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09 aprile, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 24

L’appuntamento di questa settimana vede sul podio dell’Auditorium il 37enne Maxime Pascal, tornato qui dopo due anni per dirigere un concerto di musiche del ’900 e dello... ‘000 (che gli vanno assai a genio, a giudicare dal suo repertorio).  Auditorium tornato allo scarso affollamento: non si può suonare ogni settimana la coppia Mozart-Beethoven... ma certo il programma odierno è, per così dire, per stomaci forti, ecco.

È Silvia Colasanti ad aprire la serata con un suo brano orchestrale del 2007, Cede pietati, dolor - Le anime di Medea, un titolo quanto mai attinente alla tragica attualità. [A proposito, al nostro super-Mario è scappato il classico lapsus freudiano draghiano, quando ci ha chiesto di scegliere fra la pace e il condizionatore acceso... mentre anche i sassi capiscono che - caso mai - è la guerra che rischia di spegnerlo, il nostro condizionatore, e insieme a lui il 40% della nostra economia, fabbricanti d’armi esclusi.]

Il brano, come lascia intuire il titolo, è ispirato da un verso della Medea di Seneca, parole pronunciate da lei pochi attimi prima di trucidare i figli: un ultimo spiraglio di umanità, prima dell’efferato delitto:  

Perché esiti, anima mia? Queste lacrime, perché mi bagnano il volto? Di qua l'odio, di là l'amore, mi strappano, mi dividono, perché? Opposte correnti mi rapiscono, nella mia incertezza. Rabbiosi venti si fanno guerra spietata, flutto contro flutto si scatena, il mare ribolle e non ha sbocco: è così, proprio così, che il mio cuore è sconvolto. L'ira dà il bando alla pietà, la pietà all'ira. Rancore, cedi alla pietà.

I 12 minuti del brano evocano efficacemente lo stato d’animo disturbato di Medea: ondate di un mare in tempesta si abbattono sugli scogli, deboli spiragli di luce e di calma vengono regolarmente cancellati da nuovi uragani. Alle due estremità del brano pare di sentire un’atmosfera di DO, alla fine c’è una sospensione attorno alla dominante (MI-FA-SOL-SI); ma poi ecco lo schianto che fa presagire il peggio.

É un peccato che quest’opera si possa soltanto fruire live: non (mi) risulta esistano incisioni, a meno di qualche... pirata. Di sicuro anche qui il pubblico l’ha accolta con palese apprezzamento. 
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Segue poi un brano di rarissima esecuzione, il Concerto per violino e strumenti a fiato di Kurt Weill, compositore noto soprattutto per il suo sodalizio con il più celebrato Bertold Brecht. Ad interpretarlo è la 45enne Patricia Kopatchinskaja, dimostrazione vivente che dalla sottosviluppata Moldova non emigrano qui da noi esclusivamente premurose badanti, ma anche artisti di gran valore e di straordinaria umanità.

Il concerto è del 1924, catalogato quindi nella prima stagione della produzione di Weill, prevalentemente orientata allo strumentale, cui seguì quasi soltanto musica per il teatro (la cui perla è la Dreigroschenoper) e poi, in USA, per Broadway e Hollywood.

Oltre al violino solista e ai fiati sono in realtà previste in partitura anche alcune percussioni e pure i contrabbassi, i quali ultimi hanno funzione prevalente di supporto al ritmo, ma saltuariamente anche di protagonisti della melodia.

Come le - e anche più delle - altre composizioni strumentali del primo Weill, il Concerto si caratterizza per l’innovazione della forma (che pochissimo ha a che spartire con quella classica) e soprattutto per la spiccata atonalità, che ricorda il primo Schönberg e ha riflessi mahleriani e pure straussiani. Weill non abbracciò il nascente serialismo, anche se nel Concerto troviamo molte linee melodiche costituite da successioni di 9-10-11 note diverse della scala cromatica.

Un’interessante analisi delle caratteristiche del Concerto (e di altre tre composizioni strumentali di Weill immediatamente precedenti ad esso) si trova in questa tesi di laurea di 50 anni fa. Il primo movimento anzichè la classica forma-sonata presenta una struttura più vicina forse al rondò: A-B-C-B’-D-E-A’, e in esso compaiono non meno di 10 diversi temi! Il secondo movimento - più tonale - si articola in tre parti distinte: Notturno-Cadenza-Serenata. Il terzo si presenta con un saltarello e si spinge ancor più verso riferimenti tonali, chiudendo su una figura dominante-tonica di FA maggiore.      

La vulcanica Patricia si impegna al massimo (lo spartito tenuto sotto gli occhi testimonia che il brano non è proprio un suo... cavallo di battaglia, e direi comprensibilmente) ma la sua tecnica sopraffina non basta a fare di un onesto prodotto un capolavoro, ecco.

Comunque ci addolcisce la... pillola con un bis in combutta con il clarinetto del mitico Fausto Ghiazza
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Infine la Musica per archi, percussioni e celesta di Bela Bartók, del 1936, commissionata al compositore dal direttore d’orchestra e magnate rossocrociato Paul Sacher per la sua Orchestra da camera di Basilea.

Gli studiosi che hanno analizzato minuziosamente la tecnica compositiva di Bartók ci dicono come - accanto alle ricerche sulle musiche popolari del suo Paese, ma anche di Paesi balcanici e mediorientali (Turchia, ad esempio) - il compositore ungherese abbia anche impiegato tecniche derivate dalla matematica (che sappiamo fin dai greci avere con la musica legami indissolubili). Fra queste si cita ampiamente l’uso della Serie di Fibonacci e del concetto di Sezione aurea. Ed è proprio il brano eseguito qui che viene citato come esempio di tali impieghi, che vanno dall’uso di intervalli (per melodia e armonia) rappresentati esclusivamente da numeri presenti nella Serie del matematico Pisano (1-2-3-5-8 semitoni, cioè seconda minore, seconda, terza minore, quarta e sesta minore) alla suddivisione di un brano musicale in sezioni i cui numeri di battute siano parte della suddetta serie.

Testimonianza di ciò sarebbe (Ernö Lendvai, 1955) la struttura del primo movimento (Andante tranquillo) suddivisibile in sezioni che si estendono fra le battute 1-5-13-21-34-55-89, tutti numeri della serie incriminata. Questa osservazione è peraltro già stata mesa in dubbio (ad esempio da Gareth E. Roberts, 2012) in quanto affetta da inaccuratezze (banalmente: le battute sono 88 e non 89!) e forzature.

Ciò che invece è interessante di questo primo movimento è la sua forma peculiare: trattasi infatti di una Fuga caratterizzata da una successione di entrate delle diverse voci (inizialmente 5) che si muovono alternativamente sul circolo delle quinte: le entrate pari (2-4-6...) successive all’iniziale LA, passano a MI, poi a SI, quindi a FA#, a DO#, a LAb e infine a MIb (distante quindi un tritono dalla nota di partenza); quelle dispari (3-5-7...) si muovono invece verso il basso, quindi vanno al RE, poi al SOL, al DO, al FA, al SIb e infine al MIb, dove avviene il ricongiungimento con l’ultima delle voci ascendenti e si ha il climax del movimento. Da qui inizia il cammino inverso, caratterizzato dall’inversione dell’incipit del tema originale e del percorso sul circolo delle quinte: partendo dal MIb le entrate pari scenderanno a LAb, poi a DO#, quindi a FA#, SI, MI e finalmente a LA, mentre le dispari saliranno al SIb, FA, DO, SOL, RE per arrivare al LA su cui il movimento si chiude come si era aperto.

Come si vede, una struttura a dir poco ingegneristica (in realtà con qualche piccola... trasgressione alla regola che tralascio di citare) che, sommata all’intrinseca severità della forma (le barbare stranezze fiamminghe, copyright Camerata dei Bardi) può effettivamente rendere questo movimento assai ostico, per non dire indigeribile. Per curiosità, la celesta entra con i suoi liquidi arpeggi solo sulle battute 78-81.

Il secondo movimento è invece un Allegro in forma-sonata, uno scherzo indiavolato nel quale fa capolino anche un particolare strumento percussivo: il pianoforte. Come scrisse l’Autore: la tonalità di base è DO e quella secondaria è la dominante SOL (sacri canoni). Lo sviluppo ripresenta anche (in inverso) il tema della Fuga del primo movimento e poi anticipa quello del movimento conclusivo. La ripresa è in tempo (3/8) diverso da quello (2/4) dell’esposizione.

Segue poi il terzo movimento (Adagio, in FA#) a struttura ad arco, o palindrome (A-B-C+D-B-A). É introdotto da 5 battute dove è protagonista lo xilofono, che ribatte un FA naturale su un ritmo di... Fibonacci: 1-1-2-3-5-8-5-3-2-1-1! Ciascuna delle 4 sezioni riprende la corrispondente sezione del tema della Fuga del primo movimento. Celesta, arpa e pianoforte creano atmosfere notturne, quasi spettrali. Ancora gli acuti tocchi di FA naturale dello xilofono chiudono sul FA# tenuto delle viole e due sommessi colpi in DO dei timpani.

Il quarto movimento (Allegro molto, in LA) presenta non meno di 7 temi, strutturati in 4 sezioni, la penultima delle quali (prima del ritorno del tema principale) ripresenta, trasfigurato, il tema iniziale della Fuga. Un secondo pianoforte si aggiunge ad arricchire il volume di suono. Dopo alternanza di passaggi convulsi e più calmi, si chiude in un esilarante LA maggiore.

Pascal dispone pianoforte (solo uno) celesta e arpa proprio davanti a sè, come prescrive del resto la partitura; gli archi, che Bartók divide praticamente in due diverse orchestre, sono invece disposti in modo quasi tradizionale.

Esecuzione direi impeccabile, accolta da meritati applausi per Direttore e suonatori.  

19 aprile, 2020

Ascese e cadute


Tipo: la Sanità lombarda da Formigoni a Fontana?

Ecco, più o meno: come la città di Mahagonny. Le cui vicissitudini, invece che essere messe in scena tra qualche giorno a Parma e poi a Reggio Emilia (altro personale appuntamento sfumato... a proposito: #iorinuncioalrimborso) si possono oggi seguire in diretta ascoltando i gorgheggi del tenore Matteo Salvini, del castrato Giulio Gallera e del soprano Licia Mattioli. Insomma: nulla di nuovo sotto il sole, direbbe Brecht.

E infatti, corsi-e-ricorsi: il Songspiel e poi l’Opera che ne fu l’estensione videro la luce nel bel mezzo della più grave crisi economica del capitalismo, che mise in ginocchio l’intero pianeta! Ma della quale questa riservata a noi, millantati inossidabili del terzo millennio, promette assai bene di battere tutti i record...

LasVegas, Billionaire e paradisi fiscali, ecco le moderne Mahagonny. Ma dice bene Fatty, alla fine:

Potrai ben parlar dei suoi bei giorni
potrai pure scordarli i suoi bei giorni,
potrai vestirlo d’una linda camicia:
non potrai salvarlo, un uomo morto.

20 aprile, 2016

laVERDI fa teatro con Michieletto

 

Ieri sera il Piccolo Teatro di Milano – a 60 anni di distanza dalle storiche rappresentazioni di Strehler – ha tenuto a battesimo la prima delle ben 44 recite di Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, presentata nella traduzione italiana di Roberto Menin) di Brecht-Weill e messa in scena da Damiano Michieletto. In buca elementi dell’Orchestraverdi e sul podio uno dei suoi Direttori quasi stabili, Giuseppe Grazioli.

Teatro affollatissimo (con balconata presa d’assalto da adolescenti, il che è un gran bel segno) e a lungo plaudente per l’intera compagnia, interpreti, musicisti e regia.

Sul piano musicale la dozzina di strumentisti (fiati, tastiere e percussioni) de laVERDI sotto la direzione di Grazioli ha svolto efficacemente il suo compito di supporto alle canzoni e ballate che costellano questo particolare Singspiel, dove le parti recitate hanno un peso preponderante su quelle musicate. E forse per questa ragione, dato che il corposo testo di Brecht è stato impiegato in larghissima misura (pochi i tagli o le variazioni) si è deciso di impiegare più attori-cantanti che cantanti-attori. Di conseguenza sarebbe ingeneroso mettersi a giudicare gli interpreti sotto il piano puramente musicale. L’importante è che tutti abbiano fatto del loro meglio per rendere godibilissimo lo spettacolo. Mi limito a citare un nome per tutti: l’impareggiabile Peachum di Peppe Servillo.

Michieletto – che viene dal teatro di prosa, conviene ricordarlo – ha impiegato la sua fantasia per dare all’opera un tocco di attualità, prendendosi quindi qualche libertà rispetto al testo originale.

Le scene di Paolo Fantin hanno come base costante l’aula-bunker di un tribunale (il processo a Mackie) dentro la quale vengono rivissute le vicende dell’opera come fossero deposizioni di testimoni: la cosa può forse rischiare di apparire monotona tanto che, per movimentare la scena, le varie suppellettili (scranno del giudice, tribunetta della giuria popolare e banchetti degli imputati) sono montate su rotelle per poter essere facilmente spostate quà e là. Efficaci i costumi di Carla Teti e le luci di Alessandro Carletti. Chiara Vecchi è responsabile delle coreografie che movimentano alcune scene dell’opera.

Dicevo delle libertà che si è preso Michieletto, intese a dare qualche tocco di contemporaneità alla storia, di per sé sempre attuale, di Brecht. Cito come esempio la scena - terzo atto, invero di grandissimo impatto - dei mendicanti di Peachum che vengono presentati come moderni migranti naufraghi a cui poi vengono a mancare anche i giubbetti arancione di galleggiamento, facendoli colare a picco. E soprattutto il finale, dove il regista è quasi più brechtiano di Brecht: presentandoci la mancata esecuzione capitale di Mackie come effetto della corruzione dei magistrati (con una gran nuvola di banconote sparate fuori dalla classica 24ore-da-mazzette) prima ancora che dall’insperata grazia concessa dalla corona britannica. Ma nel complesso mi sentirei di giudicare l’allestimento fra il buono e l’ottimo.

In conclusione, una proposta che fa onore al teatro che fu dei grandi Giorgio Strehler e Paolo Grassi.

24 aprile, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 31


Continua la sequenza dispari delle sinfonie mahleriane. Di scena questa settimana la Quinta, e sul podio torna per l’occasione John Axelrod.   

Come aperitivo il programma prevede la Suite dalla Mahagonny (vicissitudini di una città… dagli altari alla polvere) di Kurt Weill. Si tratta di sette brevi estratti dall’opera (circa 20’) approntati 30 anni dopo la composizione originale (che è del 29-30) da Wilhelm Brückner-Rüggeberg, direttore d’orchestra abbastanza noto a metà del ‘900 anche per avere diretto e inciso le opere della coppia Brecht-Weill con Lotte Lenya. Nel 1998 Mariss Jansons ha inciso la suite con i Berliner.

La Suite apre con l’Allegro giusto che introduce l’irresistibile ascesa della città; ci sentiamo anche la famosa Alabama song (nel Moderato assai, N°2) che poi torna anche nel finale, il Largo (senza voci, ovviamente) che certifica, a mo’ di marcia funebre, il fallimento di questa specie di LasVegas del malaffare.

Insomma, un bel bigino dell’opera e una interessante novità proposta da laVERDI, che Axelrod ha diretto in modo teso e vibrante e che il pubblico ha accolto con calore.
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La Quinta è ormai un altro dei cavalli di battaglia de laVERDI, che l’ha eseguita fin dai tempi di Delman, per passare poi a Chailly e infine alla Xian e a Caetani. Axelrod si trova quindi a beneficiare di una ricca dote di esperienza, alla quale lui aggiunge la sua personale sensibilità, che gli viene anche dall’esempio di uno dei suoi maestri, Leonard Bernstein.

Peraltro il Maestro texano si guarda bene dal prendersi tutte quelle (eccessive, francamente) libertà che il grande Lenny si poteva permettere! La sua è una direzione rigorosissima sul piano di agogica e dinamica, proprio nello spirito mahleriano: da incorniciare la prima parte, con i due movimenti funebri, ma tutta l’esecuzione è stata davvero rimarchevole e i ragazzi si sono superati (l’attacco in unisono dei 4 corni dello Scherzo ha mostrato l’unica pecca tecnica dell’intera esecuzione) meritandosi alla fine grandi ovazioni da un pubblico entusiasta.

28 ottobre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 6


Il 6° concerto de laVerdi è – cosa piuttosto inconsueta – dedicato al Jazz. Per la verità non è proprio tutto jazz, anzi… ma va bene lo stesso.

Si inizia con la suite dall'Opera da tre soldi di Weill (Brecht), per orchestra senza archi, ma con saxofoni, banjo, fisarmonica, pianoforte e batteria . Consta di 8 numeri, dei quali soltanto il 4°, la Ballata della bella vita, ha un qualche vago tratto jazzistico:

1. Ouvertüre;
2. Die Morität von Mackie Messer (n°2, Atto I);
3. Der Annstat daß-Song (n°4, Atto I);
4. Die Ballade vom angenehmen Leben (n°14, Atto II);
5. Pollys Lied (n°11a, Atto II);
6. Tango-Ballade (Zuhälterballade, n°13, Atto II);
7. Der Kanonen-Song (n°7, Atto I);
8. Dreigroschen-Finale (n°21, Atto III).

Come si vede, l'ordine non rispetta la sequenza dei brani nell'opera, ma la cosa si spiega e giustifica proprio dal punto di vista sinfonico, a cui Weill evidentemente teneva molto. 

Abbiamo poi Shostakovich, e la sua Suite per orchestra di teatro di varietà. Si tratta di una composizione di metà anni '50, spesso citata – anche nel sottotitolo della locandina del concerto - come Jazz Suite n°2. In realtà esiste una Suite n°2 per orchestra jazz, in tre movimenti, composta nel 1938 su ordinazione dell'appena creata Orchestra Jazz di Stato dell'URSS, e prima di essa, anche una Suite n°1 del 1934, op. 38°, sempre in 3 movimenti. Gli originali di queste due Suite andarono persi durante l'ultimo conflitto mondiale e solo recentemente ne sono stati recuperati gli spartiti. Quindi, fra la Suite n°2 del 1938 e la Suite eseguita in questo concerto non vi è relazione alcuna, ma solo parecchia… confusione! A cominciare dal riferimento al jazz, che in quest'ultima Suite è veramente assai labile, e limitato all'impiego in un'orchestra sinfonica classica di strumenti tipici del jazz, come i saxofoni, chitarra, pianoforte (a 4 mani) e – singolarmente – la fisarmonica. (Le due Suite del '34 e '38 viceversa sono scritte propriamente per complessi jazzistici, dove gli strumentini sono assenti e gli archi… quasi.)

Anche questo brano è composto da 8 numeri, in gran parte imprestiti da opere precedenti di Shostakovich (il pezzo più noto è il secondo walzer, n°7, reso famoso da Kubrik, che ne portò l'esecuzione di Chailly col Concertgebow nel suo Eyes wide shut):

1. Marcia;
8. Finale.

Shostakovich lascia al Direttore piena libertà di scelta nella sequenza dei numeri, e Grazioli sceglie questo ordine: 1-5-2-6-4-7-3-8, in pratica intercalando i tre movimenti di walzer agli altri. Gran successo e bis – praticamente scontato - del secondo walzer.

Dopo l'intervallo, la musica dal balletto Fancy free di Leonard Bernstein (trama e coreografie di Jerome Robbins) andato in scena il 18 aprile del 1944, in piena guerra, e poche settimane dopo che il ventiseienne Direttore era salito alla ribalta sostituendo all'ultimo minuto Bruno Walter in un concerto della NYPO. Vi sono rappresentati tre marinai in permesso, che arrivano nella grande mela e cercano… indovinate? Ne trovano un paio, ma non bastano, così i tre si sfidano fino ad azzuffarsi e le due… tagliano la corda. Passa per strada una terza gran gnocca, e i tre si danno all'inseguimento. Tutto qui, per circa mezz'ora di musica, suddivisa in 7 numeri:

1. I tre marinai;
2. Scena al bar;
3. Le due ragazze;
4. Passo a due;
5. Scena della sfida;
6. Tre variazioni di danza: Galop, Walzer, Danzon;
7. Finale.

Grazioli taglia il n°5 (che richiama tematicamente il n°1) ed è un peccato, poiché si tratta di un travolgente brano, che impegna tutta l'orchestra; invece sopperisce in qualche modo (con una voce baritonale che sembra provenire dall'aldilà…) alla musica introduttiva al balletto, che inizia con una canzone irradiata da un juke-box: si tratta di Big stuff, resa famosa dalla mitica Billie Holiday (ma cantata anche dallo stesso Bernstein, in un'incisione con la NYPO):
Il tema della canzone è ripreso però - in diversa tonalità - nel quarto brano (Pas de deux).

L'orchestra di Bernstein ha poco di jazzistico (mancano sax, banjo, xilofoni): è la classica orchestra sinfonica tardo-romantica, con pianoforte e qualche percussione esotica in più. Lo spirito del jazz si sente invece fin dalle prime battute:

Pochi mesi dopo l'esordio di Fancy Free, la sua trama (non la musica) fu riutilizzata nel musical di Broadway On the town.

Accoglienza un po' freddina, forse per via della chiusa che arriva improvvisa e imprevista. Poi però il pubblico dà il giusto riconoscimento ai ragazzi e al Direttore.

Chiude la kermesse Duke Ellington con la sua Creatura della notte, del 1956, già eseguita e incisa da laVerdi nel 1999. Comprende tre brani, di cui lo stesso Ellington spiegò il contenuto, più o meno in questi termini:


1. Blind Bug: Un insetto cieco esce fuori ogni notte per danzare, usando le sue antenne per schivare ostacoli e pericoli, per continuare il suo ballo sfrenato.

2. Stalking Monster: C'è un mostro immaginario che tutti noi temiamo di dover incontrare a mezzanotte. Quando lo incontrassimo davvero, di sicuro scopriremmo che anche lui fa il boogie-woogie.

3. Dazzling Creature: Le creature notturne, di notte, non appaiono, ma entrano in scena. Prima che la notte finisca, ciascuna di loro pensa che sarà una star. Con la loro carica erotica aspirano al riconoscimento da parte della regina, una donna splendente che regna sopra di loro. Ad un suo schioccar di dita, tutte si scatenano per mostrare la loro unicità.
Insomma, anche il Jazz è stato evidentemente contagiato dal poema sinfonico! Ma del resto Duke Ellington non esitò a cimentarsi nella direzione di importanti orchestre europee, inclusa quella della Scala, con cui il duca incise, alle 5 di un pomeriggio di febbraio del 1963, La Scala, She Too Pretty To Be Blue (lei troppo bella, per essere triste) composto alle 10 del mattino di quello stesso giorno!


In effetti l'orchestra di Night creature è l'insieme di un complesso classico, senza trombe e tromboni, integrato da un complesso jazz di sax, trombe, tromboni, pianoforte e batteria, più un contrabbasso che suona – tipico del jazz – solo in pizzicato. La tromba solista è chiamata, nel finale, ad autentici miracoli, con note in sovracuto da far scoppiar le tempie.

E siccome il successo è travolgente, la terza parte della suite viene ripetuta come bis! Una prova davvero entusiasmante che testimonia ancora una volta delle qualità della nostra orchestra.

Prossimamente si ritorna a programmi austeri, con Aldo Ceccato che si cimenterà nientemeno che col Requiem verdiano!
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