Ieri pomeriggio
alla Fenice (sala con parecchi vuoti)
terza delle cinque recite de La Favorite. In sintesi: come fare di un Grand’Opéra
una petite chose. Ci si è messa
d’impegno principalmente la regista Rosetta
Cucchi (che si serve delle scene di Massimo
Checchetto, dei costumi assai curati di Claudia
Pernigotti e delle luci sempre efficaci di Fabio Barettin) che ha usato testo e colonna sonora dell’opera di
Donizetti per supportare un suo incredibile soggetto che, se proposto nel 1840
all’Opéra di Parigi, le avrebbe direttamente procurato un ricovero al
manicomio. Ma essendo passati 175 anni (il progresso, gran cosa!) ecco che la
sua straordinaria idea viene accolta come una manna dal cielo (!?)
In che consiste
la pensata della Rosetta? Quando ho
visto l’austero Convento di SanGiacomoDiCompostella
trasformato nel caveau di una setta
di monaci-stranamore del quarto
millennio che ci conservano in enormi provette esemplari di flora (e fauna?) in
via di estinzione e poi le donne che vengono trattate dai maschi come esseri
subumani, non ho potuto far a meno di pensare a Giorgio Bracardi, il demenziale professor Spadone,
farmacista di alto gradimento!
Insomma, un clichè (sette religiose dedite a riti
esoterici e femmine bistrattate) che è buono per tutte le stagioni e per almeno un
centinaio di melodrammi. Qui vediamo già nel prologo una specie di santo-gral-dei-poareti con il quale il
fragile Fernand abbevera una schiera di novizie, ultima delle quali è la pia
Léonor, che subito gli cade tra le braccia: così noi distratti non dobbiamo faticare
qualche minuto dopo a comprendere la confessione del giovane al santone
Balthazar.
L’Île-de-León ci dà subito l’idea della sottomissione delle
donne: fanciulle completamente velate (oh, lì prima di Alphonse XI c’erano i
musulmani, che lui aveva cacciato, ed evidentemente avevan fatto scuola!) in un
ambiente che pare un harem collocato
in una spa. E nel second’atto (all’Alcazar di Siviglia, non so se mi spiego)
ecco ricomparire... le provette, anzi, che dico, un unico gigantesco provettone
(6m di diametro per 10 di altezza, poichè anche il potere temporale non vuol
esser da meno di quello spirituale) nel quale vengono ammassate le cortigiane
del Re, che si presenta con tanto di manica e guanto da falconiere, perchè a nessuno sfugga la natura del suo ruolo! E nel
quale si rappresenta anche il sontuoso balletto in onore della favorita: 2-danzatrici-2,
qui mica siamo l’Opéra, dobbiam far
le nozze con... le fiche secche (oh, sia detto con tutto il rispetto per la
professionalità di Luisa Baldinetti e Sau-Ching Wong!) che a fine ballo esalano l’ultimo
respiro e son trascinate come bestiole morte fino al proscenio dove rimangono fino
a fine atto (così i poveri bocia del
locale JockeyClub restano pure a
bocca asciutta).
Ecco, poi il resto avviene in questi ambienti
e su questa falsariga: una concettualizzazione
piuttosto velleitaria, degna del più abusato Regietheater.
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Meglio sono
andate le cose sul fronte dei suoni, dove Donato
Renzetti ha solo un po’ esagerato con i decibel
(ma ad onor del vero senza mai coprire le voci): per il resto ha diretto e
concertato con la consueta sobrietà di gesto, ottenendo dall’agguerrita orchestra
della Fenice (e dai singoli, come nel bellissimo attacco dell’atto quarto, con
il dialogo fra l’organo e il violoncello) una bella resa delle atmosfere
romantiche che caratterizzano questa partitura. Comunque a qualcuno non è
piaciuto del tutto, a giudicare da qualche (timido) dissenso all’uscita finale.
E bene si è portato il coro di Claudio
Marino Moretti, che ha una parte di rilievo (monaci, cortigiani e
cortigiane) in tutti i quattro atti.
Veronica Simeoni ha
confermato le sue ottime doti di interprete, sul piano attoriale, e ha offerto
una prestazione più che discreta su quello vocale, che ha una tessitura abbastanza
impegnativa per un mezzo, andando dal
LA sotto il rigo al SIb acuto.
John Osborn ha offerto il
meglio di sè sui passaggi impervi (il DO# e i DO che abbondano) mentre non altrettanto
convincente è stato su quelli più intimistici, resi con eccessivi ingolamenti
della voce: ha ricevuto applausi a scena aperta dopo tutti i suoi numeri
(singoli o in duo) e dopo la famosa Ange
si pur (Spirto gentil) le ovazioni si sono protratte per un paio di minuti.
Ma all’uscita singola due secchi buh
dal loggione hanno probabilmente voluto sottolineare l’incompiutezza della sua
prestazione.
Più che buono, a
mio parere, il Balthazar di Simon Lim,
voce robusta che ben si adatta al ruolo, e intonazione sempre corretta. Come
già all’ascolto radiofonico, VIto Priante
mi è parso poco penetrante e il suo Alphonse sa più di... Rossini che di
Donizetti, anche se è giusto riconoscergli un’ottima presenza scenica e capacità
di esibire sia il lato autoritario che quello magnanimo del carattere del Re.
Molto bene Ivan Ayon Rivas, che per radio non mi
aveva impressionato più di tanto: invece dal vivo la sua voce squilla che è un
piacere, anche nei concertati più fracassoni.
Pauline Rouillard ha una
vocina che sarà anche adatta ad un ruolo di ancella servizievole, ma qui si esagera
un po’ troppo con i piagnucolii, ecco. Salvatore
De Benedetto ha svolto onestamente la sua particina.
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Comunque dirò
che, nonostante tutto, valeva la pena di una gitarella in laguna, anche perchè,
come ha osservato il venetiofobo Amfortas che ha visto la prima, i gabbiani sono tornati in letargo.
(3. fine)
2 commenti:
Grazie della citazione. Peccato che si sia persa un'occasione, alla fine, la parte musicale era di buon livello. Quest'anno con le regie non è stato proprio il massimo...chissà che ci combina la Marchini per L'amico Fritz!
Ciao :-)
@Amfortas
Per me l'importante è che l'orecchio sia rimasto soddisfatto. Quanto all'occhio, se ne farà una ragione (!?)
Torno anch'io in laguna per il Fritz che la squisita Simona sono certo illustrerà al meglio (ma i gabbiani si risveglieranno?)
Ciao!
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