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16 maggio, 2016

Donizetti ai confini della realtà (3)


Ieri pomeriggio alla Fenice (sala con parecchi vuoti) terza delle cinque recite de La Favorite. In sintesi: come fare di un Grand’Opéra una petite chose. Ci si è messa d’impegno principalmente la regista Rosetta Cucchi (che si serve delle scene di Massimo Checchetto, dei costumi assai curati di Claudia Pernigotti e delle luci sempre efficaci di Fabio Barettin) che ha usato testo e colonna sonora dell’opera di Donizetti per supportare un suo incredibile soggetto che, se proposto nel 1840 all’Opéra di Parigi, le avrebbe direttamente procurato un ricovero al manicomio. Ma essendo passati 175 anni (il progresso, gran cosa!) ecco che la sua straordinaria idea viene accolta come una manna dal cielo (!?)

In che consiste la pensata della Rosetta? Quando ho visto l’austero Convento di SanGiacomoDiCompostella trasformato nel caveau di una setta di monaci-stranamore del quarto millennio che ci conservano in enormi provette esemplari di flora (e fauna?) in via di estinzione e poi le donne che vengono trattate dai maschi come esseri subumani, non ho potuto far a meno di pensare a Giorgio Bracardi, il demenziale professor Spadone, farmacista di alto gradimento!

Insomma, un clichè (sette religiose dedite a riti esoterici e femmine bistrattate) che è buono per tutte le stagioni e per almeno un centinaio di melodrammi. Qui vediamo già nel prologo una specie di santo-gral-dei-poareti con il quale il fragile Fernand abbevera una schiera di novizie, ultima delle quali è la pia Léonor, che subito gli cade tra le braccia: così noi distratti non dobbiamo faticare qualche minuto dopo a comprendere la confessione del giovane al santone Balthazar.

L’Île-de-León ci dà subito l’idea della sottomissione delle donne: fanciulle completamente velate (oh, lì prima di Alphonse XI c’erano i musulmani, che lui aveva cacciato, ed evidentemente avevan fatto scuola!) in un ambiente che pare un harem collocato in una spa. E nel second’atto (all’Alcazar di Siviglia, non so se mi spiego) ecco ricomparire... le provette, anzi, che dico, un unico gigantesco provettone (6m di diametro per 10 di altezza, poichè anche il potere temporale non vuol esser da meno di quello spirituale) nel quale vengono ammassate le cortigiane del Re, che si presenta con tanto di manica e guanto da falconiere, perchè a nessuno sfugga la natura del suo ruolo! E nel quale si rappresenta anche il sontuoso balletto in onore della favorita: 2-danzatrici-2, qui mica siamo l’Opéra, dobbiam far le nozze con... le fiche secche (oh, sia detto con tutto il rispetto per la professionalità di Luisa Baldinetti e Sau-Ching Wong!) che a fine ballo esalano l’ultimo respiro e son trascinate come bestiole morte fino al proscenio dove rimangono fino a fine atto (così i poveri bocia del locale JockeyClub restano pure a bocca asciutta).

Ecco, poi il resto avviene in questi ambienti e su questa falsariga: una concettualizzazione piuttosto velleitaria, degna del più abusato Regietheater.
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Meglio sono andate le cose sul fronte dei suoni, dove Donato Renzetti ha solo un po’ esagerato con i decibel (ma ad onor del vero senza mai coprire le voci): per il resto ha diretto e concertato con la consueta sobrietà di gesto, ottenendo dall’agguerrita orchestra della Fenice (e dai singoli, come nel bellissimo attacco dell’atto quarto, con il dialogo fra l’organo e il violoncello) una bella resa delle atmosfere romantiche che caratterizzano questa partitura. Comunque a qualcuno non è piaciuto del tutto, a giudicare da qualche (timido) dissenso all’uscita finale. E bene si è portato il coro di Claudio Marino Moretti, che ha una parte di rilievo (monaci, cortigiani e cortigiane) in tutti i quattro atti.

Veronica Simeoni ha confermato le sue ottime doti di interprete, sul piano attoriale, e ha offerto una prestazione più che discreta su quello vocale, che ha una tessitura abbastanza impegnativa per un mezzo, andando dal LA sotto il rigo al SIb acuto.

John Osborn ha offerto il meglio di sè sui passaggi impervi (il DO# e i DO che abbondano) mentre non altrettanto convincente è stato su quelli più intimistici, resi con eccessivi ingolamenti della voce: ha ricevuto applausi a scena aperta dopo tutti i suoi numeri (singoli o in duo) e dopo la famosa Ange si pur (Spirto gentil) le ovazioni si sono protratte per un paio di minuti. Ma all’uscita singola due secchi buh dal loggione hanno probabilmente voluto sottolineare l’incompiutezza della sua prestazione.

Più che buono, a mio parere, il Balthazar di Simon Lim, voce robusta che ben si adatta al ruolo, e intonazione sempre corretta. Come già all’ascolto radiofonico, VIto Priante mi è parso poco penetrante e il suo Alphonse sa più di... Rossini che di Donizetti, anche se è giusto riconoscergli un’ottima presenza scenica e capacità di esibire sia il lato autoritario che quello magnanimo del carattere del Re.

Molto bene Ivan Ayon Rivas, che per radio non mi aveva impressionato più di tanto: invece dal vivo la sua voce squilla che è un piacere, anche nei concertati più fracassoni.

Pauline Rouillard ha una vocina che sarà anche adatta ad un ruolo di ancella servizievole, ma qui si esagera un po’ troppo con i piagnucolii, ecco. Salvatore De Benedetto ha svolto onestamente la sua particina.
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Comunque dirò che, nonostante tutto, valeva la pena di una gitarella in laguna, anche perchè, come ha osservato il venetiofobo Amfortas che ha visto la prima, i gabbiani sono tornati in letargo.

(3. fine)

07 maggio, 2016

Léonor di passaggio in laguna (2)

 

Telegrafiche note sulla prima de La Favorite, seguita ier sera su RAI5.

Renzetti ha rispettato quasi completamente la partitura, limitandosi a un paio di sforbiciatine: ha eseguito anche (quasi) tutto il balletto del second’atto. La sua direzione mi è parsa corretta nei tempi e nel sostegno alle voci: insomma, lui è un vecchio marpione che sa come portare a casa la serata.

Fra le voci, bene (non dico benissimo, per via dell’ascolto via etere - o cavo – che può sempre trarre in inganno) Osborn e benino la Simeoni. Priante ha fatto correttamente tutte le note, ma mi è parso mancare di spessore (la parte di Alfonso è quasi da baritono verdiano...) Darei una sufficienza ampia a Lim e più risicata a Rivas e alla pigolante Rouillard. All’altezza il coro di Moretti.

Sull’allestimento della Cucchi mi limito a constatare come si adatti altrettanto bene male a Parsifal (infatti qualcuno ci ha già pensato) e pure alla Forza del destino e financo ad Aida. Ergo: come ogni letto di Procuste che si rispetti, l’unica certezza che garantisce è di fare danni al corpo del malcapitato che ci viene steso sopra.

Prossimamente le sensazioni dal vivo.

(2. continua)

12 maggio, 2014

Il Tell(enin) di Vick approda a Torino


Il Regio di Torino riprende in questi giorni l’allestimento del Tell di Graham Vick presentato all’ultimo ROF. Solo l’allestimento, chè ogni altro ingrediente del minestrone è totalmente diverso: là il Guillaume originale di de Jouy e Bis, qui il Guglielmo in versione Calisto Bassi (per fortuna ripulito da Paolo Cattelan); là l’orchestra del Comunale di Bologna con Mariotti, qui quella del Regio con Noseda; e (quasi) tutto il cast cambiato.

Anche i contenuti musicali divergono non poco fra le due proposte: a Pesaro andò in scena l’opera (quasi) come da edizione critica della compianta M. Elizabeth C. Bartlet per la Fondazione Rossini (un paio di tagli, rispetto alla prima di Gelmetti del 1995, comunque furono perpetrati anche là: il Pas de deux e l’invocazione degli austriaci a Tell, nella scena della tempesta dell’atto finale). Mentre a Torino si è sostanzialmente seguita la versione Muti (Cattelan) del 1988, che è comunque basata – lingua del testo a parte - sulla versione critica, ma non ne accoglie al 100% i contenuti: quindi esclusa, rispetto a Pesaro, anche l’aria di Jemmy, prima del tiro-alla-mela; in più Noseda ha (forse per coprire manchevolezze degli interpreti?) tagliato alcune ripetizioni alla fine di duetti (Matilde-Arnoldo) e concertati (Giuriamo): beh, diciamo che sono sempre dolorosi ma non proprio… scandalosi, ecco.

Dalibor Jenis è un Tell discreto ma non di più (secondo me, ovviamente): gli manca quel tocco di autorità che sarebbe richiesto per la parte. Insomma, le note le canta, ma non… incanta. 

John Osborn è stato il trionfatore della serata, in virtù della sfilza di DO acuti che ha sciorinato: l’ultimo, sull’all’armi, proprio à-la-Duprez (acuto che Rossini aborriva come verso di bestia sgozzata, e infatti non lo scrisse) emesso con piglio addirittura irridente. Evidentemente, dopo la catastrofe a Santa Cecilia di qualche anno fa, il nostro deve averne fatto un punto d’orgoglio: diamogliene atto!

Angela Meade (Matilde) è davvero una cantante a-tutto-tondo (stra-smile!): ha mostrato buona impostazione, acuti ben portati; mi è parsa un filino meno efficace nelle note basse.

Luca Tittoto (il bieco Gessler) è l’unico superstite del ROF-2013: per me ha confermato la discreta prova di allora.  

Anna Maria Chiuri come Edvige si è ben distinta: voce calda e bene impostata. Lodevole anche la prova di Mirco Palazzi (Gualtiero) un basso che mi pare in continua crescita.

Fabrizio Beggi è un buon Melcthal. Nel video del quarto atto, evidentemente portato da Pesaro, si doveva vedere l’interprete di allora, Simone Alberghini. Invece il proiettore, proprio come Jemmy, è rimasto fermo e immobile: chissà, forse perché Alberghini ha chiesto troppo per i diritti di immagine… (smile!)

Marina Bucciarelli mi è parsa, come Jemmy, un filino sotto la media: voce piccola, poco penetrante ed espressione incerta.

Bravo nella sua parte piccola ma impegnativa Mikeldi Atxalandabaso, assai sicuro nei DO acuti cui è chiamato, per di più proprio a… rompere il ghiaccio.

Luca Casalin (capo degli arcieri) Ryan Milstead (Leutoldo) e Giuseppe Capoferri (un cacciatore) hanno degnamente completato il cast.

Ottimo come sempre il Coro di Claudio Fenoglio.

Quanto a Noseda, ha ancora una volta mostrato grande sensibilità e cura dei particolari. Merito anche dei ragazzi dell’orchestra; peccato che l’assolo iniziale del violoncello di Lukic sia stato rovinato da interventi sconsiderati di alcuni percussionisti dislocati in platea (all’ingresso andrebbe fatto a tutti un test di idoneità delle vie respiratorie…)
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Sulla regìa di Vick ho già scritto abbastanza peste-e-corna in occasione del ROF-2013, quindi mi limiterò a re-citare le due fondamentali negatività di questa produzione. La prima riguarda la scelta, tutta ideologica, del simbolismo (vetero-comunista) impiegato per presentare una lotta di popolo per la libertà e l’indipendenza: il pugno chiuso e le bandiere rosse (purtroppo, dobbiamo ammetterlo) hanno perso ai nostri occhi il loro originale e nobile contenuto, dacchè l’esperienza storica ci ha detto inconfutabilmente che essi non hanno mai portato ai popoli né libertà, né indipendenza, al contrario hanno prodotto sempre dittature e sovranità limitata. Per cui, sostituirle alla gloriosa bandiera rosso-crociata è un autentico delitto.

La seconda negatività riguarda lo spregio dei contenuti testuali e soprattutto musicali dell’opera, come ho esemplificato a suo tempo. Non a caso anche ieri alla fine dei balletti del terzo atto, accanto ai doverosi applausi per l’esecuzione musicale c’è stata una chiara manifestazione di dissenso fra il pubblico del Regio, indubbiamente rivolta contro le efferatezze di cui Vick ha infarcito quella scena.
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In ogni caso, ancora una volta, è la musica ad aver colpito l’immaginazione del pubblico (assai folto) che ha lungamente applaudito tutti i protagonisti.  

La produzione – in forma di concerto, quindi significativamente senza il contributo di Vick – verrà portata il 7 dicembre (proprio SantAmbrogio!) alla Carnegie Hall con lo stesso cast (primo-secondo) di questi giorni.

06 novembre, 2011

La donna del lago alla Scala


Ieri sera quarta rappresentazione (delle sette) de La donna del lago. Opera fin troppo trascurata dai teatri: un tempo perché si pensava che il Rossini romantico-drammatico fosse anche un Rossini minore; oggi con la scusa che l'opera richiederebbe un cast vocale troppo difficile o addirittura quasi impossibile da mettere insieme.

La Scala meritoriamente (una volta tanto) non si tira indietro e – dopo quasi 20 anni (Muti, 1992, con Blake, Anderson, Merritt, Dupuy, Surjan) – ripropone questo autentico gioiello, una delle cose più alte di tutto Rossini, in una nuova edizione, realizzata insieme all'ON di Parigi e alla ROH di Londra. Speriamo che queste co-produzioni servano almeno a spalmare una parte dei costi fissi su diversi clienti… in specie quando questi costi sono a fronte di prestazioni francamente discutibili.

Alludo ovviamente all'allestimento di Lluìs Pasqual (scene di Frigerio, costumi della Squarciapino e luci di Filibeck) che è di quelli che ti fanno venir voglia di chiederti: ma perché non lo fanno fare a me, povero pirla, che gli farei oltretutto risparmiare il 90% della parcella? Faccio un piccolo esempio relativo a scene e costumi. Ecco, siamo in un'opera di ispirazione romantica, con tanto di atmosfere ossianiche, ambientata a metà del 1500 nei dintorni e all'interno di un maniero scozzese, che si può vedere ancor oggi, ben restaurato:


E basta collegarsi col sito del castello di Stirling per avere millanta buone idee su come allestire le scene dei finali d'atto e su come vestire protagonisti e masse.

Ora invece, ditemi voi che valore (o piuttosto dis-valore) aggiunto mi dà una scena come questa:


Ma dico: pare di essere alla Traviata o al Rigoletto di Zeffirelli…

Altro discorso sarebbe una messinscena che indirizzi prevalentemente gli aspetti psico-esistenziali dei vari personaggi (e di materiale il libretto e la musica ne offrirebbero a josa): allora certo sarebbe legittimo e sensato astrarre la vicenda da tempi e spazi, focalizzandola sui moti dell'animo, sulle coscienze, sui sentimenti e sulle problematiche politiche che la caratterizzano. Ma allora basterebbe un ambiente da teatro greco (cioè i soli gradini del set di Frigerio e poco più (altro che lampadari, smoking e palazzi barocchi) mentre qualcosa di più e di meglio andrebbe fatto sul versante della recitazione.

Per fortuna il fronte musicale non ha tradito le aspettative. I personaggi principali sono cinque: i due tenori (acuto Uberto-Giacomo; più baritonale, ma con salite anche al DO, Rodrigo); il soprano (ma con parte quasi mezzo-sopranile, Colbran-oriented: Elena); il contralto (Malcom, en-travesti) e il basso (Duglas).

Uberto, il Re in incognito, è un tipo strano: nel poema di Walter Scott lui - che se ne va in giro col nome di James Fitz-James, Cavaliere di Snowdoun, per mescolarsi al popolo e coglierne gli umori – si perde per davvero durante una battuta di caccia al cervo, e perde pure il cavallo, così solo per puro caso si imbatte nella bella Ellen, che naviga in una barchetta sul Loch Katrine, in uno sfolgorante tramonto estivo. Si innamora di lei, torna a trovarla, ne viene respinto, ma alla fine, dopo aver ferito mortalmente il ribelle Roderick – pretendente della ragazza - perdona tutti i rivoltosi e favorisce l'unione di Ellen e Malcolm. Invece, nel libretto di Tottola - che evidentemente non si accontentava, con Rossini, di una vicenda così terra-terra - Uberto si reca di proposito in riva al lago - di buon mattino - per conoscere quella che gli è stata descritta come una donna straordinaria. Insomma, ci fa un po' la figura del voyeur arrapato (smile!) e la sua finale magnanimità ci appare proprio come un coupe de theatre. Ecco, questa personalità piuttosto bizzarra, di un sovrano che è allo stesso tempo un famelico innamorato, ma anche un invincibile spadaccino, un ebete cascamorto e un nobile magnanimo era affidata alla voce del divo JDF:

Forse a qualcuno non piacerà, e magari la sua voce, già non potentissima, comincia a dare segni di cedimento, ma insomma uno così, in questo repertorio perlomeno, non si trova tutti i giorni; specialmente negli acuti, affilati come… lame di Scozia, appunto.

La Elena di Tottola-Rossini, come e più della Ellen di Scott, è donna solo apparentemente debole e remissiva, forse introversa sì, ma anche decisa, autonoma nel giudizio e perfino ribelle. Nell'opera la sua personalità non ha nemmeno quel risvolto religioso che presenta la Lady di Scott (l'Ave Maria che ispirerà Schubert) e l'unico suo richiamo al Creatore è annegato nella stretta militaresca del Finale primo. Come nel poema da cui fu tratto il libretto, Elena non dissimula affatto la sua attrazione per Uberto e a noi resta sempre il dubbio che lei, quando Giacomo V la unisce, seduta stante, in matrimonio con Malcom, sia felice sì, ma… un filino pentita di aver perso l'occasione unica di prendere il posto, come padrona di casa a Stirling, di tale Marie de Guise! Joyce DiDonato ne è degnissima protagonista, sia nel canto – solo qualche piccolo problema nell'ottava bassa, ma niente di cui scandalizzarsi – che nella recitazione e nel portamento (dove è stata l'unica a distinguersi, in un grigiore registico totale).

Il puro-e-duro (e anche un tantino presuntuoso, come tutti i guevara-da-strapazzo) Rodrigo qui è John Osborn. Parte assai impervia, essendo per lunghi tratti baritonale, ma con ascese vertiginose fin su dalle parti di… JDF e addirittura oltre, come dimostratosi nel terzetto dell'atto secondo! E in effetti il ruolo di Uberto non gli andrebbe affatto male, poiché è proprio nella parte alta del pentagramma che il tenore dà le sue cose migliori. Personalmente non mi sentirei di censurarlo più di tanto: in fondo sarà pure cosa disdicevole, ma per il pubblico medio un bel DO acuto compensa alcuni DO e SIb gravi scarsamente udibili!

L'imponente Daniela Barcellona veste i panni del modesto – come personalità – Malcom. In effetti già certa critica di inizio '800 rimproverava a Scott di aver fatto eccessivi favori a Malcolm Graeme, un personaggio che ha l'unico merito di essere innamorato – e ricambiato – da Ellen. Perché per il resto pare un tipo abbastanza mediocre, se non pavido, uno che cerca di non esporsi troppo – e caso mai più per l'amata che per il suo clan - a differenza del fierissimo Roderick. E non è escluso che questa attitudine da mezza-sega (con tutto il rispetto, smile!) abbia indotto Tottola-Rossini a sceglierlo come personaggio en-travesti (detto senza offesa per i travestiti, sia chiaro). Però, come castigo, i nostri autori gli hanno tolto il privilegio fattogli da Scott di cantare, prima del finale, la canzone del prigioniero dalla torre, arietta regalata invece al tenore Uberto (Aurora! ah sorgerai…) Tuttavia, e per fortuna, noi abbiamo qui una travestita coi fiocchi, la quale – a dispetto di una indisposizione, come annunciato prima dell'inizio – canta più che dignitosamente la sua parte assai impervia. Forse le condizioni fisiche le hanno consigliato di abbassare un poco il volume, peccato che Abbado invece abbia mantenuto imperterrito (parlo della seconda parte dell'aria del primo atto) quello dell'orchestra, strumentini soprattutto. Comunque complimenti per la professionalità di questa artista, persona oltretutto riservata, seria ed equilibrata, come si può evincere da questa intervista fattale da un Amfortas sotto mentite spoglie (smile!)

Tale James Douglas (Duglas per Tottola) in Scott è non solo il padre di Ellen e un esiliato – con Malcolm Graeme - dalla corte di Giacomo V, ma anche una persona di retti principii, che mai e poi mai tradirebbe il suo Re. Addirittura nega a Roderick la mano della figlia! E non per nulla Giacomo V, alla fine, lo risparmia con ampia assoluzione. Invece Tottola, dovendo animare in qualche modo il suo dramma e fornire a Rossini materiale per musica tosta, rivolta come un calzino il personaggio di Scott e ne fa nientemeno che il capo – e non solo spirituale - dei ribelli. E già che c'è, anche un padre piuttosto nazista, che vorrebbe imporre alla figlia il marito che dice lui (Rodrigo, ovviamente). Ne esce una figura da classico basso cattivo, che Simon Orfila cerca di rendere come può: il cattivo c'è di sicuro, tutto sta a vedere se per caso non sia il canto (smile!)

Gli altri: LoMonaco-Albina, Kwon-Serano e Shin-Bertram su un piano di dignitosa sufficienza (con un ++ per il soprano).

Il coro di Casoni – criticato alla prima – sembrerebbe tornato sui suoi standard normali.

E Roberto Abbado? A me è parso voler calcare la mano – poco o tanto – sul versante romantico della partitura, mettendo in risalto tutti i lati verdiani della stessa. Il risultato è stato un certo slentamento di tempi e qualche volta un eccesso di fracassi, con conseguente copertura di voci. Così ci ha però chiarito come in Rossini si annidassero evidenti i prodromi di ciò che nei decenni successivi sarebbe accaduto nel melodramma italico, e non solo. In ogni caso i soli – timidi – buh finali (dopo i bravo al rientro) sono stati proprio per lui. 

A proposito di reazioni del pubblico, la zona sinistra del primo loggione è parsa tanto scatenata nelle approvazioni, per tutti quanti, da destare qualche sospetto di... parzialità. In ogni caso - a parte che meriterebbe una richiesta di rimborso della quota-regìa del biglietto… - spettacolo più che degno sotto il profilo musicale.
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