XIV

da prevosto a leone
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08 giugno, 2022

Una Gioconda discreta (ma non più) è tornata al Piermarini

In un teatro non propriamente esaurito ha fatto ieri ritorno dopo 25 anni La Gioconda nella nuova produzione targata Chaslin-Livermore. Dirò subito che ha avuto un’accoglienza tutto sommato positiva (unica vittima dell’unico e isolato buh piovuto dalla seconda galleria il malcapitato Direttore) pur non essendo(mi) parsa di livello eccelso, ecco.

Parto dalla... polpa, cioè da suoni e voci. Intanto segnalando, dopo quella della Yoncheva, anche la defezione del tenore titolare (Sartori) rimpiazzato all’ultimo da Stefano La Colla, che per la verità ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, sul quale però il corpo (cioè la voce...) è incorso in qualche inciampo, soprattutto all’esordio, magari causato dalla comprensibile emozione (anche se per lui non era proprio un esordio in Scala, essendo stato già stato un discreto Ismaele e prima ancora Calaf). Via via si è però rinfrancato ed ha portato a casa la pagnotta.

Saioa Hernandez è stata la trionfatrice della serata. Col tempo meritoriamente migliora (la ricordavo nel ruolo 4 anni fa, con qualche pecca) e la sua vociona è oggi meglio... disciplinata, ecco: per lei lunghi applausi dopo l’aria che apre l’atto conclusivo. Le han dato man forte (nei duetti) le altre due donne del cast: Daniela Barcellona, impeccabile Laura per emissione e portamento; e Anna Maria Chiuri, una Cieca efficace e commovente (cui Livermore ha dato anche più spazio del prescritto, come vedremo).

Degli altri due protagonisti maschi dirò benissimo (e il pubblico ha confermato il giudizio) di Erwin Schrott, praticamente perfetto come Alvise e lungamente applaudito a scena aperta dopo l’aria che apre l’Atto terzo; un filino sotto metterei il navigato Roberto Frontali, che ha forse ecceduto nel caricare negativamente la figura dello spione, con qualche acuto un po’ troppo... ringhiante.  

Tutti onestamente all’altezza del compito i quattro comprimari (Reggi, Valerio, Pittari e Bussolini). Cori (di Alberto Malazzi i grandi e del venerabile Mario Casoni i piccoli) in gran spolvero, meritatamente applauditi a lungo.

Che dire del Kapellmeister? Frédérick Chaslin era (così pare) al suo primo incontro con Gioconda e devo dire che (a parte qualche eccesso bandistico qua e là) ha cercato di scavare - come evidentemente comporta la sua attitudine alla composizione - nei dettagli della partitura per metterne in risalto le tante sfumature e gli aspetti innovativi (che daranno spunti anche a sinfonisti come Mahler). Ne è uscita un’interpretazione (apparentemente?) dimessa e priva di smalto e brillantezza, tanto che il pubblico (a parte l’isolata contestazione) non pare avere apprezzato più di tanto.
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Davide Livermore perde il pelo ma non il vizio (in senso buono, dico) della celluloide: nella breve presentazione del suo Konzept sul programma di sala tira in ballo il Fellini di Casanova e i fumetti veneziani di Moebius. Poi però all’atto pratico il tutto si materializza in... effetti senza cause.

La scenografia (di Giò Forma) prevede nei due atti dispari una struttura cubiforme che racchiude rispettivamente il ponte di Rialto, il Palazzo ducale e la Ca’ d’Oro: struttura che viene fatta via via ruotare di 360° per presentare prospettive diverse (a teatro, a differenza del cinema, la macchina da presa, che è l’occhio dello spettatore, è forzatamente in posizione fissa, così per esplorare il mondo, si fa... girare il mondo). Nei due atti pari abbiamo rispettivamente un onirico brigantino, con stiva trasparente, e... il vuoto desolato del Canal Orfano. Saltuariamente un gigantesca cornice (Venezia è la patria dei dipinti) scende ad incorniciare (appunto) un panorama o più spesso dei tableau vivant o ancora dei video astratti (D-WOK) più o meno appropriati.  

I costumi di Mariana Fracasso sono plausibilmente seicenteschi, con maschere veneziane che toccano l’apice in quella di Laura, recante ai due lati un paio di... corna di bufalo indiano (!) Le luci (Antonio Castro) sono intelligentemente sfruttate per esaltare le scene di festa (Ore incluse) o per incupire quelle di dramma.

Dignitosa la coreografia di Frédéric Olivieri e lodevoli gli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia, protagonisti di un’apprezzabile Danza delle Ore.

Per il resto, movimenti delle masse abbastanza stucchevoli e qualche tocco più o meno gratuito che Livermore si è permesso di inventare, come il fugace incontro fra Enzo e Laura in mezzo alla folla festante a fine del primo atto, o come la presenza di una controfigura della medesima Laura (ufficialmente morta) sdraiata su un lampadario durante il balletto.

Ma è proprio il finale a venire dal regista re-interpretato in modo piuttosto discutibile: la Cieca torna in scena accanto alla figlia e insieme cantano la profezia del rosario; poi, al posto della conclusione dura e verista di Boito (Gioconda che si trafigge e Barnaba che si accusa dell’omicidio della Cieca e fugge imbufalito e imprecante) ecco che allo spione viene recapitata una controfigura rappresentante la salma della cantatrice, mentre la Gioconda in carne ed ossa si riunisce con la madre in... paradiso (?) Insomma, una chiusura consolante che contraddice - pare a me - quella originale.
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In conclusione: uno spettacolo non più che discreto, certamente al di sotto del livello di altre produzioni della stagione in corso. 
 

07 ottobre, 2020

Scala: un’Aida mai ascoltata prima

La seconda opera di questa stagione autunnale scaligera è un’Aida nuova di zecca. Beh, diciamo con qualcosa di nuovo, anzi... d’antico, ecco: l’inizio del terz’atto come originariamente composto da Verdi, scoperto un anno fa a Parma e che Chailly (il Direttore ormai passerà alla storia come il maniaco dei reperti archeologici...) non ha perso l’occasione di presentare in prima assoluta.

É un caso simile al famigerato Lacrymosa, composto per il Carlos e poi espunto e successivamente infilato nel Requiem: qui abbiamo la musica del coro dei Sacerdoti egizi, che Verdi considererà troppo cerebrale (à la Palestrina) per l’opera, e quindi più adatta al Te decet Hymnus dello stesso Requiem.

Lo scopritore Anselm Gerhard, descrivendo la sua scoperta, incorre però in un clamoroso autogol, sufficiente ad invalidare tutto il valore, non dell’oggetto della scoperta in sè, ma del suo reinserimento nell’opera, quando afferma testualmente:

Quel fastidioso ritardo [il rinvio di un anno della prima, ndr] ebbe addirittura un effetto vantaggioso. Costretto ad aspettare, Verdi nell’agosto 1871 decise di rielaborare l’inizio del terzo atto: aggiunse la celeberrima romanza strofica per Aida («O cieli azzurri... o dolci aure native»), per nulla prevista nella partitura originale. Allo stesso tempo, tagliò un monologo di Aida in stile recitativo e sostituì il coro dei sacerdoti («O tu che sei d’Osiride») con una nuova musica dai profumi esotici.

Quindi, a dar credito a Gerhard, ciò che ci è stato propinato sarebbe qualcosa di svantaggioso... (effetti del furore filologico?) Una cosa è certa: Verdi difficilmente prendeva abbagli, nè del resto si è mai pentito delle variazioni/aggiunte introdotte prima della prima. Nell’Introduzione cambiò l’atmosfera tonale, rimpiazzando il FA maggiore dello strumentale e del coro palestriniano (le note di quest’ultimo portate pari pari nel Requiem) con il SOL maggiore (MI minore) delle sedici battute caratterizzate dall’arpeggio dei violini sul motivo dei flauti seguite dal coro esotico. L’intervento di Ramfis-Amneris, che seguiva la tonalità del coro, venne a sua volta portato tutto in SOL. Ma la variazione più spettacolare fu l’introduzione della Romanza di Aida (O patria mia) prima dell’arrivo di Amonasro. E vi assicuro che passare repentinamente dal recitativo di Qui Radames verrà al Ciel! Mio padre! è una cosa davvero difficile da digerire!

Va bene che siamo in concerto e in... emergenza, ma insomma queste riproposte stanno davvero annoiando (nel senso dell’inglese annoying)! E andrebbero divulgate (come è lecito e persino doveroso) con altri mezzi che non in una recita comunque importante.
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Qualche progresso si è fatto nell’impiego del palcoscenico: tutta la piattaforma copri-buca è stata utilizzata, per collocarci i cantanti (proprio a due metri dalla prima fila di platea) il podio e due file di archi; il coro era sul fondo e a i lati, leggermente rialzato. Se n’è giovata l’acustica (e fin troppo riguardo le voci, che normalmente stanno almeno 10 metri più indietro). Niente semi-scena, ma semplici andi-rivieni dei cantanti, tutti in abito da cerimonia e rispettosissimi del distanziamento.

Trionfatrice della serata l’Anitona Rachvelishvili, il cui vocione ha trasformato Amneris in una... belva. Nel grande concertato del second’atto lei ha coperto tutte le altre voci e pure il coro e l’orchestra!

Meli e Hernandez su standard accettabili: lei ha confermato le sue qualità, voce robusta e sempre ben impostata, acuti penetranti e buon fraseggio; lui mi è parso un po’... fuori forma, esordio impacciato con Celeste Aida, poi meglio fino alla fine, con sfoggio delle sue ormai proverbiali mezze voci e di acuti sempre ben controllati.

Chi mi ha impressionato parecchio (lo ascoltavo per la prima volta) è il mongolo Amartuvshin Enkhbat, che ha disegnato un Amonasro assai efficace, voce piuttosto brunita e penetrante come si addice, secondo me, al personaggio.

Su standard accettabili i due bassi: il Re di Roberto Tagliavini e il Gran Sacerdote di Jongmin Park, ex-accademico scaligero che ha sostituito all’ultimo il titolare Dario Russo. Bene anche i due comprimari Francesco Pittari e Chiara Isotton.

Il Coro di Casoni, purtroppo penalizzato dalla forzata disposizione... periferica ha comunque risposto da par suo mostrando la proverbiale compattezza di suono.

Chailly ha diretto con il suo solito piglio: la disposizione di orchestra e coro ha come minimo garantito che le voci (davanti, in primissimo piano) non venissero mai coperte (!)
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Ecco, fra poco più di un mese potremo rivedere un’opera in scena: speriamo bene!

12 dicembre, 2018

L’Attila scaligero: un nazi ante-litteram


L’Attila del Verdi rimasto affascinato dalla lettura di Werner era un tipo forse un filino talebano nell’etica (proprio binaria: 0-1, tutto o niente, bene o male, bianco o nero) e quindi estraneo a compromessi e manfrine, spietato con i perdenti e i voltagabbana... ma ammiratore e rispettoso dei nemici ispirati alla sua stessa etica binaria.

Ora, come si spiega che un individuo sanguinario come l’unno possa essere stato presentato - nel corso dell’800 - prima in un dramma e poi in un’opera musicale come un personaggio positivo? Positività che emerge inoppugnabilmente dalla musica che Verdi gli ha cucito addosso, le mille miglia lontana da quella idonea a caratterizzare un bieco e feroce dittatore dei giorni nostri (Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, PolPot, Bokassa, Saddam, Osama...) E di certo diversa da quella che Verdi avrebbe composto se - puta caso - avesse dovuto o voluto musicare un soggetto ambientato nel terrore francese, protagonisti Robespierre&C...

Credo che la risposta stia nel tipo di scenario e di contesto storico che sono sullo sfondo dell’opera. Quello dell’Attila porta alla nostra attenzione vicende remote, ambientate in un mondo dove una civiltà evoluta ma in decadenza (Roma) era minacciata da (in)civiltà primitive (perchè ospitate in parti del mondo estranee alla civiltà greca e poi romana) ma proprio per questo a modo loro genuine; e dove il barbaro Attila era mosso da istinti quasi animaleschi, ma in sostanza naturali, il che ne fa - agli occhi di Verdi e ai nostri occhi - un personaggio persino degno di ammirazione.

Sì, poichè uno stesso atto o fatto noi lo possiamo percepire in modo completamente diverso a seconda del contesto e della prospettiva storica in cui esso si inserisce. Un atto di violenza anche feroce compiuto da un seguace di Attila nel 452 certo non lo potremo mai giustificare, ma possiamo comprenderlo in ragione delle circostanze storiche in cui si è materializzato; e per questo Verdi può permettersi di rivestire le truci esternazioni del condottiero e i cori truculenti di Unni, Eruli e Ostrogoti, inneggianti a stragi e stupri, di musica positiva (modo maggiore, baldanzoso, propriamente eroico) ed è per questo che noi non solo non ci scandalizziamo di ciò, ma anzi l’apprezziamo.

Tutto però cambia se cambia l’ambientazione del soggetto. Ed è ciò che fa Davide Livermore in questo suo allestimento. Ambientato di fatto ai giorni nostri (o in giorni a noi benissimo presenti, perchè vissuti). E più precisamente ancora - nelle due parti principali che caratterizzano questa trasposizione, la prima ad Aquileia e l’altra nel campo di Attila del second’atto - ci troviamo chiaramente immersi in uno scenario che ha scoperti riferimenti nazisti. Dapprima vediamo l’Italia del post-8-settembre-1943, come risulta evidente da alcuni precisi particolari della messinscena: Odabella e poi Foresto che stringono drappi tricolori; la scena presa pari pari da Roma, città aperta di Rossellini, ambientato come ben sappiamo proprio in quel preciso periodo storico; gli aguzzini che osserviamo mentre trucidano a sangue freddo inermi cittadini, comportandosi precisamente come si comportarono i classici Kapò nazi, a noi ben noti, quali Kappler, Priebke e compari (Marzabotto, Ardeatine, ...)

Se lo scenario è questo, allora il condottiero che arriva a cavallo all’inizio dell’opera, se proprio non Hitler in persona, può benissimo riconoscersi in Albert Kesselring, comandante supremo delle forze naziste in Italia nonchè criminale di guerra riconosciuto e come tale condannato. E aggiungiamo che Ezio (ambiguo generale romano) ci fa proprio la figura del Maresciallo Badoglio, che da alleato dei nazisti - non dimentichiamo che anche Attila ed Ezio erano stati alleati, ai tempi delle spedizioni contro i Burgundi! - è ora diventato un traditore voltagabbana.

Quanto al secondo riferimento, è incontestabile che la scena del festino nel campo di Attila sia di ambientazione squisitamente nazi, mutuata scopertamente da pellicole italiane, come quelle della Cavani (Il portiere di notte) di Brass (Salon Kitty) e di Pasolini (Salo’).

Quello di Livermore è - riguardo i momenti caratterizzanti - uno scenario che ci presenta uno spaccato della nostra contemporanea civiltà evoluta all’interno della quale si è prodotta - per degenerazione cancerogena - una moderna barbarie. Uno scenario che sta letteralmente agli antipodi di quello musicato da Verdi: a differenza del buon selvaggio Attila, qui abbiamo Hitler (o chi per lui) che, non dimentichiamolo, aveva alle spalle Hegel, Marx e persino... Wagner! E purtroppo quella stessa musica positiva di cui Verdi ha gratificato gli Unni primitivi del 452 adesso ci viene cantata da aguzzini nazisti nel 1943, che magari hanno mandato al creatore nostri padri o nonni... E ciò fatalmente offende la nostra sensibilità e il nostro intelletto, oltre che offendere Verdi e la sua opera!

Insomma, in questo caso (come spesso avviene) l’attualizzazione del soggetto provoca l’intollerabile discrasia fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva. E a poco serve riconoscere che ciò che si osserva, in sè e per sè, sia opera di ingegno e professionalità, di cui non si può non dare atto a tutta l’equipe di Livermore. Ammirando - una fra tante - la geniale trovata di impiegare il famoso dipinto di Raffaello come sfondo al tableau vivant della scena dell’incontro Attila-Leone. O le efficaci proiezioni, vedi il ricordo di Odabella dell’ammazzamento del padre da parte di Attila.

Per la verità altre invenzioni del regista sono assai meno memorabili, come ad esempio la ferita che Attila provoca alla mano di Odabella consegnandole la sua arma da taglio (e perchè mai un simile gesto?); o il colpo di pistola tanto gratuito quanto fuori tempo (dal punto di vista drammaturgico) con cui Ezio ferisce Attila, che viene poi legato come un salame, il che dequalifica il successivo gesto di Odabella dal livello eroico (Giuditta-Oloferne) a quello vile (Maramaldo-Ferrucci).

In sostanza: un allestimento di alto livello purtroppo inquinato dall’ambientazione incoerente con il soggetto da rappresentare. Ho la vaga impressione che dall‘avvento del cosiddetto teatro-di-regìa (diciamo da 50 anni come minimo a questa parte) si sia verificato nel mondo dell’opera lirica (e forse non solo in esso) un fenomeno che chiamerei di dissociazione fra il contenuto (ciò che si sente) e la forma (ciò che si vede) attraverso la quale tale contenuto viene presentato. Basta che la forma sia - com’è sicuramente nel caso in questione - accattivante, e la coerenza con il contenuto diventa automaticamente un optional, al quale si rinuncia con grande disinvoltura. Il nesso causa-effetto di questo imbarbarimento (!) dei costumi è tutto da decifrare: è il Regietheater ad averlo provocato, oppure è esso stesso un effetto di quell’imbarbarimento? Ai sociologi l’ardua sentenza.
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Anche ieri sera (come già per la prima vista in TV) Riccardo Chailly non mi ha pienamente convinto. Intanto confermo la mia personale contrarietà alle scelte (sedicenti) filologiche del Direttore: la romanza di Foresto scritta per Moriani è certo apprezzabile (ed è sicuramente musica di mano di Verdi!) ma a mio parere è più debole dell’originale. Quest’ultimo (testo di Solera) è assai drammatico nella prima strofa, dove Foresto dichiara che per Odabella avrebbe fatto qualunque cosa (e non a caso Verdi lo musica in modo minore); e nella seconda (in maggiore) Foresto chiede a Dio perchè mai consenta che un angelo del cielo (Odabella, già come tale apostrofata con una frase musicale assai simile nella cavatina del Prologo) si macchi di una colpa così grave come il tradimento.

Il testo (rimasto anonimo) per Moriani è invece più sdolcinato: Foresto ricorda la sua felicità passata e il riferimento all’angelo non è più per Odabella, ma narcisisticamente per se stesso! E Verdi musica entrambe le strofe in un languido e donizettiano REb maggiore. Chi, come Emanuele Senici (sue note sul programma di sala) ha esplorato anche la versione Ivanov (testo di Piave) mi pare abbia pochi dubbi nel reputarla testualmente e musicalmente superiore.

Non parliamo poi delle 5 battute di Rossini inserite prima del terzetto dell’Atto III: lasciano davvero il tempo che trovano. Rossini stesso disse di averle composte per suonarle mentre i suoi ospiti a Passy si accomodavano chiacchierando per ascoltare il terzetto, un modo come un altro per richiamarli al silenzio!

Chailly ha infine mantenuto la promessa di far eseguire un allargando il tempo a Ezio, Foresto e Coro sull’ultimo verso dell’opera (Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!!) La cosa, oltre ad essere del tutto arbitraria (sono quelle che chiamo pisciatine di cane sulla partitura...) ha ottenuto per me un effetto assai discutibile. Insomma, è stata il degno suggello ad una direzione pulita e precisa, curatissima nei dettagli, ma troppo - sempre secondo me - cerebrale e, in termini musicali, eccessivamente sostenuta. Così facendo Chailly ci ha restituito un Attila in guanti gialli e in punta di piedi: insomma, troppo fioretto e poca vanga! Ma Attila non è Boccanegra nè Otello...

Ildar Abdrazakov si è confermato un solido Attila, scenicamente e vocalmente (anche se le note gravi non sono proprio il suo forte). Lunghissimo e meritato l’applauso a scena aperta dopo Oh miei prodi!

La Odabella di Saioa Hernández ha confermato alle mie orecchie ciò che di buono ricordavo di lei. Voce corposa e penetrante, ha tratteggiato degnamente il personaggio, sia nelle sortite eroiche che nelle esternazioni più liriche (Oh! Nel fuggente nuvolo).

Sufficiente ma non di più l’Ezio di George Petean, che ha una voce poco... ehm, verdiana; oltretutto quella stupidaggine di fare il SIb acuto sul piangerà - un vero obbrobrio - davvero se la (e ce la) poteva risparmiare (uno come Muti, per dire, lo avrebbe minacciato di licenziamento in tronco!) Ancora non ci si spiega la ragione del suo subentro al posto dell’annunciato Piazzola (che pure non è un marziano, sia chiaro) che difficilmente avrebbe fatto di peggio.

Fabio Sartori è ormai un abitué del ruolo di Foresto, che padroneggia con molto mestiere, senza pecche ma anche senza mai lasciare il segno, ecco. Fossi in lui, mi riterrei discriminato dal Direttore, per aver dovuto cantare la romanza di Moriani (degna di un Nemorino qualunque, haha!)

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) hanno fatto ben più del minimo sindacale, e per questo si meritano ampio riconoscimento.

Sui suoi alti livelli il Coro di Casoni (inclusi i piccoli) giustamente ovazionato alla fine. Pubblico caloroso e prodigo di applausi e bravi! per tutti.

06 marzo, 2017

La Wally tosco-emiliana


Ieri pomeriggio la Wally ha salutato Reggio Emilia, dopo aver visitato Piacenza e Modena (in febbraio) e in attesa di recarsi in futuro nella natia Lucca. Purtroppo il Valli presentava uno spettacolo piuttosto desolante: intere file di palchi deserti (ahi ahi...) In compenso l’annunciatore (che ricorda di spegnere i cellulari, etc...) ha invitato tutti ad essere felici! Evabbè, noi ci proviamo. 

Luigi Illica trasse il libretto per Catalani dal romanzo di metà ‘800 Die Geierwally (La Wally dell’avvoltoio) di Wilhelmine von Hillern. Wally è il diminutivo di Walburga Stromminger, una ragazza selvaggia e coraggiosa, il cui appellativo (dell’avvoltoio) le viene da una spericolata impresa – negata persino ai suoi coetanei maschi -  da lei compiuta in giovane età: quando si fece calare, appesa ad una fune, lungo una ripida parete rocciosa per raggiungere il nido di un avvoltoio che infestava la zona e metteva in pericolo le greggi. Nonostante le ferite infertele dagli artigli del volatile, l’intraprendente Wally riuscì a rimuovere il nido e addirittura si portò a casa il pulcino dell’avvoltoio, allevandolo come animale domestico! Ecco perchè nelle raffigurazioni dell’epoca lei compare con l’avvoltoio sulla spalla:


Questi particolari non trovano alcun riscontro nel libretto, che invece riporta abbastanza fedelmente l’impresa di Hagenbach, che da solo ha abbattuto un grosso orso, e che si presenta come l’eroe accanto all’eroina Wally.

Il libretto, come quasi sempre accade, diverge dal romanzo, in particolare nella conclusione: nell’originale Wally e Hagenbach vivono felici e contenti... anche se per poco (moriranno insieme, non viene detto come) mentre l’opera termina con la morte violenta dei due. Anche il personaggio di Afra cambia parecchio: nel romanzo alla fine si scopre che lei è sorellastra di Hagenbach, e che quindi i sospetti di Wally sui tradimenti dell’amato erano infondati. Inoltre, il personaggio di Walter è un’invenzione del librettista. Ecco, bisogna riconoscere ad Illica di aver migliorato assai il soggetto originale!

La struttura drammaturgica dell’opera richiama vagamente quella di Carmen: due atti relativamente leggeri, se non proprio da operetta, con tanto di feste paesane, canti e balli, nei quali però si creano le premesse per il successivo precipitare degli eventi, fino alla tragedia conclusiva. Altra lontana rassomiglianza è quella fra la protagonista Wally e la futura Minnie di Puccini: si tratta di due ragazze piuttosto autoritarie e guarda caso l’ingresso in scena di entrambe avviene giusto in tempo per sedare una rissa fra maschi! Anche qui abbiamo un personaggio en-travesti: Walter, una specie di Cherubino cresciutello.

Musicalmente parlando, l’opera (siamo nel 1892) risente abbastanza dell’esperienza wagneriana: i cosiddetti numeri chiusi vi sono banditi in favore di un continuo svilupparsi delle melodie. Non mancano (ma nemmeno in Wagner!) brani che surrogano arie o ariosi o romanze: la ballata di Walter, il racconto di Hagenbach, la famosissima Ebben? Ne andrò lontana, ancora Schiavo dei tuoi begli occhi di Gellner, i monologhi di Wally del terzo e quart’atto, l’estremo omaggio di Hagenbach, sono pagine che emergono come... picchi alpestri dalla pianura sottostante.  

Nessun impiego strutturato di Leit-motive o surrogati; solo in un paio di circostanze udiamo ricomparire motivi già ascoltati: la cadenza dell’Ebben? Ne andrò lontana, che si riode alla fine del terz’atto, al momento della riconsegna di Hagenbach ad Afra da parte di Wally; e un motivo del walzerino del second’atto che riaffiora nel preludio dell’atto finale.

I personaggi sono assortiti secondo i classici canoni del melodramma ottocentesco: soprano drammatico e tenore eroico nei due ruoli principali; baritono e mezzosoprano come terzi incomodi e/o guastafeste fra i due; bassi nei panni di un genitore burbero e di un vecchio impenitente; un sopranino a incarnare il ruolo del menestrello amoroso.

Certo l‘ispirazione e la vena melodica non sono quelle dei Mascagni o dei Puccini, e forse questo spiega perchè, dopo il successo iniziale, l’opera negli ultimi decenni sia stata assai più rappresentata all’estero e in particolare nei paesi di lingua tedesca che non qui da noi. 

Compagine musicale cosiddetta di provincia: ma mai come in questa circostanza l'attributo potrebbe essere un complimento. A partire dall'Orchestra (ORER) fatta di ottimi professori (per esempio: corni e legni) ma anche ben compatta ed agguerrita nell'insieme; un concertatore di tutto rispetto (Francesco Ivan Ciampa) che interpreta con gusto e senza sbracamenti una partitura solo apparentemente facile, ma piena di raffinatezze timbriche ed armoniche; e il coro del Municipale di Piacenza (Corrado Casati) che sfoggia bella compattezza musicale (oltre a quella fisica da scatola di sardine in cui lo costringe il regista!)

Cast bene assortito, fatto da interpreti già navigati e da altri scesi in acqua da meno tempo. La protagonista Wally (Saioa Hernandez) sfoggia un gran vocione drammatico, forse un po’ artificialmente gonfiato e quindi opaco nei centri ma con acuti staccati con sicurezza; buona anche la sua versatilità espressiva, necessaria per interpretare un personaggio dalla natura così poliedrica come quella della ragazzona esuberante ma anche capace di toccanti accenti lirici e di sentimenti profondi. Dovrà ancora studiare parecchio, ma si vede chiaramente per lei un futuro promettente.

Hagenbach è Zoran Todorovich, anche lui dotato naturalmente di voce di gran spessore e volume, proprio da Heldentenor: voce ancora da mettere sotto controllo e da impiegare con più espressività e varietà di accenti... insomma un futuro (se ben coltivato e programmato) da Siegfried!  

Il navigato Claudio Sgura impersona il complessato Gellner; di lui ripeto ciò che già ho scritto in passato: gran vocione gestito però approssimativamente e con tendenza continua all’eccesso di forzature con perdita di rotondità e morbidezza. Insomma, fin troppo truce e ruvido, il che mette un po’ in ombra il lato più lirico del personaggio.

Apprezzabile il Walter di Serena Gamberoni: voce appropriatamente leggera ma non pigolante, portamento sicuro e grande espressività, emerse già da subito nella romanza di esordio. Qualche vetrosità negli acuti non inficia la sua positiva prestazione.
 

Di buon livello i tre comprimari (che cantano part-time ma hanno parti non proprio secondarie). Stromminger è Giovanni Battista Parodi, voce ben impostata e passante; l’altro basso (Il Pedone di Schnals) è un efficace Mattia Denti, capace di esprimere gli accenti vuoi burloni vuoi severi del vecchio navigato; discreta anche la Afra di Carlotta Vichi, voce ben impostata e rotonda, che emerge anche dal trambusto della festa di Sölden.
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La regìa di Nicola Berloffa è tradizionale (il che per me è sempre un merito: di ambientazioni tipo scuole elementari o comunità di drogati ne abbiamo viste – per soggetti anche assai più importanti - a sufficienza) e quindi siamo in mezzo a gente di montagna (oddio, sui costumi forse i montagnoli avrebbero da ridire, nel senso che solitamente non si va in alta quota con il tacco-12... ma l’alta montagna è forse l’allegoria della solitudine della Wally e allora prendiamola per buona, ecco). Ma insomma sono cose perdonabili (caso mai si sorride un po’ sulla scena del rescue di Hagenbach, proprio da saggio scolastico) e la trama viene fuori abbastanza integra. Scene (di Fabio Cherstich) appropriate, compresa la scatola di sardine del second’atto, dove in 50 mq erano stipati tutti gli interpreti e il coro, una scena più adatta ad un barcone di quelli che purtroppo danno altro tipo di spettacolo nel Mediterraneo... Costumi (Valeria Donata Bettella) come detto, di epoca... boh, novecentesca e luci ben manovrate da Marco Giusti.    

Trovate più o meno gratuite: la Wally dovrebbe irrompere in scena (à la Minnie, come detto) scaraventando a terra Hagenbach per soccorrere il padre: invece qui la vediamo sostituita da Gellner (che forse si esercitava in vista del terz’atto...) mentre osserva da lontano. In compenso, nella scena del recupero di Hagenbach nel burrone, invece di scendere a mani nude nell’abisso, ecco che lei viene imbragata ridicolmente con una funicella e poi calata come un sacco di patate: forse il regista voleva raccontarci ciò che si legge nel romanzo e viene taciuto nel libretto, evabbè.   

A parte tutto, una proposta più che meritoria, purtroppo punita da un’affluenza di pubblico che lascia sempre più depressi.