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02 febbraio, 2024

Un nuovo doge alla Scala

Simon Boccanegra: opera di vecchi, per vecchi? Certo persino un adulto (non dico poi un adolescente) può faticare ad emozionarsi per le vicissitudini di un padre e di un nonno! Roba giurassica. E per di più quando i due sono genero e suocero!

Ah, Verdi aveva 44 anni quando compose la prima versione del Simone, e sulle spalle portava già da tempo i pesanti segni delle sventure che la vita (magari più prima che poi, come nel suo caso) immancabilmente riserva a tutti.

E quindi la tinta (Verdi’s copyright) dell’opera è ammantata di cupezza e pessimismo, se ai problemi personali e privati dei protagonisti si aggiungono anche gli intrighi di palazzo e le smanie di potere in un ambiente ancora medievale e oscurantista.

Dopodichè Verdi non sarebbe stato Verdi se non fosse mirabilmente riuscito a nobilitare questo scenario con le sue note!
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Ebbene, ieri abbiamo incontrato un poco più che ragazzo (ancora non ha compiuto 34 anni) che ha stupito per la profondità con la quale ha illustrato questa musica: Lorenzo Viotti!

Certo, i suoni poi li devono materialmente emettere gli strumenti cui danno anima gli strumentisti… e l’Orchestra scaligera ha magnificamente assolto il suo compito con una prestazione impeccabile. Faccio un unico esempio per tutti: la grande cavata in FA maggiore dei violini che accompagna l’epilogo del duetto Simone-Amelia del primo atto. Una cosa a dir poco sbudellante… [A proposito, Meyer in apertura ha voluto ringraziare gli strumentisti in buca e pure quelli non presenti ieri per il premio ricevuto nei giorni scorsi: la miglior orchestra d’opera oggi sul pianeta!]

Dato poi a Malazzi ciò che è… suo (il Coro in grande quanto solito spolvero) vengo alle voci.

Luca Salsi è ormai quasi stabilmente il baritono di riferimento per la Scala: qui vi ha portato il ruolo di Simone, non nuovo per lui, nel quale si è destreggiato con la consueta maestria. Nella tragicità del suo animo tormentato, come negli slanci di amor paterno e nelle colossali perorazioni pubbliche: insomma, un Simone più che positivo… ma forse non il Simone di riferimento.  

Ain Anger è stato un (non aspirante, nel libretto, ma alla fine convinto) suocero per me non disprezzabile (salvo qualche acuto vociferante). Però ha preso esclusivamente su di sé le rimostranze di qualche purista che lo ha sonoramente buato alla fine.    

L’Amelia-Maria di Eleonora Buratto ha ben meritato, calandosi alla perfezione nella parte di questa bistrattata orfanella: brava nel passare dall’ingenuità e timorosità della ragazza cresciuta senza una famiglia, al coraggio di rivendicare il suo amore fino a diventare il catalizzatore della finale e generale riconciliazione. Il tutto supportato dalla sua voce pura sì come angelo, si potrebbe dire... 

Adorno è Charles Castronovo, figlio di emigrati italiani in USA, già interprete del ruolo a Salzbug (2018) insieme a Salsi e sotto la bacchetta di Gergiev: definirei la sua un’interpretazione più che dignitosa, ecco, ma… non molto di più, almeno sul piano strettamente vocale (la voce è squillante, ma negli acuti si ingola pericolosamente). Bene invece ha fatto come attore, interprete di questo ruolo per nulla semplice, perchè caratterizzato da slanci amorosi e da furenti rancori.

Buone notizie da Roberto De Candia, che ci restituisce efficacemente lo sbifido Paolo Albiani, assatanato per il potere e per il possesso (della… gnocca!) Da ricordare i suoi ripetuti sfoghi contro Simone.

Su standard onorevoli il Pietro di Andrea Pellegrini e gli altri due comprimari: Laura Lolita Perešivana (ancella di Amelia) e Haiyang Guo (Capitano dei balestrieri).
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Daniele Abbado. Mi è parso che – magari come ricordo del padre – abbia preso come riferimento Giorgio Strehler, che con Claudio firmò la splendida produzione degli anni ’70. Ambientazione cupa e buia, con pochi e luminosi squarci… nautici (scene e costumi però impoveriti delle preziosità che oggi non sono più di moda).

Ma anche piccoli dettagli, fra i quali ne segnalo uno: l’avvelenamento. Come in Strehler, anche qui Paolo versa il veleno nella tazza di Simone facendosi… aiutare da un inserviente (là femmina, qui maschio) che gliela reca su un vassoio…

Efficace mi è parsa la recitazione suggerita ai personaggi. Complessivamente una regìa onesta e corretta, senza invenzioni ardite o discutibili ri-ambientazioni. Alla fine lui e il suo team (Angelo Linzalata per le scene, Nanà Cecci ai costumi, Alessandro Carletti alle luci e Simona Bucci per la coreografia delle sommosse) sono stati accolti da moderati consensi.

A parte il malcapitato Anger, per tutti applausi calorosi (ma non proprio un tifo da stadio, ecco). Personalmente la definirei nel complesso una proposta seria e onesta, meritevole di ampia sufficienza.

11 febbraio, 2022

Alla Scala una convincente Thaïs

Si segnala al pubblico che lo spettacolo include alcune scene di nudo.

Ecco perchè il Piermarini ieri sera era al tutto esaurito! (beh, veramente non è proprio così...)

Slurp! mi son detto: finalmente ci fanno vedere ciò che Massenet aveva pudicamente coperto dietro il sipario chiuso, concedendoci solo qualche erotico... massaggio musicale. E mi sono segnato accuratamente i momenti papabili, secondo il libretto, per presentare Thaïs (e magari - per par condicio - anche qualche gagliardo maschione) senza veli: 1. La visione del primo atto, primo quadro, dove Athanael sogna Thaïs esibirsi nel lungometraggio porn dal titolo Gli amori di Afrodite; 2. La fine del primo atto, ancora l’inizio de Gli amori di Afrodite, ma dal vivo; 3. L’apertura del second’atto, in casa di Thaïs (che si contempla, nuda, allo specchio); 4. Il menoso balletto del second’atto, dove qualche piccante coreografia può servire a vincere la noia; 5. La replica, ma ancora in DVD, della prima visione (secondo quadro del terz’atto). Poi ho accuratamente pulito le lenti del binocolo da marina che mi porto regolarmente a teatro, per non perdermi i primissimi piani dell’arrapante spettacolo.

Conclusione? Mah, chiappe e tette abbondano, però siamo addirittura sotto il livello che ormai raggiungono anche gli ad dei pannolini, ecco. In compenso Py e compagni sono andati pure al di là dei miei 5 punti, aggiungendovi anche la Méditation e la corsa nella notte. (Il regista ha - in parte - riesumato ciò che Massenet aveva cassato nella versione definitiva del 1898 - la pantomima dell’’Atto III - mostrandoci squarci riconducibili alle Tentazioni di Sant’Antonio; ma effettivamente, se si ipotizza che Athanaël viva da sempre con l’ossessione e le frustrazioni del sesso, allora il sesso ci potrebbe stare dal primo all’ultimo minuto dell’opera, come decise di proporci Stefano Poda a Torino nel 2008.)

Discutibili le presenze di un figurante nei panni di un Eros... erotico nella scena dello specchio (la presa d’atto di Thaïs della sua inevitabile sfioritura va ben al di là dell’aspetto puramente carnale...) e del successivo incontro con Athanaël (la statuetta di Eros evoca in Thaïs l’Amore con la A maiuscola, non il sesso...)  

Azzeccata invece l’insegna al neon posta sulla facciata della grande casa di appuntamenti che caratterizza Alessandria: insegna che riporta i versi della prima terzina della Commedia dantesca: il che pare del tutto appropriato ad evocare la selva oscura dei degradati costumi della città. (Bene ha fatto il regista a fermarsi qui con Dante, chè la disprezzata Taide dell’Inferno è quella pagana, ben avanti-Cristo, e non la santa cristiana del quarto secolo.)  

A proposito di ambientazione, Py ci porta ai tempi della composizione dell’opera, aggiungendovi poi scene (con donne-in-vetrina) mutuate dalle moderne cittadelle del vizio. Monaci e monache sono membri della Salvation-Army, con tanto di uniformi militaresche e con un appariscente scudetto con la S appuntato sul bavero. Di indubbia genialità l’idea di trasferire - nell’atto conclusivo - lo scudetto dal bavero di Athanaël a quello di Thaïs: plastica rappresentazione dei due opposti percorsi esistenziali dei due protagonisti (chapeau!)  

Peraltro ad Antinoe i monaci (escluso Palémon e un aiutante) non sono militari-militanti ma poveri clochard che mendicano un pasto come alla Caritas o al Pane Quotidiano (?!) in un’atmosfera (per di più incupita da lampi temporaleschi, caratteristici invece del secondo quadro del terz’atto) che ha ben poco dell’austerità dell’agape evocata da testo e musica. Viceversa le monache di Albine sono tutte in rigorosa uniforme (peraltro forzatamente scura e non candida come imporrebbe il testo).

Accurata la caratterizzazione dei personaggi: su tutti il Nicias, davvero l’archétipo del sibarita incallito!

Sul lungo balletto del second’atto si potrebbe discutere all’infinito: non certo di come è stato presentato qui (niente di speciale e niente da eccepire) ma sull’opportunità o meno di farlo, stante l’inevitabile calo di tensione che si crea in un momento topico della vicenda e - diciamolo francamente - la non sublimità della musica. Tutt’al più si potrebbe salvare - non saprei se sia semplice dal punto di vista musicale - il N°6 (la Charmeuse).

In conclusione: a dispetto delle segnalate (più o meno veniali) incongruenze, uno spettacolo di alto livello, assai godibile e costruito con indubbia professionalità. Il che fa onore a tutta la compagine che cura questo allestimento (e a chi - in alto - ha deciso di proporcelo).
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Buone se non ottime notizie sul fronte sonoro. Intanto: meno male che Viotti c’è! Il giovane Kapellmeister (pensiamo che meno di 20 anni fa suo padre dirigeva proprio Thaïs alla Fenice!) ormai è più che una certezza: evidentemente i due anni difficili, causa Covid, trascorsi dal Roméo et Juliette da lui diretto qui (già con grande successo) gli hanno dato modo di studiare, studiare e approfondire, e i risultati si... sentono.  Ovviamente poi a suonare sono i professori e va a loro il merito di aver tradotto alla perfezione le note - scritte da Massenet e... veicolate da Viotti - in suoni di assoluta purezza. Va da sè che una lode speciale sia da attribuire alla splendida... Thaïs di Laura Marzadori!  

Marina Rebeka (ebbi occasione di ascoltarla la prima volta al ROF nel 2010 nello Stabat Mater, quando era agli esordi) non aveva avuto un debutto propriamente entusiasmante qui tre anni orsono in Violetta. Poi si era in parte riscattata a settembre 2020, sempre in Violetta in forma di concerto con Mehta. Ecco, ieri direi che abbia fatto un altro bel passo in avanti, ampiamente riconosciutole dal pubblico. Se posso permettermi una modesta osservazione, è ancora la cosiddetta ottava bassa che andrebbe... potenziata, mentre la salita agli acuti è sicura e autorevole, sia in quelli spinti (vedi i RE del finale) ma soprattutto in quelli da esalare in pianissimo.

Piacevolissima sorpresa (per me almeno, che di lui conoscevo poco o nulla) è stato Lucas Meachem: il baritono yankee (ieri sera con folto... parrucchino) ha sostituito poco tempo fa l’annunciato Ludovic Tézier e devo dire che non lo ha fatto rimpiangere. Leggo che non era all’esordio nel ruolo, avendo già interpretato Athanaël negli USA, e in effetti la sua è stata una prestazione più che apprezzabile: la voce è potente e passante, senza sbavature nè sguaiatezze. E pregevoli sono anche le sue qualità attoriali, che gli hanno consentito di rendere al meglio la natura di questo personaggio complesso e... complessato.  

Ma un’altra sorpresa (conferma anche, avendo già calcato il palcoscenico del Piermarini e venendo dall’Accademia) è Giovanni Sala, un Nicias semplicemente perfetto: certo nella postura e nelle movenze, davvero azzeccatissime e perfettamente calzanti sul personaggio. Ma anche nel canto, che è poi la cosa più importante: voce chiara, squillante, del tutto appropriata a vestire questo vanesio e gaudente sibarita.

Di Caterina Sala e Anna-Doris Capitelli (le schiavette di Nicias) così come della Federica Guida (la Charmeuse) si sono potute apprezzare le qualità vocali, ma anche (non dirò soprattutto per non passare per depravato...) quelle fisiche!

Onorevoli le prestazioni di Valentina Pluzhnikova (Albine), Insung Sim (palémon) e Jorge Martínez (servitore di Nicias) così come quelle del sestetto dei cenobiti, altrettanti membri del Coro. Che a sua volta ha fatto bene la sua parte, non proibitiva.

Ecco, una bella serata, di quelle che davvero ti tirano su il morale.

16 gennaio, 2020

Shakespeare gallico di ritorno alla Scala


Quando a giugno 2011 andò in scena questa produzione, Roméo-et-Juliette di Charles Gounod mancava dalla Scala da ben 77 anni. Adesso l’intervallo si è ridotto al 10%, a tardiva riparazione dell’offesa...

La messinscena, come detto, è la stessa del 2011, di Bartlett Sher, prodotta in origine per Salisburgo e poi portata al MET e alla Scala. Anche uno dei due protagonisti è quello di allora, Vittorio Grigolo, questa volta affiancato nel suicidio di coppia da Diana Damrau. Avendo scritto qualcosa sull’opera e sull’allestimento (versione, posizionamento dell’intervallo, tagli e regìa) in quella sia pur lontana occasione, vi rimando gli interessati.

La novità principale di questa ripresa è costituita, senza ombra di dubbio, dall’esordio sul podio scaligero (quello della buca, chè quello sul palco già fu calcato...) del rampante Lorenzo Viotti. Devo dire che, a primo ascolto e a prima vista, il non ancora trentenne rossocrociato (figlio d'arte, del padre Marcello, scomparso prematuramente nel 2005) mi ha fatto un’ottima impressione: gesto sicuro, autorevole e mai gigionesco, attacchi precisi e manina sinistra à-la-Abbado (già copiata da Mariotti...) per concertare al meglio chi sta sul palco. Attenzione alle sfumature e ai dettagli della partitura. Insomma, perfetto? Beh, sarebbe troppo pretendere... diciamo che di margini di miglioramento ne ha di sicuro, ad esempio imparare a trattenere la foga in passaggi dove è facile cadere nel bandismo e nel fracasso gratuito. In ogni caso, un esordio più che positivo, salutato da convinti consensi di un pubblico insolitamente (!) folto.

Detto dell’eccellente prestazione del coro di Casoni e di quella per me perfettibile dell’orchestra (ottoni ma non solo) vengo alle voci. Il Grigòlo (o Grìgolo o Grigolò, fate voi, haha) mi aveva lasciato un po’ perplesso nel 2011, quando però aveva 34 anni... oggi sono ancora perplesso, ma lui ne ha ormai 43. Conclusione: diventerà mai davvero grande? Per carità, mica fa schifo, sia chiaro, però, insomma, la presenza scenica è come la bella presenza che si richiede al commesso viaggiatore... ma poi non sempre è una condizione sufficiente per raggiungere l’eccellenza dei risultati. Il controllo dell’emissione mi pare sempre approssimativo e qualche ingolatura residua non fa che tenere bassa, non molto oltre la sufficienza (oh, parere mio eh!) la media.

La Diana Damrau è una Giulietta appropriata come timbro di voce, davvero sottile come si addice ad una giovanissima, peccato che i centri siano poco udibili (un esempio: nelle agilità della sua arietta del primo atto si distingueva una sillaba su due, o addirittura tre). Quindi anche a lei dò una sicura sufficienza, ma non mi spingo oltre.

Un qualche contrattempo deve aver impedito al titolare Nicolas Testé di proporsi come Frate Lorenzo: il sostituto Dan Paul Dumitrescu (presumibilmente arrivato all’ultimo momento) ha fatto del suo meglio e va quindi lodato per aver salvato la situazione. Frédéric Caton è stato un onesto Capulet, partito bene ma poi un poco appannatosi: voce quasi baritonale, che non si adatta perfettamente al personaggio. Anche l’altro basso, Jean-Vincent Blot (Duca) non ha sfigurato. Mattia Olivieri ha ben meritato come Mercuzio, avendo cantato con efficacia e bella voce baritonale la sua lunga filastrocca della Regina Mab.

Ottima impressione mi ha fatto Marina Viotti (un caso quasi unico, essere diretta alla Scala dal fratellino!) che ha sfoggiato una bellissima voce di mezzo interpretando, en-travesti, il ruolo di Stéphano. Corretto il Tybalt di Ruzil Gatin, voce rossiniana, penetrante e bene impostata. Cito ancora la Gertrude di Sara Mingardo, gli altri come da contratto sindacale.

Insomma, uno spettacolo godibile e di onesto livello musicale, accolto da consensi praticamente unanimi.