ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

30 dicembre, 2023

Capodanno con la Sinfonica di Milano

È lunghissima tradizione per laVerdi che l’appuntamento con l’anno nuovo (quattro concerti fra il 29/12 e l’1/1) abbia come messaggero quell’universale appello che prende il nome di Nona Sinfonia.

Anche quest’anno a dirigerla è il Direttore Emerito Claus Pater Flor, che fece il suo un po’ rocambolesco esordio sul podio dell’Auditorium proprio in occasione di uno storico Capodanno, quello del nuovo millennio.

Prima dell’inizio, a orchestra e coro già schierati, un preludio particolare: Massimiliano Finazzer Flory si è presentato al proscenio per leggere il famoso Testamento di Heiligenstadt, che il Beethoven ormai sulla strada della sordità sempre più grave scrisse nel 1802 ai fratelli, confessando che solo l’amore per l’Arte lo aveva convinto a resistere, vivendo e componendo, alla tentazione di farla finita.

E poi, ecco la Sinfonia che il genio di Bonn potè ascoltare solamente nella sua testa, dove del resto era nata e cresciuta: e nessuno può dire con certezza quanto i segni da lui lasciati sui righi della carta da musica corrispondano a ciò che risuonava nel suo orecchio interiore…

Flor ce l’ha proposta con cipiglio davvero teutonico: un primo movimento austero e cupo; poi uno Scherzo quasi demoniaco, martellante, protervo; lo stupefacente Adagio, commovente come sempre (peccato una macchiolina dovuta ad uno scarto di un corno verso la fine); e poi quell’immenso finale, con gli archi bassi ad introdurlo in modo impeccabile nell’iniziale recitativo.

E infine i solisti (dislocati appropriatamente al proscenio) e il coro di Fiocchi Malaspina, che hanno chiuso trionfalmente la serata. Tutte apprezzabili e da promuovere a pieni voti le voci di Lenneke Ruiten, Theresa Kronthaler, Patrik Reiter (questi ultimi due già positivamente cimentatisi in passato in Auditorium) e Modestas Sedlevičius (gran bella prestazione la sua, a partire dallo stentoreo recitativo di apertura).

Pubblico davvero oceanico che ha tributato applausi e ovazioni a tutti. Quindi un inizio di… fine d’anno più che promettente, che ci trasmette almeno un po’ dell’incrollabile fede di un sommo Artista nella Vita e nell’Uomo. E Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno!  

17 dicembre, 2023

Ruben Jais con laBarocca: Natale = Messiah

Il dimissionario Direttore Generale ed Artistico dell’Orchestra Sinfonica di Milano non ha voluto privare gli appassionati del suo tradizionale appuntamento natalizio con il monumentale Messiah di Händel. Sul palco, ai suoi comandi, l’ensemble strumentale e vocale (Jacopo Facchini, Maestro del Coro) de laBarocca, sua diretta creazione.

Negli anni Jais ha consolidato (apportandovi via via qualche variante) la sua personale struttura dell’oratorio da presentare al suo pubblico: eseguire l’integrale della prima parte così come pubblicata (da Friedrich Chrysander, inizio ‘900) seguito da un unico blocco della seconda e terza parte un pochino sfrondate, in modo da realizzare due sezioni più o meno equivalenti in termini di durata (60’ ciascuna). Ma ieri ha invece proposto l’intero corpus dell’opera (quasi 2h30’ di durata). Qui una mia succinta sinossi dell’opera.

I quattro solisti erano tutti maschietti (! e le quote rosa?!): il tenore Cyril Auvity e il baritono Renato Dolcini (già protagonisti di passate produzioni) cui si sono aggiunti i controtenori Mayaan Licht e Ray Chenez.

Auditorium letteralmente preso d’assalto, a dimostrazione che il barocco – se presentato come si deve – ha tuttora un seguito persino superiore al repertorio classico-romantico!

Successo strepitoso, premiato – come sempre – dalla riproposizione del trionfale Hallelujah!

16 dicembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.6

Il sesto concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano vede sul podio il Wunderkind Thomas Guggeis che dirige un programma fatto tutto (si potrebbe dire) in famiglia.

Siamo infatti a casa Schumann e ci troviamo un frequentatore abituale: Brahms. Entrambi pubblicheranno 4 Sinfonie e il concerto prevede l’esecuzione delle due Terze. Gli esegeti si sono sbizzarriti nel proporre più o meno improbabili similitudini e confronti: uno di questi apparenterebbe le due sinfonie all’Eroica beethoveniana: entrambe hanno i movimenti esterni assai energici, il primo di entrambe è in tempo 3/4 e una di esse ha pure il MIb di impianto…

In realtà sono due sinfonie dal carattere sereno, in modo maggiore (MIb per Schumann, FA per Brahms). Schumann evoca la Natura, sotto le spoglie del più grande fiume romantico, il Reno (nel quale romanticamente si getterà, totalmente uscito di melonera…) e dell’austero gotico della Cattedrale di Colonia; nella sinfonia del secondo la padrona di casa, Clara, dichiarerà di vedere (primo movimento) boschi e foreste con il sole che sorge dietro gli alberi, i boscaioli (secondo movimento) inginocchiati ai piedi di una cappella nel verde, e ancora lo sciacquio del ruscello ed il ronzio degli insetti… (quindi, niente di eroico, ma una Pastorale? Dopo un’altra pastorale, la Seconda?)

Questi due esempi possono farci riflettere sull’eterno problema dell’essenza della musica. Nel caso di Schumann la Sinfonia fu dallo stesso Autore inizialmente arricchita di attributi extra-musicali: un mattino sul grande fiume, l’austera cerimonia in una chiesa… attributi poi ritirati per far posto all’invito all’ascoltatore ad abbandonarsi alle note, solo da esse traendone gratificazione (40 anni dopo il suo epigono – e ri-orchestratore - Mahler cadrà nella stessa trappola). Quanto a Brahms, che nulla lasciò trapelare della sua ispirazione per la Sinfonia, la reazione di Clara è la lampante dimostrazione che i suoni (o certi suoni) possono generare o far emergere dal profondo della psiche umana immagini o sensazioni extra-musicali.

In questo concerto andiamo a ritroso nel tempo, ascoltando per prima la Terza Sinfonia di Brahms (1883). E qui conviene domandarsi il perché di questa sequenza, che oltretutto spiega e giustifica anche il titolo dato al concerto: La Renana.

E la risposta alla domanda sta nelle note Brahms-iane che arrivano quasi subito alle nostre orecchie: sì, perché sono di… Schumann! 

Brahms eleva alla dignità di primo tema dell’esposizione un motivo che Schumann aveva impiegato marginalmente, 33 anni prima, nella ripresa del movimento iniziale della sua Terza: senza dubbio un omaggio al grande amico e sostenitore, ed allo stesso tempo un esplicito riferimento al soggetto extra-musicale che lo aveva ispirato (il Reno fiancheggia proprio il lato sud di Wiesbaden, dove Brahms compose la Sinfonia). 

Ma se si tratta di Reno, come si fa a non citare un convitato di pietra a questo concerto: Richard Wagner, che al grande fiume si ispirò per la sua Commedia renana. Nella quale troviamo almeno tre Leit-Motive basati su una variante (la sesta invece della tonica di partenza) del tema schumanniano: le Figlie del Reno, il Sonno e l’Uccellino del bosco.  

Sarebbe azzardato affermare che Wagner abbia mutuato il suo tema da Schumann: è ben vero che la musica del Ring vede la prima luce almeno un paio d’anni dopo la Renana, ma è difficile immaginare che il Wagner migrante perché inseguito da un mandato di cattura potesse perder tempo a scopiazzare partiture altrui non ancora fresche di stampa…

Invece, a proposito di Wagner, l’esternazione di Clara richiama alla mente il cosiddetto Waldweben (il mormorio della foresta, second’atto del Siegfried) composto 7 anni dopo la Sinfonia del marito e 26 prima di quella dell'amico prediletto! Ed era una indiretta risposta al purista Eduard Hanslick (convinto ammiratore di Brahms, si noti) che negava alla musica qualsivoglia capacità di esprimere (menchemeno di descrivere) alcunchè, al di fuori di se medesima. Ma alla base di ciò vi era un grande equivoco: di certo, senza un testo cantato o almeno ad essa associato dall’esterno (tipo il soggetto di un Poema Sinfonico) la musica da sola nulla può descrivere; ma invece è fuor di dubbio che qualunque musica, indipendentemente da ciò che può averla ispirata, sia in grado di suscitare in noi le più diverse sensazioni, o evocare alla nostra mente immagini, oggetti e persino concetti. 

Dopodichè ciascuno di noi può abbandonarsi a fantasticherie indotte dall’ascolto di un brano musicale, oppure limitarsi a (possibilmente) godere di esso la macro- e la micro-struttura, esclusivamente dal punto di vista estetico. Accade lo stesso alla vista di un dipinto, di cui si può ammirare il contenuto esteriore, oppure il magistero artistico dell’Autore.      

Ecco, nel caso di entrambe le Sinfonie in questione, hanno ragione sia Clara che Hanslick: e il merito è dei due Autori, che hanno saputo costruire le loro opere con tale maestria da consentire a noi fruitori di apprezzarle per ciò che evocano alla nostra mente, oppure per il puro piacere estetico suscitatoci dal loro ascolto.

Le tre battute iniziali della Sinfonia recano altrettanti pesanti accordi di FA-LAb-FA, autentico motto dell’opera, dallo stesso Brahms sintetizzato come FaF, che decodificato sta per Froh aber Frei, felice ma libero. (Oggi magari, in servile omaggio ai nostri nostalgici governanti, potremmo tradurlo: Libero e Giocondo !?!)

Motto che tornerà a più riprese (e spesso quasi in incognito…) nel corso dell’iniziale Allegro con brio e infine, significativamente, a chiudere con procedimento ciclico l’intera Sinfonia, con la mutazione in modo maggiore (FA-LA-FA) cui segue una vera perla di Brahms: il tema schumanniano trasfigurato nei violini:

Che purtroppo si rischia sempre di perdere, essendo suonato in pianissimo contro il piano dei corposi accordi dei fiati…
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Ed ecco la Renana, come ormai si chiamerà nei secoli, a dispetto del disconoscimento del nick da parte del suo Autore. L’avevamo ascoltata e apprezzata qui – proprio nell’orchestrazione di Mahler - poche settimane orsono, interpretata dall’ensemble Spira Mirabilis; ieri è risuonata ancora in tutto il suo splendore, una vera gioia per l’orecchio e per… l’anima!
È costruita sul modello (variato) della Pastorale beethoveniana: cinque movimenti, con lo Scherzo avanzato in seconda posizione e un (insolito) quarto movimento di carattere severo, prima del radioso finale. Un modello che il suo epigono Mahler impiegherà per tre (più una… o due…) delle sue nove (dieci...) sinfonie. (Poi anche Édouard Lalo baserà sulla stessa struttura, incluso il quarto movimento serioso, la sua Symphonie Espagnole.)
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Orchestra in grande spolvero, in primis la retroguardia dei fiati, qui messi davvero a dura prova e giustamente lodati dal Direttore al termine di ciascuno dei due brani.

E, appunto, Guggeis? Ormai non c’è più nulla da scoprire, solo da apprezzare. Anche ieri ha confermato le sue doti (innate, penso proprio) di interprete raffinato. Innanzitutto, in Brahms, la stringatezza ed essenzialità (tempi e dinamiche) che nulla ha concesso a divagazioni o facili libertà. In Schumann invece un sapiente uso del rubato e di piccole variazioni agogiche sempre impiegate con equilibrio e misura.

Il suo gesto, a volte fin troppo appariscente, altre assai secco e imperioso, può far nascere qualche riserva, ma complessivamente le due prestazioni mi son parse di grande livello e proprio da incorniciare.

E così pare averla pensata anche il pubblico (di un Auditorium non affollatissimo, per la verità) che non ha lesinato ovazioni ed applausi ritmati al Direttore. Il quale, da parte sua, si è modestamente limitato a due sole uscite alla fine dei due brani in programma.  

10 dicembre, 2023

Un DonCarlo d’antan

Oggi pomeriggio un'affollatissima Scala ha ospitato la prima (per gli abbonati) di un vecchio DonCarlo (non scaligero): quello del venerato HvK degli anni’80 (!)

Per carità, questo potrebbe anche essere un complimento (quindi riprendere Abbado-Ponnelle del 1968 sarebbe stato altrettanto plausibile): sempre meglio di qualche ardita attualizzazione che trasponga Filippo II in Juan Carlos I, Don Carlo in Felipe VI, Rodrigo in Carles Puidgemont e l’Inquisitore in Santiago Abascal!

Insomma: siamo proprio nella Spagna del 1560, come ci ricordano anche gli appropriati costumi della Squarciapino, e quindi niente armi automatiche, smartphone e lunghi cappottoni in pelle made-in-DDRE del resto, un testo dove un ragazzo ingenuo di 15 anni chiama madre una sbarbata di soli tre mesi più matura (!) che a sua volta lo chiama figlio, st-riderebbe assai con ambientazioni anche di un solo secolo posteriori…

Quanto al lato cosiddetto attoriale dell’interpretazione, trattandosi di attori che conoscono la loro parte come le loro tasche, mi pare che il regista abbia pensato bene (o male, visti i risultati?) di fidarsi di loro, piuttosto che imporgli posture, atteggiamenti e moine assortite, magari non condivise.

Quindi mi sento di dire: accontentiamoci di questo prudente (pavido?) e conservativo allestimento. 
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Questa musica, in fin dei conti, si fruisce con mente e cuore (e udito, va da sé) più che con la vista. Ebbene, ciò che le mie orecchie hanno udito oggi mi porta a dare un generale voto di ampia sufficienza (ben lontana da un 30cumLaude) che ora cercherò di declinare in maggior dettaglio. Adottando un approccio top-down (dal generale al particolare): quindi partendo dalla concertazione e dal suo responsabile per poi scendere agli interpreti.

Chailly ha – per me – tenuto un approccio (quello che Verdi chiamava la tinta dell’opera) assai cupo e tempi (eccessivamente?) sostenuti. Una direzione che alla prima non era stata unanimemente condivisa, mentre oggi devo dire che ha ricevuto solo consensi. Ma che è del tutto coerente con l’approccio registico, che nulla ha concesso all’esteriorità, come testimonia la soppressione (imposta - sono parole dello stesso Chailly - da Pasqual) dei ballabili de La Pérégrina. Insomma, qui sul francese esprit de finesse ha prevalso l’ispano-italico (e un po’ teutonico) esprit de géometrie!

Il coro di Alberto Malazzi non si smentisce mai e anche oggi ha saputo esprimere al massimo tutte le sue potenzialità, sia nei passaggi più cupi (il mortorio iniziale) che in quelli più sfacciatamente estroversi (Atocha) o drammatici (il popolo del terzo e quarto atto).

La coppia di bassi. Un Pertusi gigantesco (la tachipirina evidentemente ha fatto miracoli…) ha messo in ombra (purtroppo per lui) il malcapitato Jongmin Park, subentrato in extremis all’indisposto Anger a sostenere, oltre che quella iniziale del Frate, anche la parte impervia dell’Inquisitore. Il basso coreano ha messo in mostra un gran vocione, ma il suo Inquisitore ha fatto paura come la farebbe un orco affamato, non un Cardinale del Sant’Uffizio!  

La coppia degli sfortunati amanti. Netrebko sontuosa, come sempre, nella voce, un po’ meno nella recitazione (ma non è colpa dei registi, è una sua perdonabile attitudine). Forse fin troppo musicalmente cattiva con la rivale, quasi una Eboli-2-la-vendetta! Ma dopo le Vanità gli applausi son durati un paio di minuti… Meli tutto l’opposto: fin troppo lezioso e remissivo, nemmeno ad Atocha ha tirato fuori le p… (dicasi gli acuti, che il passare degli anni gli divengono sempre più vietati).

La coppia di outsider. Garanča superlativa (per me, nel complesso, la migliore). E non solo per le due perle (Velo e Don) ma sempre, in particolare nel duetto con Meli. Bene Salsi, ma forse non perfettamente a suo agio in una parte più romantica che truce (dove va a nozze...)

Su livelli standard tutti/e gli/le altri/e.

In definitiva, un’inaugurazione assolutamente dignitosa, ma non certo indimenticabile, della quale si continuerà a parlare più che altro per via della provvidenziale presenza (il 7 dicembre) del protagonista fuori-scena: il convitato di pietra Marco Vizzardelli! 

Applausi a scena aperta dopo le arie principali; alla fine applausi e ovazioni per tutti (compreso Pasqual, intrufolatosi furbescamente in mezzo agli altri, così in pochi l’avranno riconosciuto…) con qualche schiamazzo dai loggioni che ha lasciato del tutto indifferente la Digos (!) 

08 dicembre, 2023

Don Carlo in TV


E così è passato pure questo SantAmbrogio. Direi senza infamia (LaRussa e Salvini a parte) e senza lode (regia) e con qualche lode (Garanča).

 

Al loggionista di Viva l’Italia antifascista suggerirei: Ti guarda dal Grande Inquisitor!


02 dicembre, 2023

L’Orchestra Sinfonica Giovanile di Milano con Treviño

Nella giornata libera fra le due repliche del concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Robert Treviño ha trovato il tempo di tornare sul podio dell’Auditorium per dirigere l’Orchestra dei cadetti (under-25, ma con un doveroso 20% di seniores dell’Orchestra principale capeggiati dalla spalla Santaniello…) in un programma di tutto rispetto: Messiaen e Ciajkovski.

Di Olivier Messiaen abbiamo ascoltato un brano del 1930, ispirato al sacrificio (dimenticato dagli uomini) di Gesù Cristo. L’Autore ha premesso in partitura alcuni versi esplicativi:

Messiaen resta saldamente ancorato alla tonalità, caso mai (da fervente cattolico, oltretutto…) retrocede verso il gregoriano, come testimonia la notazione esplicativa – per i soli archi - delle lunghezze dei componenti delle melodie (si tratta di neumi, di medievale ascendenza, appunto) che Messiaen impiega in alcune pagine della partitura, non accontentandosi evidentemente – in assenza di testo sillabato - dei segni di legato sui righi:

Talvolta questa appare quasi una gratuita mania del 22enne compositore, come in questo esempio:

Dove i 5/8 sono notati 2+3 nei fiati e 3+2 negli archi, ai quali però sono affibbiati i neumi 2+3 (?!?)

Il brano (ascoltiamolo qui diretto da Paavo Järvi) è suddiviso (pur senza cesure formali, né numerazioni o sottotitoli, che Messiaen ha indicato in separate esegesi) in tre sezioni, corrispondenti alle tre componenti del programma esplicitato a fronte della partitura e mai sconfessato (al contrario di ciò che ripetutamente accadde, per dire, a Mahler): se osserviamo gli accidenti in chiave, abbiamo MI minore per le prime due sezioni e MI maggiore per l’ultima.

Très lent. Doloureux, profondément triste (34”)

Braccia tese, tristi fino alla morte,
sull'albero della Croce hai versato il tuo sangue.
Tu ci ami, dolce Gesù, lo avevamo dimenticato.

La Croix, lamento degli archi, i cui dolorosi neumi dividono la melodia in gruppi di durata variabile, rotta da lunghi squarci di color malva e dal grigio dei lamenti.

Sono in tutto 13 battute, incluse 2 di transizione alla sezione successiva. Le 11 battute hanno tempi continuamente cangianti, e precisamente (espressi in ottavi): 10-11-9-7-9-10-8-7-11-7-9 e riportano tutte i rispettivi neumi. Ciò rende proprio l’idea delle atroci sofferenze di Cristo sulla Croce. Le restanti 2 battute di transizione sono in 4/4 e 3/4. Protagonisti sono gli archi (contrabbassi esclusi) con il supporto assai discreto di legni, due corni e una tromba.

Vif, féroce, désespéré, haletant) (3’07”) 

Spinti dalla follia e dal pungiglione del serpente,
in una corsa affannosa, frenetica, senza sosta,
siamo scesi nel peccato come in un sepolcro.

Le Péché, una sorta di “corsa verso l’abisso” ad una velocità quasi da mezzo meccanico. Vi si noteranno le forti accentazioni finali, il sibilo degli armonici in glissando, i penetranti richiami delle trombe.

 

È la sezione più corposa del brano, 97 battute, ma il tempo agitato determina una durata analoga a quella della prima sezione. Qui i cambi di tempo fra le battute sono meno frequenti ma sono accompagnati da variazioni agogiche (accelerazioni e rallentamenti). Le ultime 4 battute sono in tempo moderato (4/4) e preparano l’atmosfera della sezione finale. L’orchestra qui è impegnata al massimo e a pieno organico, con frequenti e brusche variazioni dinamiche.

Extrêmement lent, avec une grande pitié et un grand amour (6’11”) 

Ecco la mensa pura, la fonte della carità,
il banchetto dei poveri, ecco l'adorabile Pietà che offre
il pane della Vita e dell'Amore.
Tu ci ami, dolce Gesù, lo avevamo dimenticato.

 L’Eucharistie, una lunga e lenta frase dei violini, che si innalza sopra un tappeto di accordi in pianissimo e riflessi rossi e blu (come una remota finestra di vetro macchiato) illuminati dagli archi solisti in sordina. Il Peccato è l’oblio di Dio. La Croce e l’Eucarestia sono la divina Offerta. “Questo è il mio corpo, offerto per voi – questo il mio sangue, versato per voi.”


Quest’ultima parte del brano è la più lunga in termini di durata e consta di 27 battute che mantengono il tempo di 4/4 preparato dalla precedente transizione e con un’agogica che presenta un solo, brevissimo rallentamento alla battuta 16. Ne è protagonista una sparuta pattuglia di archi alti: i primi violini più 4 secondi violini e 5 viole (tutti divisi). L’attacco di quest'ultima sezione deriva scopertamente dalla conclusione della prima, e così Messiaen evoca e collega efficacemente i concetti di pietà e amore richiamati dal programma fondante di questa sua opera.              
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Che dire? Un pezzo non certo facile, che i giovani (e i diversamente…) hanno saputo rendere con efficacia, presi per mano dal Direttore che è stato il primo ad applaudirli. 
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Ecco infine la ciajkovskiana Patetica. Qui davvero il Direttore ha fatto la differenza, trascinando la compagine ad una prestazione che definirei quasi sorprendente, date le circostanze (sono alla seconda apparizione pubblica, dopo il Mahler-Festival). Non sarà certo il caso di fare dei trionfalismi, ma di sicuro ci troviamo di fronte ad una bella realtà che ha davanti a sé una lunga ma affascinante strada da percorrere.

Alla fine, Treviño, accolto ripetutamente da battimani ritmati, ha simpaticamente invitato il pubblico ad intensificare gli applausi per i ragazzi, che evidentemente sono entrati in grande sintonia con lui. Insomma, un bel pomeriggio, di quelli che ci rincuorano in tempi piuttosto grami.  

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.5

Dopo aver diretto tre settimane fa la Quinta nel Mahler-Festival con la OSN-RAI, Robert Treviño torna sul podio dell’Auditorium per offrirci un programma tutto francese, che procede a ritroso nel tempo per 70 anni, dal primo ‘900 al profondo ’800: da Ravel a Berlioz.

Di Maurice Ravel erano originariamente in programma due brani sullo stesso soggetto fiabesco, quello delle Mille e una notte. Si sarebbe dovuto partire con Shéhérazade, ouverture de féerie, che rimase nel cassetto per quasi 80 anni prima di essere pubblicata (1975); ma qualcosa dev’essere andato storto, e così il concerto si è aperto con Shéhérazade, Trois poèmes pour chant et orchestre, del 1903, dedicati a tre rispettabili Madame e qui interpretati dalla 37enne mezzosoprano lituana Justina Gringyté, che spesso si esibisce con il Direttore texan-mexicano.

Di chiaro ascendente Debussy-iano, questo trittico è basato su testi poetici (di carattere piuttosto decadente e con sfumature simboliste) tratti da una collana di cento poesie, ispirate a Shéhérazade, di tale Léon Leclère, che già a quei tempi si ammantava di un bifronte nick wagneriano (Tristan Klingsor) e con il quale Ravel condivideva la frequentazione dell’appena neonato gruppo di artisti d’avanguardia (e appunto sfegatati per Debussy) noto come Les Apaches.

Anche le tre dedicatarie delle liriche avevano a che fare con quell’ambiente: Janne Hatto (dedicataria di Asie) fu la prima interprete del trittico; Marguerite de Saint-Moceaux (dedicataria di La Flûte enchantée) era famosa per i suoi prestigiosi ricevimenti e come mecenate di musicisti ed artisti, fra i quali proprio Debussy e Ravel; Emma Léa Moyse (dedicataria di L’Indifférent) già amante di Fauré, fu la seconda moglie proprio di Debussy, dopo aver divorziato dal banchiere Sigismond Bardac.  

1. Asie  
È il più lungo dei tre testi, un autentico viaggio nei misteri e nel fascino orientale: dopo una breve introduzione - davvero orientaleggiante - dell’oboe sul triplice richiamo Asie! Asie! Asie! e sull’evocazione, sostenuta dal corno inglese, di quel mondo che sa di fiabe che si raccontano ai bambini, ecco l’inizio del lungo e affascinante viaggio. Per ben 14 volte il testo ripete Je voudrais, il desiderio di conoscere, di esplorare, di immergersi in quel magico universo. E a quel vorrei segue di volta in volta: 1. una goletta che solca il mare spinta dalla sua vela violetta; 2. un’isola fiorita sperduta in mezzo al mare tempestoso; 3. Damasco o una città persiana, con gli agili minareti; 4. turbanti di seta sopra volti scuri e bianche dentature; 5. occhi e pupille piene d’amore e pelli ingiallite; 6. vesti di velluto con lunghe frange; 7. calumet risucchiati da bocche avvolte da bianche barbe; 8. sguardi ambigui di mercanti, visir che muovendo un dito decretano vita o morte; 9. Persia, India e Cina, Mandarini, Principesse e letterati che discettano di poesia e bellezza; 10. un palazzo incantato ornato da preziose stoffe raffiguranti personaggi al centro di un giardino: 11. assassini che assistono divertiti all’esecuzione di un innocente operata da un boia con una curva scimitarra; 12. povera gente e regine; 13. rose e sangue; 14. chi muore d’amore e chi di odio.     

Ciascuno di questi desideri è accompagnato da delicate figurazioni impressioniste, che sfociano in un drammatico crescendo dell’intera orchestra, che poi va sfumando per dare spazio all’epilogo: l’onirico viaggio lascia al poeta il desiderio di raccontarlo a chi ama sognare, sorseggiando di tanto in tanto - alla maniera di Sinbad - una tazza araba, per interrompere sapientemente il racconto… 

Chissà, potrebbe essere proprio la bella Shéhérazade a raccontare questo squarcio notturno: introdotta dalla sensuale melodia del flauto, la favorita del sultano, che lei ha abilmente addormentato con uno dei suoi mille ammalianti racconti, comincia ad udire – mentre il tempo, da Très lent diventa improvvisamente Allegro – una melodia, ora mesta, ora gioiosa, suonata dal suo amante. Il tempo torna Lent, per farle assaporare quelle note che, dalla finestra, arrivano sulla sua guancia come un misterioso bacio. La figurazione iniziale del flauto ritorna per chiudere questo delicato siparietto.

Qui siamo all’Oriente più… confuciano: come non pensare all’atmosfera (Er stieg vom Pferd und reichte ihm den Trunk) del mahleriano Abschied? Un passante dai tratti effeminati transita davanti ad una porta a cui si affaccia il soggetto recitante (maschio o femmina? chissà…): che ne è attirato sensualmente, e lo invita a fermarsi per bere del vino con lui. Finora il tempo è continuamente Lent, anzi, poi, ancora Plus lent. Ma il passante (mentre il tempo si agita un poco) si allontana con un grazioso gesto di efebica indifferenza, dopodichè il tempo torna alla perenne lentezza. 
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Davvero encomiabile la prestazione della bella Justina, che ha sfoggiato la sua voce ben tornita e la sua raffinata sensibilità, pienamente in sintonia con il sapore decadente di testo e musica. Musica di cui Treviño ha a sua volta messo in luce tutte le sfumature e le nuances, ben assecondato dall’orchestra, soprattutto i legni che sono protagonisti assoluti.

Accoglienza calorosissima del pur non oceanico pubblico.
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E infine l’inflazionata FantasticaUn’interpretazione da manuale, quella del Direttore, che mai si è abbandonato (e di occasioni e… tentazioni questa Sinfonia ne presenta a josa) a gratuite e facili iniziative. Da incorniciare l’introduzione al primo movimento, dove la musica sembra davvero nascere e crescere dal nulla; poi la raffinatezza del Bal (protagoniste le arpe di Elena Piva e Marta Pettoni); mirabile la resa della Scène aux Champs (il corno inglese di Paola Scotti e l’oboe fuori scena di Emiliano Greci) con tratti da impressionismo ante-litteram; e quindi, sempre senza soluzione di continuità, la Marcia al supplizio e il Sabba conclusivo, dove Treviño ha scatenato le furie degli ottoni (le tube di Davide Viana e Alberto Tondi sugli scudi, in un protervo Dies Irae) portando il pubblico ad un parossistico entusiasmo, con ripetuti battimani ritmati e ovazioni per Kapellmeister e Musikanten!  

Si replica domani, ma anche oggi pomeriggio sarà ancora e sempre Treviño, per... collaudare l’Orchestra under-25.