La Francesca da Rimini è arrivata ieri
a 2/3 (6 delle 9 recite) del suo cammino, in questo ritorno alla Scala dopo
solo 59 anni (!) Piermarini piuttosto depresso (parlo delle praterie in platea
e palchi) e pure freddino (come il clima esterno, del resto).
Opera bella e interessante (però,
attenzione, il termine capolavoro
riserviamolo ad altre...) che mertiterebbe maggior attenzione da parte dei
teatri, musica che raccoglie l’eredità dell’800, aprendosi contemporaneamente
al nuovo: Debussy, Strauss, Ravel e ovviamente Wagner, ma anche la seconda
scuola di Vienna, occhieggiano da ogni lato.
Zandonai, se osserviamo la sua partitura,
ci pare quasi voler assumere un atteggiamento didascalico riguardo all’impiego
della tavolozza dei suoni. Ecco che scopriamo lunghi passaggi privi (salvo che
per clarinetti e corno inglese) di accidenti
in chiave (quelli che da sempre implicano e indicano una precisa tonalità di riferimento) e altri
passaggi per i quali il compositore ha esplicitamente usato quei tradizionali
accidenti.
Si può grossolanamente affermare che i
passaggi del primo tipo siano quelli più prosaici, o caratterizzati da crudo
realismo o situazioni drammatiche (esempi tipici: la battaglia del second’atto,
il primo quadro del quarto, il finale tragico) mentre quelli del secondo tipo
attengano alle oasi di serenità, di atmosfere elegiache e - manco a dirlo - di
trasporto amoroso fra i due protagonisti. E val la pena, questi, di elencarli:
dapprima il Largo, calmissimo che
chiude il primo atto (con la viola
pomposa, il piffero e il liuto a creare la mirabile atmosfera
sospesa dall’innamoramento) dove troviamo i due diesis del RE maggiore; la prima scena (Francesca e ancelle) e la
seconda parte della terza scena (arriva la primavera!) del terz’atto (un diesis per il SOL prevalente); sempre
nel terz’atto la parte centrale della quarta scena (i primi approcci dei due
amanti, REb maggiore); e la chiusura dell’atto (la lettura galeotta, Largo molto, SI maggiore); nel secondo
quadro dell’atto conclusivo ecco il RE minore della prima scena (le donne di
Francesca che ne vegliano il sonno); poi la seconda parte della seconda scena
(Francesca e Biancofiore, SOL minore); ancora RE minore per la chiusa di detta
scena; infine ecco il Largo molto, nel
celestiale MI maggiore (Ti trarrò dov’è
l’oblio) della suprema esaltazione amorosa, prima del tragico epilogo.
Insomma, possiamo arguire che per
Zandonai la musica moderna si
attagliasse meglio ad evocare atmosfere non troppo elevate, o cupe se non truci,
mentre quella antica fosse la più adatta
a supportare le situazioni più nobili e i momenti più idilliaci!
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Fabio
Luisi
ha diretto senza infamia (beh, qualche ululato alla fine lo ha avuto) e senza
lode, con una certa monotonia di approccio, senza particolari slanci che la partitura
pur contemplerebbe. L’Orchestra su standard accettabili, ma credo che questa
sia una partitura facile, il che
significa difficile da valorizzare
adeguatamente. Sempre grande il coro di Casoni,
meritatamente ovazionato al termine del suo impegno (fine atto secondo).
Cast dignitoso, con Maria José Siri in bella evidenza, pur con qualche menda nelle note
gravi, compensata da una pregevole presenza scenica. Bene anche lo sciancato Gabriele Viviani, che non ha trasformato
la protervia del personaggio in protervia canora, al contrario. Con lui il
fratellino terribile Luciano Ganci,
bella voce squillante e intonata. Non così il fratello rubacuori Marcelo Puente, spesso ingolato e in
difficoltà sul fiato. Tutti gli altri li accomuno salomonicamente in una
sufficienza ampia.
Come detto, prestazione complessiva non
più che dignitosa e - se tanto mi dà tanto - se ci son voluti 59 anni per
ricordarsi dello Zandonai targato Olivero-DelMonaco-Gavazzeni,
mi sa che ne passeranno il doppio per rispolverare questo di
Siri-Puente-Luisi...
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L’allestimento di David Pountney è un minestrone che mescola Dante e D’Annunzio un
tanto al kilo... La scena di Leslie
Travers ha una base praticamente fissa sulla quale si innestano di volta in
volta appendici diverse ma sempre ottenute componendo tubi-innocenti e scale
metalliche (perfetta ricostruzione del castello di Gradara, hahaha!) I costumi
di Marie-Jeanne Lecca sono indifferentemente medievali e novecenteschi, così
come le armi impiegate, che vanno dalle balestre al cannone Bertha, dalle
frecce alle machine-pistole...
Un po’ meglio vanno le cose sul piano
dei movimenti di singoli e masse, ma in generale mi sembra si tratti di un
approccio velleitario e poco rispettoso dell’originale. Non infierisco su
alcune trovate cervellotiche, come il giullare fatto secco con un paio di colpi
di revolver o il doppio omicidio finale, che avviene... per procura.
Insomma, si poteva fare - oltre che
pretendere - assai di meglio.
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