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29 gennaio, 2023

La Scala celebra i Vespri d’oggi.

Tornano alla Scala dopo più di 30 anni i Vespri… modernizzati. Nel senso che il soggetto messo in scena (oggi dal visionario Hugo De Ana) è un’attualizzazione plausibile – a livello concettuale – del testo originale di Scribe con la conseguente musica del Giuseppe.

Cioè ci vediamo due ben distinte parti in causa: un regime invasore/oppressore (rappresentato da tale Monforte) e un popolo ribelle/resistente (guidato da tale Procida). Quindi, per stare alle più attuali delle attualità: Russia-Ukraina, oppure Ayatollah-popolo, o anche Turchia-Kurdi, Talebani-popolo e così via elencando piacevolezze simili disseminate sull’intero pianeta. Pertanto nessuno si scandalizzi se in scena si vedono i Leopard e le squadre speciali antisommossa: mutatis-mutandis, è sempre l’eterno scenario che si ripete, nel 2023 come 741 anni addietro.

Nulla a che vedere perciò – tanto per citare un clamoroso caso contrario, cioè di assoluta inconsistenza fra l’attualizzazione registica e il soggetto originale – con la visione lunatica presentataci da Livermore a Torino nel 2011 in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.

Tuttavia il regista argentino si è beccato una nutrita salva di buh all’uscita finale, il che dimostra che il non stravolgimento dei contenuti del soggetto originale non sia condizione sufficiente a garantire il successo della messinscena.

Di cui probabilmente il pubblico (e il sottoscritto fra questi) non ha gradito l’eccessiva insistenza sugli aspetti crudi, cruenti e nichilisti della repressione e delle umiliazioni che il potere infligge al popolo vessato. Insomma, nel Vespri di Scribe-Verdi ci sono anche squarci di luce e di serenità, che sono dal regista totalmente ignorati. Quindi: cannoni e tank fin dall’inizio, poi scene di continua desolazione: Procida approda sui resti di una battaglia, non in una ridente valle, con colline fiorite di cedri e aranci; sulle note della barcarola vediamo (in luogo di donne adagiate su molli cuscini sul battello) donne a terra prive di sensi (forse stuprate dai biechi invasori?); e il carcere dell’atto IV nulla ha da invidiare a Guantanamo

E sempre incombe in scena la morte: quella del Settimo sigillo! Che fin dall’inizio gioca a scacchi con il soldato crociato: ??? Si, vabbe’, Federico II era stato alla quinta crociata 60 anni prima del Vespri… o il regista aveva in mente qualche altro nesso con il soggetto da rappresentare?

Ecco, a questo punto si può inserire il discorso sui balletti. A parte quella sulla lingua (in Italia ormai è raro - e forse avrebbe poco senso - dare l’opera in quella originale francese) la domanda che sempre ci si pone di fronte all’annuncio della messa in scena di Vespri è proprio questa: ma i balletti? Ebbene, proprio nella precedente comparsa al Piermarini (Muti, 1989, con Pizzi) vennero tutti eseguiti, mentre oggi si è deciso per il no. Quindi: niente Quattro Stagioni (Atto III, Scena V) e niente Sposalizio (Atto V, Scena I).  Resta un minimo di coreografia per la sola Scena VI dell’Atto II, il ratto delle siciliane da parte della soldataglia francese aizzata da Procida.

Di sicuro c’è che, con la regìa di De Ana, le danze (35 minuti di grande musica!) ci sarebbero state come i cavoli a merenda, quindi viene spontanea la domanda sul nesso causa-effetto fra messinscena e balletti: è la rinuncia preventiva del Teatro a presentarli (causa) ad avere consentito a De Ana questa messinscena (effetto) o è l’impostazione registica (causa) che ha imposto al Teatro di rinunciare ai balletti (effetto)? Si accettano scommesse in merito…
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Molto meglio le cose sono andate per fortuna sul piano musicale, grazie alla perizia del concertatore: Fabio Luisi ha dato, fin dall’impeccabile esecuzione della grande Sinfonia, una lettura convincente della partitura verdiana, cogliendone sia la tinta generale che i minimi dettagli e sfumature. Massima precisione nel gestire il palco, con attacchi a voci e coro sempre precisi e con dosaggi delle dinamiche che mai hanno penalizzato le voci.

Dati i giusti meriti, ma è quasi scontato, al Coro di Malazzi, va elogiato in blocco il cast delle voci: a cominciare da quelle dei due personaggi rappresentativi delle due parti in causa: Luca Micheletti, un Monforte di grande spessore, nei suoi atteggiamenti da dittatore come in quelli del padre che inopinatamente ritrova il figlio perduto; e Simon Lim (cresciuto in passato all’Accademia scaligera) che è stato un Procida tanto più meritevole in quanto arrivato sulla scena quasi all’ultimo momento.

Piero Pretti è un convincente Arrigo, voce squillante, acuti ben tenuti ed efficace resa di questo tormentato personaggio, vittima del… destino cinico e baro.

Vengo ora alla Elena di Marina Rebeka: tutto bene per lei fino alla seconda scena dall’atto IV (il duetto con Arrigo, dopo la scoperta dell’identità dell’amato, al termine del quale ha avuto un meritato applauso a scena aperta). Poi il patatrac: alla fine della Siciliana (che poi sarebbe una… Polacca) dell’atto conclusivo, una sonora salva di buh dal secondo loggione si è mescolata ai prevalenti applausi del resto del pubblico! Per me, davvero incomprensibile. E le contestazioni, più o meno isolate, sono poi proseguite alle diverse uscite finali. Mah…

Bene tutte le altre voci maschili (bassi e tenori) che hanno dignitosamente e meritoriamente dato il loro contributo al successo della parte musicale dello spettacolo.

20 maggio, 2019

Il Bellini desueto all’OF


Firenze ha ospitato in settimana (ieri ultima delle tre recite in cartellone) il suo nuovo allestmento della quarta opera di Vincenzo Bellini, La straniera. La prima è stata trasmessa sia da Radio3 che da RAI5 e ciò ha consentito e consente di fare una sommaria conoscenza con questa produzione, affidata alla bacchetta di Fabio Luisi e alla regìa del neofita (nell’opera lirica) Mateo Zoni.

La versione presentata è la prima, del 1829 - come ricostruita nella più recente edizione critica, di Marco Uvietta - più sobria e stringata di quella del 1830 (cosidddetta versione Rubini poichè riveduta e corretta per il famoso tenore).

È questo un Bellini arrivato, dopo soli 4 anni, già quasi a metà strada della sua vita artistica (che si chiuderà con quella biologica nel 1835) e l’opera segna proprio il punto di svolta nel suo percorso evolutivo, proteso a distanziarsi dall’imperante Rossini e a porre le basi (in una con Donizetti) del melodramma romantico, che Verdi poi svilupperà da par suo. Credo che parlare di grande capolavoro sia francamente eccessivo, ancora vi si notano segni di immaturità, passaggi poco ispirati e cadute di tensione; ma i lati positivi abbondano, a partire dalla qualità delle melodie, che prefigura ciò che arriverà poi con Capuleti, Sonnambula, Norma e Puritani. Insomma, un titolo del quale si fatica a spiegare l’assenza dal repertorio dei principali teatri (qui a Firenze non si rappresentava dal 1830!)

Come spesso accade, il soggetto (dovuto al pur grande Felice Romani che lo mutuò a sua volta dall'abate Prévost) è di quelli che si fanno baffo della plausibilità (per non dire di peggio) e l’unico pregio del testo (qui Romani è peraltro da elogiare) è di fare adeguatamente da supporto per la musica di Bellini. In estrema sintesi: una specie di Donna del lago con finale tragico.

L’allestimento di Mateo Zoni porta l’ambientazione dal 1300 all’X300, un medioevo in un improbabile futuro: la scena di Tonino Zera e Renzo Bellanca è sostanzialmente vuota, con poche strutture verticali e uno stilizzato gazebo a far da capanna di Alaide; il tutto di sapore metallico e freddo, come il regista forse immagina l’inesistente lago di Montolino. I costumi di Stefano Ciammitti sono un pot-pourri di stili e di fogge, appariscenti e a volte ridicoli, come le maschere a grata  che velano il volto delle donne e l’abbigliamento della protagonista che, dovendo richiamare la vita un po’ selvaggia dell’ex-regina, è un riciclo di un costume di Papageno di un qualche vecchio Flauto magico (e meno male che la gabbietta dei volatili è andata persa...) Poco efficaci e di impiego scolastico anche le luci di Daniele Cipri.

Quanto a movimenti di singoli e masse, siamo alla più vetusta tradizione: coro che entra, se ne sta immobile sul fondo, poi esce alla chetichella; protagonisti che tendenzialmente parlano al pubblico e mai fra di loro... Del trattamento che questo medioevo riserva alla donna fa fede l’ottava scena del primo atto: Campo ai veltri cantano Osburgo e coro, visto che sta per iniziare una caccia al cervo; e in effetti due animali tenuti al guinzaglio attraversano il palco: ecco, sono due ragazze che camminano carponi!

Insomma, una cosa fra il velleitario e l’insulso, che ancora una volta fa concludere che una rappresentazione in forma di concerto avrebbe dato risultati migliori.
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Sul fronte dei suoni le cose sono andate un filino (ma proprio un filino) meglio, grazie a Fabio Luisi: lui si dice innamorato di quest’opera e cerca di farne emergere i lati interessanti e innovativi; senza però riuscire a renderci digeribili quelli meno ispirati: insomma, una direzione onesta e dignitosa, ma non trascendentale.

Salome Jicia fu sparata sulla scena del ROF nell’agosto 2016 (quando era appena trentenne) nell’impervia parte di Elena (un’altra e ben più famosa Donna del lago, appunto) e poi tornò ancora a Pesaro come Dorliska e nello Stabat del 2017. Avendola sentita in tutte queste occasioni mi sento di affermare che in tre anni scarsi la georgiana di progressi ne ha fatti parecchi, migliorando la qualità degli acuti e la penetrazione della sua voce nelle note gravi (anche se qui mi pare di aver colto un paio di frasette furbescamente innalzate all’ottava superiore...) Ma in sostanza lei ha retto bene l’impegno e giustamente è stata la più applaudita alla fine.

Più che discreta la prestazone di un’altra giovane, la trentenne Laura Verrecchia, che ha impersonato la povera Isoletta mettendo in mostra una voce rotonda e ben proiettata, oltre che una buona caratterizzazone psicologica di questo personaggio assai sfigato.

Decisamente sotto il livello delle signore le prestazioni dei maschi: l’Arturo di Dario Schmunck è piuttosto incolore (chissà, forse gli riuscirebbe meglio la versione-Rubini!) e appena meglio risulta essere Serban Vasile in Valdeburgo. I due non entusiasmano comunque nei loro incontri-scontri, che dovrebbero essere fra i momenti più pregnanti dell’opera.

Le altre tre voci maschili (tutte provenienti dall’Accademia del Teatro) su un livello di onesta sufficienza: il Priore di Adriano Gramigni non spicca per autorevolezza (parlo della voce, cavernosa e ingolata, e non della svettante presenza scenica); Dave Monaco è un Osburgo piuttosto opaco (in tutti i sensi) e Shuxin Li è un Montolino anonimo, proprio come il Priore: imponenza scenica, ma canto da migliorare assai.

Più che buona la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che nell’opera riveste un ruolo di primo piano, spesso a supporto dialogante con i protagonisti.
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Che dire, in conclusione? Che questa riapparizione dell’opera a Firenze dopo 189 anni forse meritava qualcosina di più? Ieri per la verità l’accoglienza è stata abbastanza calorosa, da parte di un pubblico assai folto e soprattutto (cosa che fa un gran piacere) imbottito di frotte di giovani e giovanissimi!

03 maggio, 2018

Dante-D’Annunzio secondo Zandonai alla Scala



La Francesca da Rimini è arrivata ieri a 2/3 (6 delle 9 recite) del suo cammino, in questo ritorno alla Scala dopo solo 59 anni (!) Piermarini piuttosto depresso (parlo delle praterie in platea e palchi) e pure freddino (come il clima esterno, del resto).

Opera bella e interessante (però, attenzione, il termine capolavoro riserviamolo ad altre...) che mertiterebbe maggior attenzione da parte dei teatri, musica che raccoglie l’eredità dell’800, aprendosi contemporaneamente al nuovo: Debussy, Strauss, Ravel e ovviamente Wagner, ma anche la seconda scuola di Vienna, occhieggiano da ogni lato.

Zandonai, se osserviamo la sua partitura, ci pare quasi voler assumere un atteggiamento didascalico riguardo all’impiego della tavolozza dei suoni. Ecco che scopriamo lunghi passaggi privi (salvo che per clarinetti e corno inglese) di accidenti in chiave (quelli che da sempre implicano e indicano una precisa tonalità di riferimento) e altri passaggi per i quali il compositore ha esplicitamente usato quei tradizionali accidenti.

Si può grossolanamente affermare che i passaggi del primo tipo siano quelli più prosaici, o caratterizzati da crudo realismo o situazioni drammatiche (esempi tipici: la battaglia del second’atto, il primo quadro del quarto, il finale tragico) mentre quelli del secondo tipo attengano alle oasi di serenità, di atmosfere elegiache e - manco a dirlo - di trasporto amoroso fra i due protagonisti. E val la pena, questi, di elencarli: dapprima il Largo, calmissimo che chiude il primo atto (con la viola pomposa, il piffero e il liuto a creare la mirabile atmosfera sospesa dall’innamoramento) dove troviamo i due diesis del RE maggiore; la prima scena (Francesca e ancelle) e la seconda parte della terza scena (arriva la primavera!) del terz’atto (un diesis per il SOL prevalente); sempre nel terz’atto la parte centrale della quarta scena (i primi approcci dei due amanti, REb maggiore); e la chiusura dell’atto (la lettura galeotta, Largo molto, SI maggiore); nel secondo quadro dell’atto conclusivo ecco il RE minore della prima scena (le donne di Francesca che ne vegliano il sonno); poi la seconda parte della seconda scena (Francesca e Biancofiore, SOL minore); ancora RE minore per la chiusa di detta scena; infine ecco il Largo molto, nel celestiale MI maggiore (Ti trarrò dov’è l’oblio) della suprema esaltazione amorosa, prima del tragico epilogo.     

Insomma, possiamo arguire che per Zandonai la musica moderna si attagliasse meglio ad evocare atmosfere non troppo elevate, o cupe se non truci, mentre quella antica fosse la più adatta a supportare le situazioni più nobili e i momenti più idilliaci!
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Fabio Luisi ha diretto senza infamia (beh, qualche ululato alla fine lo ha avuto) e senza lode, con una certa monotonia di approccio, senza particolari slanci che la partitura pur contemplerebbe. L’Orchestra su standard accettabili, ma credo che questa sia una partitura facile, il che significa difficile da valorizzare adeguatamente. Sempre grande il coro di Casoni, meritatamente ovazionato al termine del suo impegno (fine atto secondo).

Cast dignitoso, con Maria José Siri in bella evidenza, pur con qualche menda nelle note gravi, compensata da una pregevole presenza scenica. Bene anche lo sciancato Gabriele Viviani, che non ha trasformato la protervia del personaggio in protervia canora, al contrario. Con lui il fratellino terribile Luciano Ganci, bella voce squillante e intonata. Non così il fratello rubacuori Marcelo Puente, spesso ingolato e in difficoltà sul fiato. Tutti gli altri li accomuno salomonicamente in una sufficienza ampia.

Come detto, prestazione complessiva non più che dignitosa e - se tanto mi dà tanto - se ci son voluti 59 anni per ricordarsi dello Zandonai targato Olivero-DelMonaco-Gavazzeni, mi sa che ne passeranno il doppio per rispolverare questo di Siri-Puente-Luisi...
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L’allestimento di David Pountney è un minestrone che mescola Dante e D’Annunzio un tanto al kilo... La scena di Leslie Travers ha una base praticamente fissa sulla quale si innestano di volta in volta appendici diverse ma sempre ottenute componendo tubi-innocenti e scale metalliche (perfetta ricostruzione del castello di Gradara, hahaha!) I costumi di Marie-Jeanne Lecca sono indifferentemente medievali e novecenteschi, così come le armi impiegate, che vanno dalle balestre al cannone Bertha, dalle frecce alle machine-pistole...

Un po’ meglio vanno le cose sul piano dei movimenti di singoli e masse, ma in generale mi sembra si tratti di un approccio velleitario e poco rispettoso dell’originale. Non infierisco su alcune trovate cervellotiche, come il giullare fatto secco con un paio di colpi di revolver o il doppio omicidio finale, che avviene... per procura.

Insomma, si poteva fare - oltre che pretendere - assai di meglio. 

17 ottobre, 2013

Torna alla Scala il Don fatale

 

Sì sì, questo è un altro equivoco (come il famoso ah l’amor, l’amor è un dardo): lo so che il fatale non è DonCarlo (come però ho creduto per anni e anni… smile!) ma il fascino della Eboli che – secondo lei, modestia suprema! – la costringe a compiere azioni sconvenienti e sconsiderate. Poi, dopo il suo pentimento, canta a proposito del Don (questo sì, il Carlo!): Sia benedetto il ciel!... Lo salverò!... Però tutto quello che sa fare per salvarlo, nel finale dell’atto III (che spesso è pure tagliato!) è gridargli Va’! fuggi! quando la folla inferocita reclama la testa dell’amato (?! potenza dei libretti d’opera…)

 

Ieri sera alla Scala – con  molti… buchi, andati aumentando di numero ad ogni intervallo, lungo o breve che fosse - seconda recita del Don Carlo nella ripresa dell’edizione 2008-9, quella che fu precisamente fatale all’incolpevole Filianoti e che passò alla storia non certo per la qualità dello spettacolo – che fu passabile, ma nulla più - ma soprattutto per le contestazioni alla prima ambrogina a Daniele Gatti…

 

Del quale Gatti il concertatore Fabio Luisi ha evitato gli arbitrari ripescaggi di brani che Verdi aveva autorevolmente escluso dall’edizione da lui personalmente ed espressamente curata e pubblicata in occasione dell’esecuzione dell’opera alla Scala (10 gennaio 1884): edizione impiegata per le recite di questa stagione.

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A proposito di versioni dell’opera, ne riporto qui l’elenco sintetico ma sufficientemente esaustivo pubblicato (a cura di Enrico M. Ferrando, sulla base dell’edizione critica integrale di Ricordi) sul programma di sala del Regio di Torino, in occasione della produzione dell’opera nella stagione 12-13:

1a) Versione completa, utilizzata per le prime prove del lavoro (include 8 brani, poi eliminati per contenere la durata dell’esecuzione nei limiti rigidamente stabiliti dalle convenzioni dell’Opéra, e manca del balletto, terminato nel febbraio 1867).
1b) Versione della prova generale (comprende ancora tre degli otto brani eliminati alla prima, e include il balletto, completato nel febbraio 1867).
1c) Versione della prima esecuzione (11 marzo 1867).
1d) Versione della seconda esecuzione (13 marzo 1867): in questa versione l’atto IV è abbreviato e termina con la morte di Rodrigo.
1e) Versione in italiano (San Carlo, Napoli, 1872): include varianti al duetto Filippo-Rodrigo (due terzi del quale furono composti ex-novo su un nuovo libretto) e al duetto finale Carlo-Elisabetta.

2) Versione in quattro atti, in italiano (Milano, 1882-1883). È un radicale rimaneggiamento che elimina più di metà della musica originaria (tutto l’atto I, duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo nell’atto II, scena iniziale e balletto nell’atto III, scena Filippo-Elisabetta nell’atto IV, finale dell’atto IV, finale dell’atto V), sostituendola con sette nuovi brani e ricollocando la romanza “Io la vidi” (che Carlo canta nell’atto I della versione parigina) nel Preludio, introduzione e scena del frate (n.1) del nuovo atto I.

3) Versione in cinque atti in italiano (1886). Rispetto alla precedente reintegra l’atto I originale (la romanza di Carlo è ovviamente ricollocata nell’atto I, e viene quindi ripristinato l’inizio dell’atto II).
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Sulla pertinenza, plausibilità, arbitrarietà, abuso… riguardo i contenuti di un’opera come questa da mettere in scena si potrebbe discutere all’infinito. Alla fine però ci si riduce immancabilmente al quesito: vogliamo rispettare le volontà dell’Autore, così come materializzatesi in suoi atti espliciti, o invece ci prendiamo il diritto di costruire noi lo spettacolo, impiegando di volta in volta i pezzi del meccano che più ci piacciono (o che possono fare più cassetta)?

Nel caso del Don, pochi dubbi esistono che le uniche due versioni che Verdi licenziò espressamente dopo averne meticolosamente curato la preparazione siano: a) quella della prima di Parigi (1867, in francese e poi in traduzione italiana) e b) quella della Scala del 1884.

Purtroppo però non ci si ferma qui, poiché anche grandi direttori (vedi Abbado o Pappano, o il Gatti di qualche anno fa) si inventano la loro personale versione del Don, scegliendone una come base e poi infilandoci o togliendoci altri pezzi a loro piacimento. Prendiamo ad esempio il duetto Filippo-Carlo dell’Atto III (che Gatti riscoprì nel 2008): che sia grande musica non si può negare, e Verdi medesimo lo impiegò nel suo Requiem come Lacrymosa; che però il Maestro lo abbia cassato in via definitiva dal Don lo dimostra proprio la versione preparata (con mesi e mesi di lavoro!) per il nuovo allestimento della Scala del 1884 (nel 1868 e 1878 vi si era rappresentata la versione in 5 atti in italiano, ma non senza modifiche). Dove le ragioni del taglio legate alla lunghezza dell’opera (e agli orari dei treni di Parigi…) non reggevano più, visto che la versione in 4 atti recupera una buona mezz’ora rispetto a quella originale del 1867! Invece no, nessuna riapertura: evidentemente il Maestro aveva concluso da tempo – almeno dal 1874, anno di composizione del Requiem e dell’impiego di quel brano del Don come Lacrymosa  - che la drammaturgia della scena, e quindi il suo valore estetico ed artistico venivano seriamente compromessi da quel siparietto in cui tutto un mondo in fermento si deve fermare in surplace per ascoltare l’epinicio che Filippo e Carlo cantano al povero Rodrigo.

Insomma, personalmente mi sento di dire bravo a Luisi anche solo per non aver voluto fare il diverso… In realtà la sua prestazione di ieri ha avuto, per me, altrettante ombre che luci: poiché alla generale correttezza dello stacco dei tempi ha fatto da contraltare una tendenza ad eccessivo fracasso (penso in particolare all’Atto II, ma non solo) con conseguente copertura delle voci. Certo, anche per colpa delle voci, come dirò. Ma il concertatore dovrebbe venire in soccorso, invece di… seppellire.  

Orchestra meglio del solito e Coro di Casoni sui suoi standard.

Mattatore della serata René Pape, che a distanza di 4 anni è stato ancora un Filippo autorevole, commovente e – per giunta – non acconciato come un vecchio rimbambito (a dispetto del suo crin bianco, non dimentichiamo che il RE storico aveva da poco passato i 30!) Non vorrei sbagliare, ma mi pare che nell’aria-madre dell’Atto III non abbia preso bene il suo primo amor… In ogni caso, una prestazione notevole per emissione e sensibilità interpretativa. Per lui trionfo indiscusso.

Con lui abbastanza bene l’altro basso, Štefan Kocán, nei panni del tremendo Inquisitore: cui ha conferito anche quel che di protervo che ben si addice al personaggio. Certo, quando in altre repliche dovrà indossare i panni del Re, sarà bene che trovi il registro appropriato.

Fabio Sartori è un Infante passabile: la voce è un pochino… sporca, squilla poco, anche se ha una potenza tale da sovrastare persino gli eccessi rumoristici di Luisi! Certo, la sua presenza scenica non è proprio delle più accattivanti, e non solo per la circonferenza… pavarottiana del suo adipe (smile!)   

Rodrigo è Massimo Cavalletti, che mi ha favorevolmente impressionato: voce ben impostata e passante, portamento efficace; mi sembra che il 35enne lucchese (ascoltato qui come Ford nel Falstaff di inizio anno) stia continuamente migliorando.

Le due protagoniste femminili hanno funzionato a corrente alternata. Nel senso che le loro voci si sentono quando devono trovarsi nella cosiddetta ottava alta; in quella bassa faticano a farsi udire (e Luisi purtroppo nulla ha fatto per farcele udire). Meglio la Martina Serafin (Elisabetta) che almeno gli acuti li emette con proprietà… mentre Ekaterina Gubanova (Eboli) tende a spararli al limite dello schiamazzo.

Efficace Fernando Rado nella parte non proprio secondaria né banale del Frate. Su standard da minimo sindacale Barbara Lavarian (il Paggio, en-travesti) e Il Conte di Lerma di Carlos Cardoso.

Efficace la prestazione dei sei Deputati fiamminghi: Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli, Federico Sacchi e Luciano Montanaro.

Carlo Bosi e Roberta Salvati (che evidentemente ier sera cantava dal suo camerino…) completano il cast.

Alla fine applausi per tutti e per ciascuno, con punte per Pape e Luisi.
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La regìa di Stéphane Braunschweig è rimasta su per giù quella che era. Ho notato che adesso è meno invasiva la presenza dei due bambinelli a far da controfigura a Carlo&Elisabetta. In particolare ad Atocha, dove il piccolo è relegato in fondo-scena e legato ad un patibolo, anziché sostituirsi (come 5 anni fa) a Posa per la consegna della spada di Carlo al Re.

Un allestimento che non ha fatto e non farà storia, nel bene e nel male. Dove il bene consiste principalmente nel non fare danni all’originale; e di questi tempi, in cui assistiamo a travisamenti e adulterazioni di ogni sorta, è già qualcosa.

In conclusione, un ritorno accettabile: di questi tempi c’è di che accontentarsi.

03 luglio, 2012

La povera Manon della Scala


Je ne suis qu’une pauvre fille, ammette Manon al primo incontro con DesGrieux… e proprio mal messa è stata fin dal suo nascere questa produzione scaligera dell’opera di Massenet. Che ha perso una dopo l‘altra - e in circostanze che stanno fra il comico e il disdicevole – entrambe le primedonne chiamate ad interpretare il personaggio del titolo. Di cui è divenuta forzatamente titolare a tempo pieno colei che avrebbe dovuto fare da riserva, dando solo pochi cambi alle suddette primedonne.

Se a ciò si aggiunge una delle solite regìe un po’ lunatiche (nel senso di… fatte con le natiche, smile!) si ha un’idea della mediocrità (relativamente al sempre più millantato e sempre meno certificabile blasone del Teatro milanese) di questa proposta, che viene peraltro da grandi istituzioni come la ROH, il MET e il Capitole di Tolosa (mal comune, mezzo…) Insomma: uno spettacolo appena appena passabile, e principalmente grazie al carisma di Fabio Luisi.

Ermonela Jaho ha un fisico minuto assai adatto ad impersonare questa sedicenne vulcanica, impulsiva, viziata e irresponsabile (almeno al pari dei familiari che la spediscono in convento da sola, caricandola su una diligenza, smile!) Quanto alla voce non mi è dispiaciuta, specialmente nelle parti più acute, mentre l’ho trovata un po’ opaca nelle note più gravi. In complesso la sua è stata una prestazione onorevole e non è detto che l’essersi ritrovata titolare per tutte le recite, al posto delle blasonate e indisposte colleghe, non le abbia fatto bene.

Il DesGrieux di Matthew Polenzani ha una voce tanto piacevole quanto piccola e perdentesi nell’enorme spazio del Piermarini. Discreto nelle parti più intimistiche della partitura, poco efficace in quelle che richiedono slancio e apertura. Per impersonare un diciottenne, ha un fisico un filino appesantito, ma comunque più appropriato di quello di certi tenori (di ieri e di oggi) che passano il quintale (smile!)       

I comprimari hanno – chi più chi meno - più che altro vociferato le loro parti, nessuno sollevandosi da una generale mediocrità. Un po’ meglio ha fatto il coro di Casoni.

Come detto, l’unica nota veramente positiva di questa produzione è, a mio avviso, la concertazione di Luisi, che ha saputo cavar fuori assai bene tutti i diversi accenti – dall’esuberanza delle scene di massa, agli squarci intimistici e strappalacrime - di questa partitura. E l’orchestra mi è parsa assecondarlo in tutto e per tutto. Non so da cosa siano giustificati i tagli apportati alla musica: se dalla preoccupazione per la durata complessiva, allora una soluzione meno barbara e più… musicale ci sarebbe: accorciare di almeno 10 minuti i due intervalli!

Su una regìa come questa di Laurent Pelly non si possono che avanzare i soliti dubbi. Intanto, la pervicacia con cui ci si accanisce a spostare l’ambientazione di opere come questa - dall’originale, 1721, al tempo in cui l’opera stessa fu composta, 160 anni dopo – è veramente insensata: non aggiunge un’unghia di valore e in compenso butta nel cestino tutti i riferimenti musicali che il compositore così mirabilmente e faticosamente aveva introdotto nella partitura. Il siparietto all’Opera ne è solo un esempio qualunque: sulle note che rimandano al barocco noi vediamo una sceneggiata degna dello squallido mondo dei soci del Jockey-Club, che a fine spettacolo prendono di peso le ballerine e se le caricano in spalla per portarsele evidentemente a letto…

Il quale letto – è noto – fa parte del normale arredamento di una cappella (smile!) Dove Manon, appunto mettendosi a letto, convince l’apprendista-abate DesGrieux a tornare a godere con lei i piaceri dell’alcova… mah!

Una nota critica anche per le scene: già dalla prima galleria (immaginiamo poi dalla seconda) restano completamente tagliate agli occhi dello spettatore le parti superiori della scenografia, dove si dovrebbero vedere panorami cittadini e dove si aggirano, in specie nel primo atto, anche alcuni personaggi: evidentemente i loggionisti non sono la prima preoccupazione del teatro…

Pubblico non oceanico e applausetti di cortesia.

22 maggio, 2012

Fabio Luisi sul podio della Filarmonica


Il successore-in-pectore di James Levine alla guida del MET è stato ieri sera ospite della stagione della Filarmonica, dirigendo un concerto di musiche italiane più… Beethoven!

Ha aperto con una trascrizione di tre brani di Giovanni Gabrieli, fatta da Claudio Ambrosini nel 1998 per Milano Musica e già allora (30 ottobre di quell’anno) eseguita dalla Filarmonica guidata dal dedicatario Riccardo Muti.

Si tratta della Canzon XIII dalle Sacrae Symphoniae (1597), della Canzon I e della Sonata XIX dalle Canzoni et Sonate (1615, postume). L’approccio programmatico di Ambrosini è quello di evocare le melodie rinascimentali di Gabrieli immergendole  in uno scenario sonoro moderno. E tanto per tener fede al proposito, impiega anche un gong immerso in una vaschetta d’acqua (smile!) Oppure fa suonare lo xilofono con le nocche delle dita, o percuotere le corde del pianoforte con bacchette di spugna… insomma, cose che ai tempi di Gabrieli lo avrebbero fatto rinchiudere ai Piombi! C’è di buono che, pur immersa in un magma indecifrabile,  qualche nota di Gabrieli si può ancora ascoltare (ri-smile!)

Dopo questo esordio bizzarro, ecco arrivare il 27enne polacco Rafał Blechacz a proporci il Quarto concerto di Beethoven. Tutt’altra musica (tri-smile!) Il ragazzo ha una tecnica sopraffina che forse, nell’iniziale Allegro moderato, penalizza un poco l’espressività, dando (a me, perlomeno) l’impressione di un’esecuzione un po’… meccanica. In ogni caso dall’Andante in poi le cose migliorano e il resto della prestazione è davvero rimarchevole. Bravo anche Luisi a sostenerlo con un’orchestra mai invadente, ma allo stesso tempo protagonista. Gran successo per il bel Rafał che ringrazia con un paio di bis.  

Dopo l’intervallo si torna in Italia con Paganiniana di Alfredo Casella. Nel 1942 compivano 100 anni i leggendari Wiener (al 28 marzo 1842 risale il primo concerto della Philharmonische Academie, diretto dal fondatore Otto Nicolai). La ricorrenza cadde in un periodo disgraziato, ma a quel momento in Germania e in Italia il clima era euforico e il Patto d’acciaio più che mai saldo. Vienna era la seconda capitale tedesca e Karl Böhm – deciso fautore dell’Anschluss – sarebbe di lì a poco diventato direttore della Staatsoper. Così successe che l’italiano Casella (anche lui assai ben disposto verso il fascismo e i suoi alleati) compose per l’occasione questo divertimento in quattro parti che è ispirato a musiche (capricci e quartetti) del grande genovese. La cui prima fu diretta – per l’appunto - da Karl Böhm.

L’opera si suddivide in quattro sezioni, a partire da un Allegro agitato (Capricci 8-12-16-19) seguito dalla Polachetta (Quartetto n°4), dalla Romanza (Duo inedito violino-clarinetto) per chiudere con la Tarantella (ancora dal Quartetto). Un brano effettivamente di circostanza, in cui però Casella mostra la sua raffinata abilità di orchestratore, senza cadere nelle sesquipedali esagerazioni di Ottorino Respighi.

Del quale ha chiuso il concerto Feste romane, anteriore di 14 anni alla Paganiniana. È il terzo dei poemi sinfonici della triade romana (con Pini e Fontane) dove il nostro scimmiotta – pur con grande maestria, va detto - i Liszt e gli Strauss. In effetti l’orchestra pare quella dell’Alpensinfonie, con una sessantina di archi, sette trombe e percussioni a non finire. Il risultato – ammettiamolo pure – è un filino al di sotto, ma dobbiamo accontentarci.

Il brano ci elenca – con precise didascalie poste in prefazione alla partitura - quattro tipi di passatempo SPQR: dai gladiatori e dai cristiani offerti in pasto a belve fameliche, ai pellegrini che arrivano al Giubileo, alla classica ottobrata, e infine alla Befana. Nel cui conclusivo episodio – come fece nei Pini di Roma, dove introdusse, insieme ad altre filastrocche, la famosa Madama Doré - Respighi non manca di citare uno dei tipici stornelli romaneschi:

che chiude le feste con gran fracasso e fuochi d’artificio. Caos sonoro talmente parossistico, che diventa persino difficile capire se i suonatori (gli ottoni in particolare) hanno eseguito proprio le note giuste, o altre buttate lì a caso (smile!) Nel dubbio, gran trionfo per tutti, e quindi per Luisi un buon viatico in vista della prossima Manon