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06 febbraio, 2025

La prima giornata del Ring di McVicar alla Scala.

La marcia di avvicinamento al ciclo completo del Ring, affidato (per l’allestimento) a David McVicar, è iniziata lo scorso ottobre con la vigilia (Das Rheingold) e prosegue ora con la prima giornata (Die Walküre).

[Poi riprenderà con Siegfried (giugno) e Götterdämmerung (febbraio 2026) per approdare alla meta (due cicli completi nelle due prime settimane) a marzo 2026, con qualche mese di anticipo sulla (storica?) ricorrenza dei 150 anni dall’apertura del baraccone Festspielhaus di Bayreuth.]

Tutta (o quasi…) la produzione di Wagner è (o pretende di essere, nella immodesta concezione dell’Autore) portatrice di concetti estetici, ma anche etici, filosofici, politici e, soprattutto, psicologici. Ecco: Die Walküre è forse la punta di diamante di questa impostazione di fondo. E ciò spiega l’ingombrante presenza al suo interno di lunghi sproloqui infarciti di sofismi, di questioni a sfondo esistenziale o politico; di domande che tirano in ballo di volta in volta il libero arbitrio dell’Uomo, o i vincoli imposti dalle leggi allo stesso legislatore, e le contraddizioni in cui cade persino il potere costituito, macchiatosi di peccati originali che finiscono per minarne le fondamenta, con esiti addirittura autodistruttivi. E poi tirano in ballo questioni legate ai rapporti familiari: in particolare a quelli fra marito e moglie e fra padre e figlia. E all’evoluzione psicologica che ne deriva su tutti i principali personaggi della storia.

Purtroppo, il prezzo che lo spettatore deve pagare per apprezzare fino in fondo l’essenza di questi drammi (scongiurando rischi di reazioni di rigetto a fronte di un approccio passivo al loro fruimento) è lo sforzo necessario a sviscerarne, o almeno ad individuarne, il sostrato concettuale. La differenza fra i testi di questi, e in particolare di questo dramma wagneriano, e quelli di quasi tutti i libretti d’opera, anche i più raffinati, è che qui non basta leggerli e comprenderli, ma è necessario farci una preventiva esegesi approfondita (facendosi magari aiutare da che già l’ha compiuta…) e spesso collegandone i contenuti ad altri che sono venuti originariamente alla luce (anche musicalmente, tramite i cosiddetti Leit-Motive) addirittura in drammi precedenti!

In ciò sta, a seconda dell’approccio dello spettatore, la grandezza di queste opere o il loro limite più pesante: essere caratterizzate (per parafrasare una simpatica battuta di Rossini) da qualche sporadico momento di musica accattivante annegato in esasperanti mezz’ore di menata-di-torrone!

Capisaldi del dramma sono le parallele evoluzioni di Wotan e Brünnhilde: il primo passa dall’orgogliosa sicurezza (sul suo piano di consolidamento del potere) alla tragica realizzazione del suo fallimento. A beneficio di qualche regista, è curioso scoprire, in riferimento alla nostra attualità, come l’IA, tramite la sua ricerca profonda, risponda (in 56 secondi) alla domanda: Trump è come Wotan? Quanto alla figlia prediletta del dio supremo, assistiamo al suo passaggio dallo stato divino a quello umano, indotto proprio dall’incontro con i due umani che si ribellano al padre divino, provocandone la disfatta in forza dell’amore.

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David McVicar ha perseverato nel suo approccio, già palesatosi in Rheingold, di mantenersi su una posizione equidistante fra una frusta tradizione e una spinta modernità, sperando con ciò di accontentare tutti. Il risultato è stato quasi fallimentare, vista l’accoglienza ostile che ha accompagnato lui e il suo team all’uscita finale.

Scene quasi spoglie, con pochi oggetti simbolici: il frassino con la spada ivi conficcata; ambiente inospitale per i drammatici eventi del second’atto; un’enorme testa supina (di Wotan?) che alla fine si apre per mostrare una delle tre grandi mani già comparse all’inizio del Rheingold, sulla quale Wotan adagia la Valchiria addormentata.

Per il resto, qualche discutibile trovata: l’intera masnada di Hunding che irrompe nella di lui stamberga; i corvi di Wotan che svolazzano all’inizio del second’atto; gli arieti di Fricka, impersonati da due figuranti che trascinano faticosamente (in discesa!) la dea; Grane impersonato da un figurante che si muove a balzelloni su protesi agli arti inferiori (simili a quelle degli atleti paralimpici) così come gli otto cavalli delle Valchirie (un gruppo LGBTQ+, tutti maschi!); Hunding che dà un secondo colpo di grazia a un Siegmund che insiste a non morire sul primo colpo. Più plausibile il Wotan che, al momento di uscire di scena, si veste da Viandante, come lo vedremo… a giugno.

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Simone Young forse pensa di trovarsi ancora giù nell’Orchestergraben di Bayreuth, da dove i suoni faticano ad emergere fino alla sala: così tiene un volume mediamente più alto del dovuto, il che provoca qualche problema ai dettagli, e soprattutto rischia la copertura delle voci. Per lei, comunque, un’accoglienza tutto sommato positiva.

Come quella per l’intero cast delle voci. A partire dal navigato Michael Volle, che ci ha riproposto un solido Wotan, voce e presenza scenica autorevoli, grande efficacia nel proporci tutte le diverse, e opposte, sfaccettature della personalità del dio: una perla il suo Leb’wohl.  

Franco successo per Camilla Nylund, una convincente Brünnhilde, capace di emozionarci nella sua umanissima scoperta del valore e della vera natura dell’amore umano; e nel suo dignitoso porsi nei confronti del padre.  

Elza van den Heever è una solida Sieglinde, commovente nei suoi slanci amorosi, come nel senso di colpa e, infine, grande nel momento culminante di quell’O hehrstes Wunder, le cui note ritroveremo solo alla fine di Götterdämmerung!

Siegmund è Klaus Florian Vogt, non proprio un Heldentenor (anche se ormai si cimenta anche in Siegfried…) ma che come Siegmund non sfigura proprio, restituendoci, con la sua voce di tenore lirico, il personaggio del giovane che il padre costringe ad una vita assai grama, per poi addirittura condannarlo a morte!   

Okka von der Damerau  è una solida Fricka, cui il regista forse toglie un poco della moglie petulante e noiosa, mostrandocela come una gattina morta che vuol convincere il marito con qualche moina. Il suo momento più forte (Deiner ev’gen Gattin heilige Hehre) mi è parso poco efficace (la Young forse ha qualche colpa…)

Lo Hunding di Günther Groissböck ha ben meritato, forse gli è mancata un poco più di… cattiveria musicale (in quella scenica invece il regista ha persino esagerato).

Le otto Valchirie, che tengono banco con il loro parapiglia nella prima scena dell’atto finale, hanno svolto più che bene il loro non facile compito.

Che dire, in conclusione? Nulla di storico, ma uno spettacolo che merita ampia sufficienza, che il pubblico (non proprio da tutto-esaurito…) ha accolto (regista a parte) con unanimi ma contenuti consensi. Resta da chiedersi se la Scala possa fare di più.

 

18 settembre, 2024

Chailly e i Gurre alla Scala

Ieri sera la Scala - affollata, ma non proprio esaurita - ha ospitato il terzo ed ultimo dei concerti dedicati da Riccardo Chailly alla riproposta dei monumentali Gurre-Lieder di Arnold Schönberg (di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita) che non risuonavano nel teatro da più di 10 lustri (Mehta, 1972 e 73). Da parte sua, Chailly ci ha lasciato una pregevole registrazione dell’opera, datata 1990 a Berlino.

Per l’occasione, al Coro della Scala (Alberto Malazzi) si è aggiunto quello – altrettanto prestigioso – della Radio Bavarese (Peter Dijkstra).

Le voci protagoniste erano Andreas Schager (Re Waldemar) e Camilla Nylund (Tove), affiancati da Okka von der Damerau (Waldtaube), Michael Volle (Bauer e Sprecher) e Norbert Ernst (Klaus Narr). Come si vede, un cast davvero di prim’ordine.
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È lo Schönberg che transita dal tardo-tardo-romanticismo (1900, stesura originaria della composizione) verso l’atonalità (1911, completamento della strumentazione).

Il soggetto, tripartito, basato su poemi del danese Jens Peter Jacobsen, presenta, dopo un’introduzione strumentale, un primo ciclo di 9 Lieder (regolarmente alternati per la voce maschile di Re Waldemar e quella femminile della piccola Tove, di cui il Re è follemente invaghito) che sembrano seguire il modello della grande scena d’amore Tristan-Isolde, e si chiudono con presentimenti di morte.

Dopo un nuovo interludio, ecco l’esplosione del dramma: una colomba (Waldtaube) annuncia – nel 10° Lied - la morte violenta di Tove per mano della gelosa regina Helwig.

La seconda parte, relativamente breve, consta di un unico Lied cantato da Re Waldemar, che impreca contro Dio per il tremendo dolore che gli è stato inflitto con la morte dell’amata.

La terza parte (La folle caccia) ha un sapore misterioso, onirico e (salvo un siparietto buffo) parecchio truce, per poi sfociare in un finale ottimistico. Waldemar (Lied 1) richiama dalla tomba i suoi guerrieri, per marciare su Gurre. Un Contadino (Lied 2) si prepara al peggio, paventando distruzioni da parte di quelle orde. I Guerrieri di Waldemar (Lied 3) si preparano alla caccia selvaggia. Re Waldemar (Lied 4) crede di vedere la povera Tove in ogni angolo: bosco, lago, stelle e nuvole. È il suo autentico delirio d’amore.

Klaus, il buffone (Lied 5) ricorda a sua volta il passato e si augura che nel giorno del giudizio il Creatore lo chiami lassù…  Re Waldemar (Lied 6) sfida ancora Dio a tenerlo separato dalla sua Tove: non accetterà che lei finisca in Paradiso, e lui all’Inferno! Al levar del giorno i guerrieri di Waldemar (Lied 7) si preparano a tornare nelle tombe.

Un lungo interludio evoca ora la folle caccia del vento estivo. Tutta la natura ne è sconvolta, come ci descrive il Recitante (Lied 8). Poi il giorno si fa largo, e i fiori tornano ad aprirsi!

La chiusura è riservata al Coro misto (Lied 9) e al suo inno al sole.     
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Schager e Nylund – non a caso apprezzati Tristan e Isolde nelle recenti recite della Handlung wagneriana sulla verde collina – hanno dato vita ad una prima parte assai coinvolgente, ricca di pathos, in piena integrazione spirituale (ed erotica, va detto…) con la natura circostante, romanticamente amica, complice e protettrice dei loro impulsi amorosi.

Molto efficace il Lied della von der Damerau, che ha drammaticamente evocato la devastante atmosfera seguita alla scoperta della morte di Tove.

Con lei ha sciorinato tutte le sue eccellenti qualità vocali ed espressive il grande Michael Volle, altrettanto convincente come Singer che come Sprecher. Norbert Ernst ha messo la sua chiara voce tenorile al servizio dello stralunato buffone Klaus.

Impeccabili i cori della Scala e della Radio bavarese, che hanno suggellato, nella terza parte, una prestazione complessivamente memorabile, grazie all'Orchestra e a Chailly, che ha guidato tutti con l’autorità e l’autorevolezza che ne contraddistinguono la consuetudine con questo repertorio.

Esito a dir poco trionfale!

25 luglio, 2024

Bayreuth: un discreto Tristan ha aperto il Festival 2024.

Per quanto posso giudicare dall’ascolto radiofonico, mi sembra che il Festival (ancora?) più famoso nel mondo dell’opera sia partito con il piede giusto. 

Merito principale (secondo me) di Semyon Bychkov, che ha guidato con grande autorità i formidabili complessi orchestrali (e corali, non impegnati allo spasimo in questo dramma) tenendo tempi assai sostenuti, fin dal Preludio, invero grandioso, e poi specialmente nel secondo atto, dove ha chiesto il massimo ai due protagonisti.

La Camilla Nylund è stata un’Isolde dignitosa, anche se non proprio trascendentale, e Andreas Schager – un po’ penalizzato dai tempi del Direttore – ha pagato lo sforzo dell’atto centrale con un paio di LA e SI abbassati di un’ottava nella massacrante scena del delirio all'arrivo di Isolde, nell’atto conclusivo.

Bene la Brangäne di Christa Mayer e più che bene il Marke di Günther Groissböck, come pure Olafur Sigurdarson come Kurwenal.

Oneste le prestazioni di Birger Radde (Melot) e di Matthew Newlin, il giovane marinaio che ha l’impervio compito di rompere oil ghiaccio, cantando oltretutto a cappella

Daniel Jenz (pastorello) e Lawson Anderson (marinaio) hanno completato il cast facendo il loro minimo sindacale.

Applausi (direi condivisibili) per tutti i Musikanten. Invece parecchi buh (che segnalo solo per dovere di cronaca, in assenza di… immagini) per il battesimo registico di Thorleifur Örn Arnarsson.

Con tutti i limiti che comporta il particolare tipo di fruizione, devo dire che le sei ore passate in compagnia di questo capolavoro ti risollevano il morale, ecco.

01 ottobre, 2020

Mehta illustra Strauss alla Scala

Ieri sera il venerabile Zubin Mehta ha offerto la seconda delle tre serate del concerto straussiano di questa stagione d’autunno della Scala. In programma due opere che sono quasi un testa-coda (anzi: un coda-testa, data la sequenza di presentazione) della produzione del compositore bavarese.

Non posso immaginare cosa abbia guidato Mehta nella scelta (e sequenza esecutiva) dei due titoli... a me piace vederci lo Strauss che - a 84 anni - si accomiata dal mondo, mano nella mano con Pauline (Im Abendrot); e poi, come in un flashback a 50 anni prima, lo Strauss 34enne che aveva prefigurato - con le ultime note di Ein Heldenleben - proprio la conclusione della sua avventura artistica. Sì, perchè il poema sinfonico si chiude con la visione del pensionamento dell’eroe vittorioso in compagnia della sua musa. Inoltre, così come nel Tondichtung si rinverdiscono le memorie delle precedenti imprese dell’eroe, nel Lied da vonEichendorff Strauss guarda ancor più indietro (60 anni) all’idealista morente che, nell’aldilà, raggiunge la pienezza del suo ideale.   
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Ormai abbiamo fatto il callo alla (purtroppo infelice, ma le regole anti-Covid così vogliono) disposizione dell’orchestra, confinata nel fondo dell’orrida caverna del palcoscenico del Piermarini, e davvero non si vede l’ora che le cose tornino verso la normalità... ma temo ahinoi che ciò resti solo una pia illusione.

Tocca alla bella nordica Camilla Nylund (i suoi 52 anni li porta davvero bene!) di proporci in apertura le stupefacenti note dei Vier letzte Lieder, sui quali mi sono un pò dilungato quasi tre anni orsono.

Lei è una delle principali specialiste del repertorio (soprattutto operistico) wagneriano e straussiano e anche qui non ha smentito la sua fama. Voce ben impostata, acuti sempre fermi e morbidi, grande espressività. Un poco carente sulle note gravi (il REb del terzo Lied lo ha carpito a stento); a proposito di Beim Schlafengehen anche lei (come praticamente tutte) non ha nemmeno provato a percorrere in apnea l’interminabile legato sul tausendfach, prendendo fiato a metà percorso. Subito prima, mirabile l’assolo di violino di Laura Marzadori, la terza spalla dei Filarmonici (ma terza solo per l’anagrafe, chè qui e poi ancor più nel massacrante passaggio solistico del poema sinfonico ha dimostrato di non temere confronti con alcuno).  

Mehta ha avuto qualche problema con i fogli della partitura: all’attacco del secondo e del terzo Lied lo si è visto sfogliare avanti e indietro le pagine, quasi a cercare il bandolo della matassa, e anche la Camilla lo ha guardato con stupore misto a preoccupazione. Poi lui si è rifatto con il poema sinfonico, lasciando direttamente la partitura in camerino!
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A seguire appunto l’autobiografico Ein Heldenleben, un vero e proprio romanzo dove Strauss sembra condensare non soltanto i (circa) 15 anni di carriera artistica che aveva alle spalle nel 1898, ma addirittura prefigurare il futuro, fino al... tramonto (!) Ecco una mia sommaria analisi dei sei capitoli del romanzo, pubblicata qui parecchi anni fa...

Mehta ha tenuto un approccio assai sostenuto, tempi sempre comodi e niente enfasi o gratuiti fracassi, nemmeno nella scena della battaglia (qui però c’è lo zampino della forzata disposizione dell’orchestra, dove soprattutto i fiati faticano a farsi sentire in sala). Devo supporre che il Maestro abbia interpretato l’opera dello Strauss giovane eroe spavaldo con lo spirito dello Strauss disincantato del 1948? Chissà...

Alla fine gli applausi sono fioccati copiosi per tutti, con speciale menzione per il corno di Danilo Stagni (protagonista con la Marzadori dei passaggi solistici, ma in precedenza anche della la chiusa di September, che è sempre cosa... sbudellante). Ripetute chiamate per Mehta, che esce facendosi sorreggere dalla bella e bionda Laura.

C’è ancora una replica... chi può non si perda l’occasione.