piccola e con un timbro un pò chioccio, ma se l’è cavata più che discretamente, in una parte che non presenta le proverbiali arditezze cui Rossini costringerà i tenori in futuro.

Assai bene anche i due servitori-lenoni Claudia Musco e Manuel Amati. Perfetti i 14 esponenti del Ventidio Basso diretti da Giovanni Farina.

Carlo Rizzi ha guidato con sicurezza la splendida OSN-RAI (menzione speciale per il corno di Giovanni Urso nella Sinfonia). Dal Direttore avrei gradito solo un filino in più di verve nei passaggi più... tranquilli, ecco.

Per tutti applausi a scena aperta dopo (e anche all’interno di) ogni numero e poi finali ovazioni e ripetute chiamate al proscenio.

12 agosto, 2019

ROF-XL alla radio


Ieri sera il ROF del quarantesimo (significativamente dedicato a due grandi personaggi - del canto e della scienza musicale - da poco scomparsi, Monserrat Caballè e Bruno Cagli) ha aperto i battenti con una della bestie-nere (in senso buono, of course...) del catalogo rossiniano: Semiramide.

Dirò subito che il livello musicale dello spettacolo (per quanto si può giudicare per radio) mi è parso di alta qualità, se non proprio di eccellenza. Il profeta-in-patria Michele Mariotti ha confermato - ce ne fosse bisogno - di padroneggiare il complesso e difficile materiale rossiniano con assoluta perizia: certo, lui ha avuto il vantaggio di lavorare per anni con super-esperti come Zedda, e... si sente! La OSN-RAI non gli è stata da meno, con una prestazione impeccabile in tutte le sezioni, già manifestatasi fin dalla colossale Sinfonia.

Fra le voci mi ha sorpreso assai positivamente Varduhi Abrahamyan, un contralto che ha doti naturali degne di una Podles (!) Il suo Arsace ha la necessaria profondità di accenti e sono curioso di ascoltarla dal vivo per confermare questo giudizio.

Bene anche la beniamina del ROF Salome Jicia, che non sarà proprio la Colbran... ma che ha dimostrato di essere assai cresciuta in questi pochi anni, dopo il suo esordio in Elena.

Antonino Siragusa ha pure confermato alle mie orecchie la sua propensione per questi ruoli rossiniani: voce squillante, acuti staccati (quasi sempre) con sicurezza, dai DO e RE del primo atto, fino ai due DO# non scritti della sua aria di... addio-al-celibato, prima del viaggio di nozze.

La sua mogliettina non troppo convinta era Martiniana Antonie, che si è ben difesa, in una parte non proprio impossibile.  

Più che discrete le due voci basse, Nahuel Di Pierro è stato un efficace Assur, anche a livello di espresività, come dimostra la scena degli incubi, prima del finale; Carlo Cigni è stato un autorevole Oroe, anche se forse l’emozione di dover aprire l’opera gli ha creato qualche problema all’inizio. Oneste le prestazioni di Alex Luciano e Sergey Artamonov.

Il Coro del Ventidio Basso guidato da Giovanni Farina ha meritoriamente completato l’opera sul fronte musicale, accolto da un successo incondizionato, almeno a giudicare dagli applausi finali. Grandi contestazioni invece al team di Graham Vick, la cui regìa, secondo l’inviato di radio3 Oreste Bossini peccherebbe di eccessivo e indigesto cerebralismo (ma converrà giudicarla dal vivo).
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13 agosto - Demetrio&Polibio

Brillante davvero questa ripresa dell’opera prima di Rossini, comparsa al ROF nell’ormai lontano 2010, che ieri ha ottenuto (almeno a giudicare da ciò che l’etere ci ha portato alle orecchie dalla piccola bomboniera del Teatro cittadino) un gran successo di pubblico, con applausi dopo ogni numero e ovazioni finali.

Regina della serata (ma c’era da prevederlo) è stata una delle beniamine del ROF, Jessica Pratt, che in una parte che pare proprio scritta per lei e per le sue straordinarie doti naturali ha inebriato i suoi fan, sciorinando virtuosismi e sovracuti da brivido.

Ma bene anche Cecila Molinari (alla sua terza comparsa in 4 stagioni) e l’ormai veterano Juan Francisco Gatell, cui si è degnamente affiancato Riccardo Fassi.

Ripettando un’alternanza che vede le due Orchestre locali avvicendarsi di anno in anno in un’opera del cartellone principale, è toccato alla Filarmonica Rossini (da tempo affidata alle amorevoli cure di Donato Renzetti) accompagnare le voci sotto la guida del solido Paolo Arrivabeni, tornato al ROF dopo 16 anni. Meritevole di apprezamento anche il Coro della Fortuna diretto da Mirca Rosciani

In attesa dell’Equivoco, mi sento di dire che il livello strettamente musicale di questo quarantenne Festival è davvero ragguardevole.
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Titolo appropriato per le vicende politiche di attualità ferragostana: Buralicchio Salvini buggerato da Frontino Renzi... (che Dio ce la mandi buona!)

Chiusura scoppiettante delle tre prime del ROF-XL, con il dramma giocoso che occupa il terzo posto del catalogo rossiniano, subito dopo la Cambiale (di cui mutua la Sinfonia, inaugurando così immediatamente la prassi degli auto-imprestiti).

Anche ieri sera Radio3 ci ha portato belle notizie sul fronte dei suoni, con una compagnia di canto ben assortita (Iervolino e Bordogna su tutti) e una direzione (Carlo Rizzi) che ha saputo valorizzare al meglio le qualità di questa spumeggiante partitura del 19enne Gioachino. Accoglienza poco meno che trionfale, a testimonianza del gradimento del pubblico, fra il quale si è mescolato tale... Richard Bonynge!
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Ora non resta che l’esperimento in corpore vili... prossimamente.

21 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. La pietra del paragone


Ritorno sotto le enormi valve dell’Adriatic Arena (parecchie anche ieri le poltroncine vuote, peraltro) per l’ultima recita de La pietra del paragone, la settima opera che portò al ventenne Rossini il successo e la notorietà sulla piazza milanese. In quel 1812 la Scala aveva in cartellone due opere che avevano avuto un discreto, se non grande, successo: il Ser Marcantonio del Pavesi e Le bestie in uomini del Mosca, che non erano proprio da buttar via, almeno a giudicare da qualche frammento recuperabile anche in rete (la Sinfonia del Pavesi e una scena-e-aria con corno obbligato del Mosca) che sembrano anzi dei modelli di riferimento per il Gioachino. Eppure la Pietra eclissò totalmente le due concorrenti: e il pubblico milanese in quell’autunno non volle più ascoltare altro che Rossini!

Su un libretto di Luigi Romanelli, assai raffinato nella forma quanto inverosimile nel contenuto (basti pensare ai due speculari travestimenti di Asdrubale e Clarice) Rossini compose quasi tre ore di musica che scorre via senza cadute di tensione o rilassamenti, una vera e propria abbuffata di numeri: cavatine, arie, duetti, terzetti, quartetti, quintetti, cori, un temporale e ovviamente i due concertati finali. Non mancano anche qui gli auto-imprestiti (in e out): dall’Equivoco stravagante (sua terza opera, che aveva fatto fiasco a Bologna) arrivano – rielaborati dal compositore - tre numeri della Pietra (coro di cacciatori, quintetto e aria di Clarice-Lucindo); la Sinfonia venne invece presa di peso e trasportata al Tancredi veneziano, il terzetto del duello andrà nella Gazzetta, il Temporale nell’Occasione e successivamente nel Barbiere. A testimonianza della disinvoltura (ma anche dell’acume e dell’intelligenza) che Rossini impiegava nel disporre della sua propria musica.

Compagnia di canto giovane, con parecchi ex-accademici che hanno mostrato le loro promettenti qualità, già emerse alla prima e all’ascolto radiofonico. Ma i mattatori della serata sono stati i due buffi: Paolo Bordogna che ha confermato (come Pacubio) la sua gran classe e ha strappato applausi, non solo con la bizzarra e parodistica Missipipì; con lui un ottimo Macrobio di Davide Luciano, autore di una prova maiuscola, per spiegamento dei suoi potenti mezzi naturali, oltre che per caratterizzazione del personaggio.

Maxim Mironov e Aya Wakizono (tenore e contralto, coppia di potenziali amanti certo meglio assortita – musicalmente – di quella Asdrubale-Clarice che invece godrà del lieto-fine) mi son parsi degni di apprezzamento: lui, ormai alla terza presenza al ROF (dopo 2006 e 2015) non è più da scoprire ed anzi pare fare progressi col passar degli anni, così ha sciorinato una splendida aria nel second’atto. Lei è alla prima presenza nel cartellone principale (fece da accademica il Viaggio nel 2014, prima di passare ad un’altra accademia, quella scaligera) e ha mostrato voce ben impostata e accenti adeguati al ruolo. Ad entrambi si può peraltro imputare la mancanza di qualche decibel, che ha un filino penalizzato le loro prestazioni.
   
A Gianluca Margheri era affidato il ruolo (Asdrubale) di grande impegno e difficoltà: che il nostro ha cercato di superare non senza qualche affanno, in specie nei virtuosismi cui Rossini chiama il protagonista, tuttavia mi sentirei di dargli un voto nettamente positivo.

Detto che William Corrò è stato un onesto Fabrizio, restano le due pettegole arriviste della compagnia: come già alla prima radiofonica, Marina Monzó e Aurora Faggioli non mi hanno particolarmente impressionato: comunque un filino meglio la prima, discreta nella sua arietta e meno... vetrosa e urlacchiante della seconda.

Il Coro (maschile, ieri) del Ventidio Basso di Giovanni Farina, impegnato in misura corposa, ha ancora sfoggiato affiatamento, precisione di attacchi e belle sonorità.

Per l’OSN-RAI non si possono ripetere che elogi ed apprezzamenti: con una partitura che non a caso viene definita tedesca (per la strumentazione lussureggiante, scritta per un’orchestra – quella della Scala del 1812 - agguerrita come le compagini del Nordeuropa) i nostri radiofonici vanno evidentemente a nozze. Daniele Rustioni li ha guidati con perizia e rigore: Orchestra e Direttore torneranno martedi a chiudere (in bellezza, c’è da esserne certi) questo ROF-38 con lo Stabat Mater.
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Pier Luigi Pizzi ha ripreso, con parecchi aggiornamenti, il suo simpatico allestimento che tre lustri non hanno per nulla invecchiato, anzi! La storiella improbabile di Romanelli si può perfettamente ambientare in spazio e tempo qualsivoglia, rappresentando a suo modo un archetipo di certa società benpensante e di ceti parassitari presenti sotto ogni latitudine e in ogni epoca.

Quello di quest’anno si ricorderà come il ROF-delle-passerelle: dopo Padrissa e Martone, anche Pizzi ne ha fatto uso (peraltro in modica quantità) come appendice alla sua scenografia riproducente un villino con piscina, ispirato al regista proprio da una sua casa al mare. Regista che si è presentato baldanzosamente sul palco a raccogliere applausi e ovazioni, meritati per lo spettacolo e insieme per la sua interminabile carriera.

Alla fine trionfo per tutti, con passerella generale accompagnata da Richard Barker al fortepiano.

16 aprile, 2017

La Gazza scaligera e Chailly si riprendono ciò che gli spetta


La seconda recita della  Gazza ladra ha (come si poteva del resto facilmente prevedere) rimesso ogni cosa a posto per ciò che riguarda il livello (non sommo, intendiamoci, ma più che accettabile) della qualità complessiva dello spettacolo. E in particolare per ciò che riguarda il Direttore (pretestuosamente contestato alla prima) che è stato invece l’artefice principale del successo dello spettacolo (proprio come Daniele Gatti lo era stato di recente nei Meistersinger).

Dunque, Chailly: una direzione quasi perfetta, proprio a comiciare dai rulli di cassa che aprono l’Ouverture, che a suo tempo lo stesso grande Gioachino – additato per il patibolo da uno scandalizzato quanto stolto violinista – seppe difendere alla grande.

Ma praticamente tutto nella direzione di Chailly è da condividere: lo stacco dei tempi, le dinamiche, le sfumature ora comiche e grottesche, ora serie e lacrimevoli (la marcia al patibolo, una cosa straordinaria!) E poi la concertazione di orchestrali e cantanti: in tre ore e un quarto di musica – non dimentichiamo che si è presentata la versione integrale, recitativi compresi, magistralmente accompagnati da James Vaughan - mai una sbavatura, un attacco sporco, una rilassatezza, una caduta di tensione. Insomma, una dimostrazione di professionalità e di sensibilità interpretativa di alto livello. Per lui solo applausi, dopo l’Ouverture, al rientro e all’uscita finale: un successo che di sicuro lo ripaga delle preconcette e abbastanza ignobili contestazioni della prima. Ragion per cui, chiunque farnetichi di licenziamenti in tronco del Direttore Musicale dovrà rinfoderare le spade di latta (per poi magari ri-brandirle alla prossima, ma con credibilità ridotta a zero).

Per il resto, nel campo sonoro, niente di stratosferico, intendiamoci, ma un livello generale che a mio avviso ha ampiamente meritato la sufficienza, con punte verso il buono ed altre meno, ma insomma... una performance più che dignitosa, accolta da applausi convinti al termine di ogni numero.

Bene come sempre il coro di Casoni, note positive dai tre bassi principali: l’ormai venerabile Michele Pertusi, il cui vocione fin troppo cavernoso ha scolpito ancora una volta il personaggio del bieco Podestà; il bravissimo Alex Esposito, che è stato un perfetto Villabella (personalmente lo trovo assai migliorato rispetto a prestazioni di qualche tempo fa); e l’ormai collaudatissimo Paolo Bordogna, dalla voce calda e rotonda, un Vingradito di gran classe.

Una (per me) piacevole sorpresa i due giovani protagonisti: soprattutto lei, la Rosa Feola, che ha sfoggiato una voce ben impostata soprattutto nei centri, forse da mettere a punto negli acuti, ma in generale ha proposto una Ninetta interessante. Edgardo Rocha ha una voce sottile, ma non piccola, che passa benissimo anche i grandi spazi del Piermarini. Sarà presto per parlare di lui come di un nuovo JDF, ma il suo Giannetto mi è parso davvero di tutto rispetto.

Fra i ruoli di contorno, direi più che bene di Teresa Iervolino, una Lucia convincente, dalla voce potente ma morbida e sempre ben impostata. Un gradino sotto metterò la Serena Malfi, voce ancora un poco rozza (ma con lo studio non potrà che migliorare): comunque se l’è cavata dscretamente nel duetto con Ninetta in carcere. Tutti gli altri quattro comprimari han fatto certamente del loro meglio, e vanno associati alla generale approvazione.
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La regìa di Gabriele Salvatores (con il suo team di collaboratori per scene, costumi, luci e coreografie) non sarà certo da premio Oscar, ma mi è parsa efficace e rispettosa di lettera e spirito del melodramma rossiniano. L’impiego della bravissima acrobata Francesca Alberti nel ruolo del titolo mi è sembrato centratissimo e solo un giudizio superficiale lo può apparentare a quello che Damiano Michieletto ha immaginato per la sua Gazza del ROF-2007 (una ragazzina che sogna l’intera vicenda in cui ricopre il ruolo del volatile): come giustamente e acutamente fa osservare Emilio Sala nel suo intervento sul programma di... sala, l’idea di Michieletto trasformava un dramma che ha basi storiche in una specie di favola da Alice nel paese delle meraviglie, uno scenario completamente estraneo all’originale.

Interessante e simpatica anche la presenza delle marionette di Colla e dei suoi valentissimi collaboratori, presenza mai soffocante ma sempre mantenuta su un livello di grande equilibrio e raffinatezza.
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Ecco, concludo dichiarando che personalmente mai e poi mai mi sentirei di sostenere che fosse meglio rinunciare a questa proposta: perchè Rossini è comunque talmente grande da resistere a qualunque agente inquinante. E anche una proposta appena appena onesta (e questa, sia chiaro, è molto, molto di più) è sempre meglio del digiuno e dell’oblio.

16 marzo, 2015

Il turco in… Piemonte

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la terza rappresentazione de Il turco in Italia, in una co-produzione italo-franco-polacca.

Prima di parlare della regìa di Christopher Alden propongo un paio di considerazioni. Innanzitutto siamo in presenza di un soggetto buffo (o tragi-comico) che per sua natura poco si presta a dissacrazioni o stravolgimenti iconoclasti (tipo l’Aida dello stesso regista ambientata in un collegio di religiose…) Anzi, rivisitazioni anche profonde, se fatte con un minimo di gusto, possono arrecarvi valore aggiunto, cosa che mi sento di sottoscrivere per questo allestimento.

Secondo, sarà bene ricordare quale fu la genesi del libretto di Felice Romani (cui senza dubbio mise le mani lo stesso compositore), cominciando col dire che esso fu scopiazzato da quello che Caterino Mazzolà aveva scritto per Il Turco in Italia di F.J.Seydelman rappresentato a Dresda nel 1788 e replicato nel 1789 a Vienna, dove assai verosimilmente fu visto dalla coppia Mozart-DaPonte. I quali altrettanto assai verosimilmente si ispirarono a quel testo, e in particolare alla figura del poeta Prosdocimo, per mettere in piedi la loro Così fan tutte, protagonista il filosofo DonAlfonso. Dopodichè, con modalità perfettamente reciproche, accadde che nel 1814 la coppia Rossini-Romani, che stazionava a Milano per il suo Turco, assai verosimilmente potè assistere ad una rappresentazione alla Scala - indovina indovinello? – proprio del mozartiano-dapontiano Così!

Insomma, fra i tre testi (i due Turchi e il Così) ci dev’essere stata più di un’influenza. Nel merito va riconosciuto che il libretto di DaPonte supera ampiamente per profondità quello – pure intelligente – di Romani. E lo fa proprio sul terreno del confronto fra le due personalità di DonAlfonso e di Prosdocimo. Il primo (che non per nulla è un filosofo…) si impone al centro della vicenda, determinandone ogni svolgimento, anche nei minimi dettagli: il suo assunto (di natura tipicamente scettica) viene alla fine dimostrato proprio a spese delle due coppie protagoniste, ma tutto sommato anche a loro vantaggio (ammesso che siano capaci in futuro di trarre partito dalla morale della favola). Viceversa il Prosdocimo di Romani è per gran parte dell’opera niente più che un agente passivo degli avvenimenti, nei quali cerca disperatamente di scovare un soggetto per un suo nuovo dramma teatrale. E soltanto dopo averlo trovato decide di pilotarne la conclusione reale secondo le proprie convinzioni etiche, che non sono affatto quelle del dapontiano Così! Essendo esse quanto di più reazionario si possa concepire, con la tremenda (davvero tragica) punizione di Fiorilla, costretta ad una resa senza condizioni alle ipocrite e antifemministe regole della società, che lei così spavaldamente e velleitariamente aveva preteso di infrangere. E – per quanto riguarda i turchi (Selim e Zaida) – comportando un atteggiamento del tipo: tornatevene a casa vostra e non venite qui a rubarci le mogli (Selim) e a fare i rom (Zaida). Proprio un Salvini ante-litteram!!!   

Quindi: una distanza davvero abissale rispetto al messaggio dapontiano-mozartiano.
 
Ecco, fatta questa necessaria premessa, possiamo adesso avvicinarci alla vision che Alden ha posto alla base del suo allestimento dell’opera. Il controverso regista americano fa ruotare l’intera vicenda attorno alla figura di Prosdocimo, trasformandolo appunto nel DonAlfonso di DaPonte-Mozart, motore unico e dominus dell’azione.

L’idea ha comportato qualche disallineamento rispetto al libretto, inevitabile quando si inverte letteralmente il nesso causa-effetto tra un fatto reale e il comportamento dell’osservatore. In sostanza, ci vengono presentati come effetti del copione scritto dal Poeta fatti e notizie che viceversa, nell’originale, sono cause che determinano i contenuti di tale copione. Faccio un esempio infimo, ma significativo: nel libretto di Romani Prosdocimo scopre, informato da Geronio, l’identità del turco che, appena sbarcato, ha già invaso la casa di Fiorilla e dello stesso Geronio; ecco, Alden ribalta la circostanza, mostrandoci Prosdocimo che informa di ciò Geronio, passandogli da leggere un foglio del suo copione.

Un altro riferimento (non certo originale) riscontrabile nella regìa di Alden riguarda Pirandello (i Sei personaggi in cerca d’autore): che si materializza quando alcuni interpreti dell’opera rifiutano il copione propostogli da Prosdocimo e se lo scrivono come pare e piace a loro.

In ogni caso si tratta, a mio parere, di scompensi del tutto sopportabili, un modesto prezzo da pagare ad una visione del soggetto dell’opera che ne valorizza la freschezza e ne facilita la godibilità, sfruttando poi l’efficacia e i colori di scene, luci e costumi, e soprattutto la bravura di tutti gli interpreti (coristi inclusi) nel muoversi per realizzare al meglio le idee del regista.
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Sul fronte musicale, va detto che l’opera è stata eseguita nella sua interezza (il che significa tre ore nette di spettacolo, equamente distribuite nei due atti) recitativi inclusi; anzi, di più, essendo state eseguite anche quelle parti (solitamente espunte) che vengono catalogate come varianti: nell’atto I l’aria di Narciso Un vago sembiante, seguita dal recitativo Di Fiorilla il carattere; e soprattutto l’aria dell’atto II (Se ho da dirla) che mette a dura prova le capacità scioglilinguistiche del Geronio di turno.

Daniele Rustioni, sempre col sorriso sulle labbra, mi è parso dirigere con sufficiente autorevolezza, cura del dettaglio e attenzione a non coprire le voci, evitando eccessivi fracassi. L’orchestra lo ha seguito diligentemente, suono sempre chiaro e pulito. Al fortepiano era Luca Brancaleon, che si è sobbarcato la gran mole dei recitativi, come detto assolutamente non tagliati.

Quanto alle voci, direi bene del terzetto dei basso-buffo: a partire da Paolo Bordogna, un Geronio efficace e bravo a non trasformare i velocissimi scioglilingua (non solo quello del second’atto) in incomprensibili grammelot; poi Simone del Savio, un convincente Prosdocimo; infine Carlo Lepore, che ha efficacemente interpretato la figura del Turco.

Decisamente meno bene i due tenori: persistendo il forfait dell’influenzato Siragusa, Narciso era ancora una volta Edgardo Rocha, che ha mostrato tutti i limiti della sua voce, piccola ma anche sgradevole e poco impostata; appena un filino-filino meglio Enrico Iviglia nei panni di Albazar.

Sul fronte femminile, accettabile la prova di Nino Machaidze come Fiorilla: però non basta staccare gli acuti, RE inclusi, per meritarsi l’eccellenza: la voce è penetrante nell’ottava alta, ma sempre con timbro metallizzato, e ha volume scarso nella prima ottava; posso dire solo, per quel che conta, che l’ho trovata un filino migliorata rispetto all’ultima sua esibizione che mi è capitato di seguire dal vivo circa un anno fa. Samantha Korbey non mi ha proprio convinto, voce piccola, anonima e poco passante.

Bene come sempre il coro di Claudio Fenoglio, eccellente anche nei movimenti da avanspettacolo richiestigli da Alden. 

Calorosa accoglienza per tutti in un teatro ancora una volta affollatissimo.

21 agosto, 2014

ROF XXXV live: Barbiere


Quarta ed ultima recita, ieri sera al Teatro Rossini (non proprio esaurito, ma illustrato dall’imponente presenza in sala di Jessica Pratt) del Barbiere di Siviglia, riproposto quest’anno in forma semi-scenica al posto della preventivata L’inganno felice. In pratica, una edizione aggiornata e un po’ più scenica di quella del 2011, dove Alberto Zedda aveva presentato la sua ultima edizione critica dell’Opera.

L’Accademia di Belle Arti di Urbino ha curato (praticamente a-gratis, a quanto pare) la realizzazione dello spettacolo, impegnandovi uno stuolo di allievi e docenti. Spettacolo godibile e simpatico, ricco di trovate interessanti e mai volgari, a dimostrazione che – applicando intelligenza ed entusiasmo – si possono ottenere buoni risultati anche senza tirare in ballo altisonanti (e altoremunerati…) nomi di registi. La scena in effetti c’è (orchestra regolarmente in buca) anche se ridotta al minimo; poi molte parti dello spettacolo hanno sede in platea o in alcuni palchi (ma questa non è certo una novità, il teatro di regìa ci ha abituato a questa prassi) anche se sono prevalentemente occupate da recitativi, quindi disturbano poco la musica; mimi e figuranti si aggiungono agli interpreti per movimentare l’azione, ma senza mai essere eccessivamente invadenti. Insomma, un risultato interessante e un esperimento riuscito, che magari merita di essere ripetuto.
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Sistro: chi era costui? E che c’entra col Barbiere di Rossini? Bene, lo si incontra per la prima volta quando l’orchestra attacca la cavatina d’esordio (Ecco ridente in cielo) di Lindoro; poi torna corposamente anche nel finale dell’atto primo (Mi par d’esser con la testa in un’orrida fucina) e infine accompagna il quintetto dell’atto secondo, a partire dall’imprecazione di Bartolo (Di rabbia, di sdegno):


Dalla notazione della partitura a stampa (questa è una riproduzione della Dover, presumibilmente basata sulla vecchia edizione critica di Zedda del 1969) si desume essere uno strumento a suono indeterminato. Strumento pare in uso fin dall’antichità (i soliti egizi…) probabilmente assimilabile ad una sonagliera, costituita da sbarrette metalliche con anelli infilati che produceva suono per scuotimento. Ma la cosa non è così semplice: intanto nelle esecuzioni moderne viene solitamente impiegato in sua vece il triangolo o magari il glockenspiel; poi nel manoscritto originale di Rossini la parte è notata in modo apparentemente strano: in posizioni diverse del rigo (come si trattasse di strumento a suono determinato) e con le stanghette a volte in alto a volte in basso.

Una quindicina d’anni fa il Maestro Simone Fermani ha compiuto su questo strumento delle ricerche e sperimentazioni (che ha riassunto in un articolo comparso nel 2006 sul Bollettino della Fondazione Rossini) arrivando addirittura a progettare e far costruire un modello di sistro rispondente (secondo lui) alle esigenze esecutive del compositore:

     
Come si vede, è un particolare triangolo sui cui due lati sono infilati degli anelli che, per scuotimento verticale, producono due suoni diversi: uno acuto e uno grave, corrispondenti (secondo Fermani) alla notazione rossiniana originale (con stanghetta in alto o in basso).

Orbene, dopo tutto questo tormentone vi chiederete: ma per questo Barbiere, che strumento è stato impiegato? Ecco, una delusione: un normalissimo triangolo (smile!
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Venendo a più seri argomenti… la prestazione dei musicisti mi è parsa di livello onorevole (confermando l’impressione avuta via-etere lo scorso lunedi). Devo dire che al pubblico deve essere parsa eccezionale, a giudicare dal calore di applausi, anche a scena aperta, e di bravo! che hanno accolto indistintamente tutti i protagonisti.

Spendo innanzitutto una parola per il Coro (maschile) SanCarlo di Pesaro di Salvatore Francavilla: sarà pure di natura amatoriale, ma insomma, la sua parte l’ha fatta più che dignitosamente. Bravi! Poi una particolare menzione per Carmen Santoro (al fortepiano per i recitativi) e una specialissima per il chitarrista che accompagnava Lindoro nelle sue esternazioni a Rosina (in buca, fra le viole, per la serenata e in scena per la canzone), Eugenio Della Chiara: il quale è un pesarese emigrato a Milano (dove ha studiato chitarra al Conservatorio) che insieme al prof. Reggiani dell’Università Cattolica collabora con laVerdi nella stesura dei programmi di sala e partecipando spesso alle conferenze introduttive ai concerti.

Giacomo Sagripanti (che ha diretto senza tenere la partitura sotto il naso) ha pure confermato le sue buone doti di concertatore, gestendo in modo assai equilibrato le risorse strumentali e tenendo sempre bene in pugno quelle vocali. L’orchestra ha risposto discretamente, anche se non sono mancate alcune incertezze qua e là.

Juan Francisco Gatell, alle mie orecchie perlomeno, ha confermato ciò che di buono era arrivato via-radio: vocina piccola ma penetrante e adatta al ruolo.

Chiara Amarù, dopo una partenza piuttosto incerta nella sua famosa cavatina, è stata un’apprezzabile Rosina, encomiabile anche sotto l’aspetto della… ricerca dei virtuosismi dove l’interprete (in opere come queste, mica certo in Wagner!) ha il diritto-dovere di prendere qualche iniziativa: peraltro non sempre le sue soluzioni mi hanno convinto, dal punto di vista, diciamo così, dell’estetica musicale.

Il Figaro di Florian Sempey continua a non convincermi appieno: come gigione è un gigante, come baritono… beh, dico che deve mangiar polenta ancora parecchio (smile!)

Alex Esposito è anche lui un Basilio scenicamente efficace, mentre lascia un pochino a desiderare nel canto; forse per evitare i FA acuti si pratica lo sconto di un tono intero sulla sua famosa aria: cantandola in DO anziché in RE (sulle parti degli orchestrali c’è una vistosa quanto inequivocabile freccia orientata verso il basso). La truffa, per così dire, non è certo una sua invenzione (ha illustri precedenti nella tradizione) e vede come complice Don Bartolo che, nel recitativo che precede immediatamente La calunnia, dopo il LA con cui Basilio ha chiuso la frase noi lo farem sloggiar da queste mura, invece di rispondere (E voi credete?) partendo dal SOL#, lo fa partendo dal FA#:


Da qui in poi le restanti 10 battute del recitativo sono abbassate di un tono, il che prepara il DO dell’aria che segue, al termine della quale Basilio riprende, senza dar troppo nell’orecchio, dal LA del successivo recitativo (Ah che ne dite).

E a proposito di Bartolo, soddisfacente per me la prestazione di Paolo Bordogna, che ha coniugato la robustezza della voce con la velocità folle degli scioglilingua che caratterizzano la sua aria principale (A un dottor della mia sorte) riuscendo a non… incespicare né a mangiarsi troppe note.

Felicia Bongiovanni ha onorato il ruolo di Berta spiccando nei concertati e proponendo dignitosamente la sua aria del vecchiotto. Onesta la prestazione di Andrea Vincenzo Bonsignore (Fiorello e Ufficiale).

Il maggiordomo Ambrogio era Alberto Pancrazi, che ha occupato la scena con la sua presenza... ingombrante (smile!) ma sempre impeccabile, pur senza mai cantare una sillaba.
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Alla fine, come detto, trionfo per tutti.