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21 agosto, 2023

ROF-44 live - Eduardo&Cristina

Il mio personale percorso a ritroso nella presenza alle tre opere del cartellone ha riservato l’ultimo posto (dulcis-in-fundo?, haha) al titolo principale di questa edizione del ROF: Eduardo&Cristina, già visto e udito – via etere/RAI - alla prima dell’11 e sul quale avevo anticipato qualche mia peregrina osservazione alla vigilia, e senza aver ancora potuto leggere il programma di sala. Il quale reca altre preziose e fondamentali considerazioni dei due curatori dell’edizione critica, Malnati e Tavilla.

Per affinità di… origini etniche (copyright Francesco Lollobrigida) segnalo subito il commento scritto a caldo dopo la prima dalla mia conterranea Roberta Pedrotti, della quale condivido ampiamente i giudizi del tutto positivi sul piano musicale; e, diciamo, ehm, politically correct, quelli meno entusiastici (o almeno dubitativi) sull’allestimento.  

Do quindi spazio in primo luogo alla messinscena, o meglio, all’idea di base di Stefano Poda, che pare farsi scudo dell’esempio rossiniano (dove una stessa musica può supportare indifferentemente il diavolo e l’acqua santa…) per proporci un approccio registico che si dovrebbe adattare – parole di Poda medesimo, riportate sul programma di sala - a questo Rossini così come a Tristan&Isolde, o a Romeo&Giulietta oppure anche ad Orfeo&Euridice(Osservo però che trattasi di drammi finiti in tragedia, a differenza del centone rossiniano, che chiude in gloria.)   

Tradotto in termini Pod-iani, in scena non va in onda il soggetto originale, ma una libera interpretazione delle mille materializzazioni del concetto amore-morte. Che artisticamente, secondo il regista, si traducono in immagini di corpi umani mostrati (staticamente/sculturalmente o dinamicamente/carnalmente) nelle più diverse posture associabili a pulsioni erotico-spirituali dell’insieme anima-corpo di ogni essere umano.

La componente freddamente materiale di ciò è il fondo-scena occupato da un gigantesco bassorilievo in cui appare un’accozzaglia di sezioni di corpi umani (teste, petti, cosce e glutei alla rinfusa, tipo deposito di macelleria) e dalle quinte laterali costituite da enormi scaffali occupati da manichini di gesso raffiguranti corpi ignudi. Quella dotata di anima e corpo è invece rappresentata da mimi (quasi sempre completamente nudi, salvo minuscoli cache-sexe) che si muovono ieraticamente sul palcoscenico ad esternare (per noi poveri pirla che non saremmo in grado di raffigurarcele) le segrete pulsioni che animano la psiche dei personaggi del dramma.

Naturalmente Poda ci notifica quando in scena arrivano personaggi del soggetto reale (i protagonisti e i componenti dei cori) che, per ragioni forse anche di… ehm… indisponibilità alla nudità in pubblico, sono ricoperti di costumi che ne identificano lo status e la fazione.

Insomma, un’idea come tante altre che serve al regista per scaricarsi della responsabilità di mostrarci qualcosa che abbia una sia pur minima attinenza con il soggetto dell’opera. Evabbè, uno potrebbe obiettare che per questo ci sono già le esecuzioni in forma di concerto, senza scomodare (con relativi costi) scenografi, coreografi, costumisti, addetti alle luci (tutti qui distillati, e retribuiti, nel solo… Poda!) e figuranti assortiti e per di più correndo il rischio che lo spettatore, tutto preso a decifrare quegli alati simboli, finisca o per annoiarsi o per perdersi anche quanto di buono c’è nella musica…

Ma, si sa, ai festival tutto è concesso, dalle più grandi trasgressioni alle più comode e ammiccanti paraculate, e qui abbiamo un esempio cumulato dei due approcci (!?)
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Confermata invece l’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico. 

Daniela Barcellona è tornata qui con una prestazione di grande classe, che il pubblico (anche ieri parecchi vuoti in sala…) ha accolto trionfalmente. Forse la voce non ha più la penetrazione di un tempo, ma la nobiltà dell’emissione, il portamento e la sensibilità interpretativa sono sempre da incorniciare.

Anastasia Bartoli non è stata da meno, confermando l’ottima impressione suscitata alla prima. La voce è adamantina, senza sbavature o vetrosità, gli acuti sempre squillanti e gli abbellimenti virtuosistici e le colorature impeccabili. Le due hanno poi strappato applausi a scena aperta nei duetti e nei concertati.

Enea Scala dal vivo mi è parso meno efficace rispetto alla ripresa tecnologica: la voce non sempre passa adeguatamente, gli acuti a volte sono staccati con fatica e gli abbellimenti non proprio impeccabili. Comunque ha ricevuto un interminabile applauso dopo la sua grande aria del primo atto.

Matteo Roma si è pure ben comportato in tutti i suoi interventi, e in particolare nella sua aria (che nell’edizione critica viene escluso sia di Pavesi, ma sospettato possa essere proprio di Rossini…) meritandosi calorosi applausi. Così come Grigory Shkarupa, voce davvero imponente, come la presenza scenica. Applaudi a scena aperta anche per lui dopo l’aria di Pavesi del second’atto.

Applausi e ovazioni anche per il Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, che ha una corposa presenza in quest’opera, nobilitata da una prestazione di alto livello, sia nel complesso, che nelle due sezioni chiamate a sostenere le scene più drammatiche.

Di Jader Bignamini non posso che ripetere tutto il bene possibile. Lui è arrivato più tardi di altri alla ribalta della Direzione, dopo lunga gavetta in orchestra (clarinetto in MIb a laVerdi) ma ormai è lanciatissimo sulla scena internazionale: da Detroit (dove è di casa) al resto del mondo. Anche per lui grande successo, insieme a qfello della prestigiosa OSN-RAI, inclusi i due continuisti Giulio Zappa e Jacopo Muratori (fortepiano e cello).

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Ecco, chiudo così i miei commenti sul cartellone principale di questo ROF. Che però deve ancora terminare: a parte le due ultime recite, ci sarà il gran finale della Petite Messe Solennelle, che ho deciso di seguire da… (non troppo) lontano. 

12 agosto, 2023

Apertura del ROF-44 via radio(-TV)

Partito ieri il clou del 44° Rossini Opera Festival con la prima assoluta (a Pesaro) di Eduardo&Cristina nella nuova (ancora da pubblicare) edizione critica della Fondazione. Lo spettacolo inaugurale è stato trasmesso in diretta da Radio3 e in differita di 75 minuti da RAI5.

L’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico (spero verrà confermata dal vivo…) è decisamente positiva, grazie alla direzione dell’ormai navigatissimo Jader Bignamini, coadiuvato al meglio dalla prestigiosa OSN-RAI e dal Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, da anni compagini stabili del ROF.

Ottima nel suo complesso la compagnia di canto: Daniela Barcellona, davvero una veterana del ROF (vi debuttò nell’ormai lontano 1996!) ha messo tutta la sua esperienza, oltre che la voce sempre solida, al servizio di Eduardo.

Al suo livello Enea Scala (anche lui da quasi tre lustri ospite a Pesaro) che ha ben meritato come Re Carlo: voce sempre ben impostata e squillante e acuti sicuri.

Una piacevole sorpresa (per chi non la conosceva) è venuta da Anastasia Bartoli (figlia d’arte, di mamma Cecilia Gasdia, soprano di valore prima di assumere incarichi… gestionali all’ArenaVR) debuttante al ROF. Voce dal timbro caldo e corposo, in tutta l’estensione, è stata una Cristina quasi perfetta, anche sotto l'aspetto attoriale.

Bene Matteo Roma (dal 2019 ospite al Festival) come Atlei, per il quale l’edizione critica ha scovato un’aria (Da nume sì benefico i miseri mortali) per la scena 5 del primo atto.

Altrettanto dicasi per Grigory Shkarupa (34enne di SanPietroburgo, esordiente al ROF in un cartellone principale) che ha prestato a Giacomo una voce ben tornita e profonda.


Per tutti ampi consensi, a scena aperta e alle uscite finali. 
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Lo spettacolo di Stefano Poda? Aspetto di ragionarci sopra un po’… e poi di vederlo dal vivo prima di esprimere un giudizio più equilibrato. Così d’acchito dovrei coinvolgere uno psichiatra con specializzazione in ossessioni sessuali e disturbi dell’io profondo (!?!)  


25 marzo, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 22

Torna sul podio dell’Auditorium Jader Bignamini, per dirigere un concerto dall’impaginazione piuttosto insolita, che aveva come protagonista il violino di Domenico Nordio, per aprire e chiudere la serata. Poi all’ultimo momento l’impaginazione è tornata... classica, con il Concerto solistico in seconda posizione e la Sinfonia a chiudere: ne ha risentito un po’ l’equilibrio dei tempi delle due parti: 75’ la prima e 30’ la seconda...ma va bene anche così.
Il primo brano è una novità assoluta, commissionata dalla fondazione a Silvia Colasanti: Esercizi per non dire addio, per violino e orchestra. Qui c’è una specie di rimpatriata fra i tre protagonisti: Bignamini è Direttore-in-Residenza de laVerdi; Colasanti è Compositore-in-Residenza e Nordio è stato, dal 2017 al 2020 - prima che il Covid gli tirasse un brutto scherzo - Artista-in-Residenza.

Il contenuto del brano (poco più di un quarto d’ora) è descritto dalla stessa compositrice come uno sguardo al (suo) passato musicale a cui guardare senza rimpianti ma con piena consapevolezza:

...è un pezzo attorno al tema del distacco e della perdita, nel ricordo vivo di quello che si è amato e che si continua ad amare in modo sempre nuovo, un racconto in suoni dei tentativi che un’esistenza compie, lungo un cammino fatto di richiami interni e di memoria, per vivere il presente, guardando al futuro ma con la consapevolezza piena del nostro legame con il passato.

Questo brano della Colasanti conferma una tendenza chiaramente in atto nella musica contemporanea: back-to-basics! Non ho ovviamente sottomano la partitura, ma un orecchio appena appena allenato distingue chiaramente all’attacco un’atmosfera di MI minore! E tutto il brano si muove nel più classico diatonismo, compresi stilemi di stampo mahleriano (maggiore>minore). L’atmosfera, sempre composta e con vaghe increspature, pare virare al SIb. Il violino introduce qualche escursione espressionista, ma alla fine è ancora il SIb a farla da padrone, esalato dal solista su un sommesso tocco di (?) grancassa.

Insomma, un brano da riascoltare (speriamo venga presto messo in rete o su altri supporti) poichè merita davvero gli applausi che il pubblico dell’Auditorium ha riservato a compositrice e interpreti. 
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Torna subito il violino di Nordio - che si tiene davanti lo spartito elettronico - con Beethoven e il celeberrimo Concerto in Re maggiore op. 61Lui e Bignamini danno vita ad un’interpretazione coinvolgente, l’uno ad impreziosire la... razionalità beethoveniana con buone dosi di rubato e l’altro a supportarlo con sapiente dosaggio delle dinamiche. Successo calorosissimo premiato con due encore, scelti (casualmente?) quasi a rappresentare in musica la complessità della situazione politica che si vive in Europa orientale: il primo di Mieczyslaw Weinberg, compositore novecentesco polacco emigrato in Russia e amico di Shostakovich; il secondo dell’ukraino del Donbass Sergei Prokofiev!   
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Si chiude quindi con una Sinfonia (ma... piccola): la Nona di Dmitri Shostakovich. Così come la Quinta, udita qui non più tardi di una settimana fa, si potrebbe definire una Sinfonia (volutamente) insincera, anche questa è interpretabile come una sotterranea espressione di pessimismo, in aperto contrasto con il trionfalismo delle istituzioni sovietiche a fronte della conclusione vittoriosa della WWII. Interessante al proposito anche questa recente analisi dell’opera che sottolinea la presenza in essa di diffusi riferimenti a stilemi musicali ebraici, che Shostakovich avrebbe impiegato per esprimere le sue preoccupazioni sulla brutta piega che stava prendendo la situazione in URSS a dispetto dei trionfalismi di regime, legati all’eroica e vittoriosa resistenza al nazismo.    

Qui invece è il grande Lenny ad introdurcela con la sua proverbiale carica emotiva, dopodichè lo possiamo vedere all’opera, con i Wiener. Per alcune mie personali riflessioni rimando ad un mio scritto in proposito.

Davvero esaltante l’esecuzione di Bignamini e dei ragazzi, salutata da ovazioni per tutti. Mi limito a citare, come alfiere, Andrea Magnani e il suo fagotto magico.

Serata da incorniciare... ma dopo pochi minuti, ahinoi, la disfatta di Palermo!

21 agosto, 2021

ROF-42: Stabat... Bignamini

Per rifarsi dell’astinenza del 2020, il ROF ha voluto fare le cose in grande anche nella tradizionale proposta del concerto che normalmente chiude il Festival (quest’anno però spodestato dalle nozze d’argento con JDF).

Così ecco che si è rappresentato lo Stabat Mater in forma (3/4?) scenica, cosa assai inconsueta e credo (ma potrei sbagliare...) del tutto nuova per il ROF, essendo il testo di Jacopone ormai arrivato alla 14a presenza al Festival (precedenti 81, 82, 84, 87, 94, 01, 03, 05, 06, 08, 10, 15, 17).

Responsabile del... misfatto il braccio destro dell’eterno Pier Luigi Pizzi, quel Massimo Gasparon che ha contribuito in questi giorni al grandioso successo del Moïse.

Siamo (anche questa credo sia una novità per lo Stabat) lontani dal Teatro Rossini, ma vicini... all’A14, cioè alla Vitrifrigo Arena, che tutti danno per morta (per il ROF, s’intende) da anni, ma della quale il travagliatissimo parto rigeneratore del Palafestival rimanda ormai regolarmente il trapasso da una stagione alla successiva.

Sul podio il Direttore Residente... de chè? ma de laVerdi, perbacco! Quel Jader Bignamini che è tornato a Pesaro dopo un lustro (Ciro in Babilonia) per cimentarsi (per la prima volta?) con questo capolavoro, composto apparentemente di malavoglia dal parvenue Rossini, tanto per accontentare un alto prelato spagnolo assai influente a Parigi. Bignamini non si smentisce, mandando come al solito a memoria la partitura che deve dirigere: e la sua è stata una direzione invero pregevole, per la misura con cui ha guidato gli strumenti e la precisione degli attacchi per soli e coro.

Il quartetto SATB era composto da Giuliana Gianfaldoni, soprano che ha debuttato al ROF lo scorso anno ne La cambiale di matrimonio: voce ben impostata e penetrante, che le ha consentito in particolare un apprezzabile approccio al difficile Inflammatus et Accensus, dove ha sciorinato i due ravvicinati DO acuti senza apparente sforzo. Poi Vasilisa Berzhanskaya, mezzosoprano trionfatrice del recentissimo Moïse come Sinaïde: e in bella evidenza anche Ieri, in particolare nella complessa cavatina del Fac ut portem. Ancora il tenore Ruzil Gatin, che nel 2018 fu un onorevole Zamorre nel Ricciardo e Zoraide: voce ancora un poco aspra nel centro della tessitura, ma squillante negli acuti (vedi il REb del Cujus animam). E infine la piacevole conferma del basso Riccardo Fassi, già apprezzato nei panni di Polibio nel Demetrio e Polibio del 2019.

Il Coro era ancora una volta quello del Ventidio Basso diretto ottimamente da Giovanni Farina. L’Orchestra la Filarmonica Rossini, già recente protagonista del Bruschino.
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Gasparon ovviamente ha seguito le tracce del maestro: la scena e i costumi sembravano derivati da quelli del Moïse, così come l’impiego della passerella che circonda l’orchestra, sulla quale sono avanzati di volta in volta i solisti per esporre i relativi numeri. Il coro era tendenzialmente diviso in due sezioni, poste a destra e sinistra della scena. Lo schermo sul fondo proiettava immagini di cieli di volta in volta nuvolosi, tempestosi, o finalmente invasi da luce abbagliante. 

In scena, oltre ai cantanti che si muovevano come seguaci di Gesù affranti per il dolore, 5 figuranti, che interpretavano rispettivamente la Madonna, Gesù e tre portantini che si son presi sulle spalle la salma del Cristo per un giro di passerella tipo marcia funebre di Sigfrido, durante il n°9 a-cappella (affidato come d’uso al coro e non ai solisti).

Durante l’Introduzione orchestrale e lo Stabat Mater del coro viene portata in scena la croce su cui viene issato (senza chiodi, ovviamente) il Cristo, e alla cui base si sdraia la Mater in gramaglie. Al n°5 (Eia Mater) avviene la deposizione del corpo di Gesù, adagiato fra le braccia della Madonna a mo’ di pietà-di-michelangelo. Al n°7 (Fac ut portem) il corpo di Gesù viene trasferito su un candido sudario e poi, come detto, al n°9 (Quando corpus) viene portato in processione. Nel frattempo (n°8, Inflammatus et accensus) al gran fracasso orchestrale si è accompagnata la proiezione di nuvole nere di un autentico uragano tropicale. Alla fine della colossale fuga (accompagnata sullo schermo dall’esplodere di una luce abbagliante) il corpo di Cristo uscirà definitivamente di scena. E dopo i poderosi accordi conclusivi la croce al centro della scena apparirà letteralmente ergersi su una collina formata da corpi di esseri umani adoranti.

Insomma, una cosa architettata con gusto, misura e raffinatezza, che il pubblico ha mostrato di gradire assai: applausi fragorosi e una gragnuola di pedate sul tavolato dell’Arena hanno accolto tutti i protagonisti di questa serata davvero da incorniciare.
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Il ROF chiude stasera il cartellone principale con la quarta recita di Elisabetta. Domenica ci sarà il Gala per le nozze d’argento di Florez. Che mi perdonerà se non sarò alla festa (aspetto quelle d’oro!!!)

12 marzo, 2021

C.P.I.

Come Potevasi Immaginare

Non c’è niente da fare: siamo intrappolati in una sbifida sinusoide.

I contagi aumentano? Si chiude (e la curva va giù...)

La curva va giù? Si apre (e la curva va su...)

La curva va su? Si richiude (e la curva torna giù)

La curva torna giù? Si riapre (e la curva... indovina indovinello?)  

La sinusoide si appiattirà soltanto con la vaccinazione universale (non solo italiana) e quindi prepariamoci a vivere enne ultime ondate.

Intanto il 27/3 si avvicina e l’impegno solenne di Franceschini si realizzerà (salvo... imprevisti) solo in Sardegna: beati loro che potranno far traslocare nell’isola (previo passaporto sanitario) teatri, compagnie, produzioni e cartelloni da tutta Italia e così fare indigestione di cultura. Loro, perchè noi di Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna, Venezia, Genova, Firenze, Palermo, Bari e così via restiamo bloccati in casa e dobbiamo accontentarci di qualche asettico streaming.

Come quello, invero pregevole, che laVerdi ci ha appena offerto, con la premiata coppia Dego-Bignamini in Shostakovich (una rimpatriata dopo l’analoga prestazione - in presenza però - del maggio 2019... pare passata un’eternità).

A proposito di sinusoidi, anche la vita artistico-privata di Shostakovich fu tutto un su-e-giù: su nel ’34, giù nel ’36, risu nel ’41, rigiù nel ’48, ririsù nel ’54... ecc. ecc. 

01 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°14


Il fresco-di-nomina Direttore Musicale della Detroit Symphony Orchestra, Jader Bignamini, sale sul podio dell’Auditorium per dirigere (avendo a novembre scorso saltato il precedente) l’unico suo concerto della stagione 19-20.

Impaginazione di stampo classico, con un brano di apertura seguito da concerto solistico e da sinfonia. Ma l’apertura in questo caso non è un’ouverture o un pezzo brillante, bensì una composizione nuova di zecca e in prima esecuzione assoluta, opera commissionata da laVerdi ad Alessandro Melchiorre, intitolata Dal Buio. Ecco come l’Autore ne descrive sommariamente lo svilupparsi:

Il brano, dopo un esordio molto calmo - gli archi soli accompagnati dal suono suggestivo del superball, una particolare bacchetta usata dai percussionisti su tam tam e timpano grave - segue una crescita naturale caratterizzata dall’addizione delle diverse famiglie strumentali (agli archi dapprima si aggiungono i legni e infine gli ottoni) e procede per successive ondate sino a un climax dopo il quale il movimento di diverse melodie che si intrecciano perde energia e ritorna - con qualche variante - a una situazione affine a quella dell’esordio.

Sono poco più di 15 minuti di suoni che ci arrivano come in... sogno (all’inizio e alla fine si fa buio completo): un tappeto di note lunghissime (all’inizio un RE) che via via si anima e si arricchisce di contributi delle diverse sezioni orchestrali, percussioni comprese, mentre torna la luce in sala. Il brano compie un ampio arco per tornare lentamente, con il riabbassarsi delle luci, alla calma, mentre un violino solista (quello della seconda spalla Dellingshausen, collocato in alto, all’estremità sinistra della galleria) ci riaccompagna verso la quiete primordiale (lo stesso RE che aveva aperto il brano).

Brano che ha una sua efficace narrativa, e si fa apprezzare per la sobrietà del flusso sonoro, che induce riflessione e stuzzica la fantasia. Insomma, un’opera moderna che rifugge da certo stucchevole modernismo. Il pubblico ha apprezzato, con calorosi applausi ad Autore ed interpreti.
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Segue il rampante Luca Buratto (artista residente) che si cimenta con il Concerto in SOL di Maurice Ravel. Che lui dice di amare assai e lo si vede sente, da come lo affronta con approccio quasi ascetico (e non solo nel mirabile Adagio centrale). Le reminiscenze jazzistiche sono per lo più lasciate agli strumenti (clarinetto piccolo in testa) mentre Luca, che mi pare maturato anche dal punto di vista... comportamentale (meno dimenamenti) si concentra sulla cantabilità e affronta da par suo le impervie sfide tecniche poste da questa difficile partitura.

Agli applausi scroscianti di un pubblico assai folto lui replica con ben due encore: il Menuet (n°5) dal raveliano Tombeau de Couperin e il lungo ma strepitoso Allegro grazioso dalla Sonata K333 del Teofilo.
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A chiudere ecco la Fantastique di Hector Berlioz, che Bignamini ha appena diretto (domenica 26/1) a Detroit proprio per festeggiare la sua fresca nomina laggiù.

Che dire? Esecuzione travolgente, ma... non sempre ciò è sinonimo di accuratezza e rigore. Mi è parso di cogliere in Bignamini troppe libertà nell’agogica e nelle dinamiche (eccezion fatta per l’impeccabile Scène aux Champs) e una enfatizzazione eccessiva (per me) dei contrasti: insomma, la ricerca di facili effetti a buon mercato (non è che il nostro si stia per caso già adeguando al pubblico yankee, notoriamente propenso a farsi prendere da facili entusiasmi?)

In ogni caso pure il pubblico milanese si è entusiasmato e lo ha subissato di applausi, anche ritmati. Buon per lui e tanti auguri per la sua avventura americana!

25 maggio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°30


Per il terz’ultimo concerto della stagione torna in Auditorium il residente (!?) Jader Bignamini per guidare non una, ma ben due orchestre insieme! Si mescola infatti alla sua laVerdi la Filarmonica Arturo Toscanini, soprattutto per moltiplicare il volume di suono richiesto dallo Strauss che riempie la seconda parte del concerto.

Ma il programma è aperto da una vecchia frequentatrice dell’Auditorium, la sempre affascinante (nel fisico e nel... sonoro!) Francesca Dego, che ci propone il Primo concerto di Shostakovich. Opera composta (1947-48) in piena era Stalin-Zdanov e quindi prudentemente tenuta nel cassetto - onde evitare fastidiosi trasferimenti nella lontana Siberia, se non qualcosa di peggio - dal quale fu estratta dopo anni, dopo la presentazione della famosa e apprezzata Decima Sinfonia e in presenza al Kremlino del più mite (si fa per dire... chiedere in proposito agli ukraini) Kruscev. Questo spiega perchè alla sua comparsa le sia stato affibbiato il numero d’opera 99 e successivamente l’originale 77, numero più congruo rispetto al periodo di composizione.

Il dedicatario David Oistrakh e l’amico fraterno Evgeny Mravinski portarono alla luce il concerto sabato 29 ottobre del 1955 a Leningrado. Concerto piuttosto eterodosso (quanto meno rispetto ai canoni classici) a partire dal numero (4) dei movimenti e da contenuti (Notturno-Scherzo-Passacaglia-Burlesque) che lo avvicinano piuttosto ad una suite dove si alternano movimenti lenti e veloci. Orchestra privata degli ottoni più invadenti (trombe e tromboni) per mantenere la massima trasparenza di suono; solista che ha pochissime pause, essendo quasi costantemente protagonista, fra l’altro di una interminabile cadenza che separa e collega i due movimenti conclusivi. Quanto alle tonalità, le armature di chiave sono poco significative: il LA (minore) apre la sinfonia e il LA (maggiore) la chiude; in mezzo troviamo SIb e LAb, ma in realtà abbiamo atmosfere continuamente cangianti.

Seguiamo l’evolversi del concerto proprio in compagnia dei due sommi artisti che lo presentarono per la prima volta al pubblico.
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Si apre con un Notturno, in tempo Moderato, 4/4. Brano assai ispirato e ricco di laica religiosità. Struttura che richiama quella di una fantasia, nulla a che vedere con la classica forma-sonata. Dopo 4 battute in ritmo puntato degli archi bassi, ecco il violino attaccare (17”) una melopea praticamente ininterrotta, basata pure su un motivo puntato, nel quale compaiono sporadiche quartine di crome. L’orchestra tiene un accompagnamento sommesso negli archi, mentre i fiati si inseriscono qua e là, ma sempre con la massima discrezione, come fanno il fagotto (1’27”) e i fiati (2’12”).

Ecco un primo sussulto (2’19”) con la melodia del violino che si apre a intervalli più ampi e con i clarinetti (e i violini) a contrappuntare con un ondeggiante motivo per terze. A 3’08” il solista riprende la sua lirica perorazione, con salite a note sovracute, chiusa da un poco ritardando che lascia un minimo di spazio (4’29”) ai fiati, prima del ritorno (4’51”) del solista che ripropone la melopea iniziale, allargando quindi molto i tempi e facendosi accompagnare da arpa in armonici e celesta, a creare un’atmosfera eterea e sognante.

A 6’12” un improvviso intervento di percussioni e tuba dà inizio ad una sezione più animata, dove la melodia del solista si muove prevalentemente per terzine. Altra breve pausa (6’54”) per il violino, occupata dai fiati e quindi (7’10”) riecco il solista con la sua melodia fatta di terzine, adesso però incalzato dagli archi e poi dall’intera orchestra, in un agitato ribollire di suoni, mentre il violino ancora allarga i propri tempi. È un crescendo che raggiunge un climax al quale fa seguito (8’19”) una nuova ripresa del motivo puntato nel violino, che fa una pausa (8’46”) per poi riprendersi il centro della scena (9’04”) con l’ultima esposizione che ricapitola i diversi spezzoni di motivi uditi in precedenza. A 11’25” ecco le ultime quattro battute del solista, tutte in armonici, con l’arpa e la celesta, morendo, a chiudere con lui questo mirabile sogno.

Segue quindi un movimento veloce, lo Scherzo, tempo Allegro, 3/8. Qui viene sostanzialmente rispettata la classica forma scherzo-trio, con la particolarità che il tema viene inizialmente esposto (11’52”) da flauto e clarinetto basso, con il solista a ritmarne l’accompagnamento, prima di prendere possesso (12’05”) della scena! A 12’48” il solista ripropone (come consuetudine classica) lo Scherzo, che poco dopo (13’03”) modula bruscamente, mentre i fiati espongono, innalzato di un semitono e lievemente storpiato verso il basso alla fine (RE#-MI-DO#-SI) il motto DSCH (RE-MIb-DO-SI, iniziali del compositore) che riascoltiamo subito dopo (13’17”) nei secchi strappi in doppia corda del violino.

Si arriva (13’37”) al Trio, Poco più mosso, 2/4, sempre dominato dal solista, con motivi e ritmo che ricordano il Klezmer (danza ebraica) comportando anche veloci scorribande, fino ad arrivare (15’36”) alla ripresa dello Scherzo, dove ascoltiamo impertinenti interventi dell’oboe prima, del flauto poi e infine dell’ottavino a contrappuntare il solista.

La scansione si fa sempre più frenetica fino a sfociare (17’27”) nella temporanea ripresa del tempo di Trio (2/4, Poco più mosso) che chiude (17’47”) tornando a 3/8 (tempo dello Scherzo) con una riproposizione del motto DSCH (adesso senza storpiature, ma trasposto di un tritono, a LAb-LA-SOLb-FA) e con il solista che insiste nel suonare quartine di crome sul tempo ternario, fino alla brusca chiusura.

Eccoci ora alla Passacaglia, Andante, 3/4. Il basso ricorrente (si ripeterà per 9 volte) copre 17 battute e viene inizialmente suonato (18’11”) dagli archi bassi, con corni a contrappuntare in ottave e timpani a scandire il ritmo. La seconda apparizione (19’06”) coinvolge la tuba e il fagotto, con gli altri fiati a cantare una specie di corale. Sulla terza (20’01”) affidata agli archi bassi ecco arrivare il violino solista, che intona una languida melodia (di atmosfera simile a quella del movimento iniziale). Il suo motivo viene ripreso dal corno inglese alla quarta tornata (20’56”) mentre il solista si lancia in volute più ampie. La quinta ripetizione (21’50”) vede al basso il primo corno, mentre il solista prosegue la sua melopea. Anche alla sesta reiterazione del basso (22’39”) affidata a corni, tuba, celli e contrabbassi, Il solista continua nel suo canto, sempre più accorato, animato ora da ripetute terzine.

La settima proposizione del tema di passacaglia (23’29”) è affidata ora direttamente al solista, con piglio stentoreo, mentre all’ottava (24’16”) sul basso tenuto da tuba e fagotti sono i clarinetti ad accompagnare la prima melodia tornata nel violino. Ai timpani (25’10”) spetta di guidare la nona ricorrenza dell’accompagnamento, con il solista sempre in primo piano, che arricchisce il suo tema di note ribattute. Seguono (26’12”) 12 battute di chiusura, con passaggi anche in doppia corda, che portano inaspettatamente (27’01”) ad una mastodontica Cadenza. Essa inizia riprendendo l’ultimo motivo suonato nella passacaglia, per poi svilupparsi in tempo Maestoso, con qualche moderata variazione agogica e dinamica. A 30’09” un primo Accelerando anima il ritmo e poi un secondo (31’15”) introduce la parte conclusiva, in Allegro, dove troviamo ogni artifizio virtuosistico, compresi passaggi in doppia, tripla ed anche quadrupla corda! 

E così, senza soluzione di continuità, a 31’42” attacca la conclusiva Burlesque, Allegro con brio, 2/4. É uno dei classici, inconfondibili, tarantolati pezzi di questo autore, dove solista e orchestra sembrano inseguirsi in una forsennata discesa senza freni. Il ritmo è spesso puntato, singhiozzante, oppure più regolare ma sempre forsennato. 

L’orchestra apre con 28 battute introduttive che preparano l’entrata (32’02”) del violino solista accompagnato dal clarinetto, con il quale innesca una specie di gioco a rincorrersi, chiuso da reiterati sussulti, quasi dei singhiozzi dei flauti. Il solista d’ora in poi avrà solo poche pause di respiro, alternando motivi in ritmo puntato ad altri (32’46”) più distesi, ma senza mai rallentare il passo. 

Dopo una sezione caratterizzata da passagi sincopati, a 33’18” il solista riprende il motivo dell’introduzione orchestrale, poi continua contrappuntato da strappi di flauti e clarinetti. A 33’50” si concede finalmente una pausa, lasciando momentaneamente spazio all’orchestra, per poi riprendere (34’21”) la sua corsa solitaria (accompagnato solo da violini e viole) e successivamente (34’43”) anche da clarinetti, corno e xilofono. Il passo adesso accelera, con volate di semicrome che portano (34’59”) a nuovi sussulti nei fiati, che accompagnano il solista fino a 35’36”. Qui il violino, ora sostenuto solo dagli archi, attacca una sezione con note ribattute, anche in corda doppia. 

A 35’46” ecco iniziare il Presto che ci conduce al repentino schianto conclusivo. 
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La bella Francesca ce lo ha porto mirabilmente, mettendone in risalto la grande nobiltà dei temi, in specie nei due movimenti lenti. In quelli veloci ha fatto valere le sue eccezionali doti tecniche.

Una prestazione davvero eccellente, salutata dal folto pubblico con grandi applausi. Che lei ha ricambiato, dopo l’impegno proibitivo del Concerto con ben tre encore, aperti da un ossessionato Ysaÿe.
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Ecco quindi la colossale Eine Alpensinfonie. Sui contenuti (naturalisticamente appariscenti o filosoficamente criptati) della quale non mi sto a dilungare, rimandando i curiosi a questo mio ormai lontano scritto di presentazione. Aggiungo solo che lo stesso Strauss, in una lettera ad Hofmannsthal poco dopo il grandioso successo del loro Rosenkavalier, ammise che il poema sinfonico alpestre gli procurava meno eccitazione dello scuotere maggiolini dai rami di un albero! Evidentemente anche le attività più prosaiche mettevano Strauss nelle condizioni ideali per creare grande musica!  

Musica che laVerdi ha eseguito in passato solo una volta (stagione 2006-7). Come detto, qui viene suonata da un organico derivato dall’assemblaggio di due compagini sinfoniche, in modo da rispettare (e forse nemmeno al 100%!) le prescrizioni dell’autore in fatto di strumentisti. Palco quindi affollato come non mai. Apprezzabile l’iniziativa di proiettare passo passo sui due schermi i 22 titoli programmatici delle sezioni del brano, accompagnati anche da fotografie che rimandano alle diverse fasi dell’escursione straussiana.

Bignamini attacca con grande sostenutezza, poi scatena l’orchestra nelle grandi campate sonore che costellano la Sinfonia. Apprezzabile la qualità dell’esecuzione, se si considera che due orchestre si sono dovute fondere, con poco tempo per provare. Gran successo, applausi ritmati per il Direttore, che da parte sua ha fatto alzare le singole prime parti e le intere sezioni per tributare loro il meritato trionfo.

16 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°21


La seconda delle tre apparizioni stagionali del Direttore residente de laVerdi ha per oggetto un concerto di musiche nate a cavallo fra ‘800 e ‘900 (1888 - 1897 - 1911). Si tratta di tre lavori che traggono ispirazione da opere letterarie di diversa natura ed origine, tutte però con qualche riferimento a maghi e magie assortite.

Auditorium ancora pieno come un uovo, con folta rappresentanza di... minorenni, il che non può non salutarsi con grande piacere. E Bignamini&C hanno fatto del loro meglio per accontentare questo loro pubblico di ammiratori.      

L’apertura del concerto è riservata a Paul Dukas e al suo Apprenti Sorcier, composto nel 1897 e ispiratogli da una simpatica poesiola di Goethe. Solo un paio d’anni prima Richard Strauss aveva sfornato il suo Till, nel quale pare di scorgere (in grande, effettivamente, e non solo per la durata quasi doppia) il modello di questo poemetto sinfonico (scherzo lo battezzò l’autore) che a noi nati nel ‘900 fu reso famoso dalla sua presenza (arrangiamento di Stokowski) nel celeberrimo Fantasia di Disney (credo di averlo visto, al cinema dell’oratorio parrocchiale, alla tenera età di 6 anni, quando DeGasperi aveva da poco vinto le elezioni del ’48!)

A chi fosse interessato a conoscere i segreti del brano, solo apparentemente leggero e superficiale, consiglio la lettura di questo saggio del valente Christian Frattima, oltre a suggerire una pregevole esecuzione del 1961 di Pierre Monteaux con la London Symphony.

Bignamini, che mette tutto a memoria (provate a fare il conto di quante pagine di partitura d’orchestra si è immagazzinato nel cervello per questo concerto... vien da pensare che il suo sia un hard-disk nel quale a lui basta fare il download di qualche pdf dal computer!) ha condotto i suoi ex-compagni con una calma e una sicurezza che testimoniano del perfetto affiatamento che ancora ha con loro. E ciò vale per tutti i tre brani in programma.
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Ecco poi la versione tarda (1947) delle musiche del balletto Petruska che Igor Stravinski compose originariamente nel 1911 e del quale il citato Pierre Monteaux diresse la prima parigina. Va detto che la versione proposta da Bignamini si differenzia dall’originale quasi esclusivamente per l’orchestrazione più leggera (e la compagine ridotta) ma ne conserva intatta la struttura, oltre che la freschezza e la verve. Il Direttore sceglie per il finale la forma abbreviata, prevista da Stravinski per le esecuzioni concertistiche, quella che chiude l’opera sulla festa di popolo, tagliando la morte di Petruska e la vergognosa uscita di scena del Mago. 

Reitero qui una segnalazione già fatta parecchi anni fa di una benemerita iniziativa tedesca che ha avuto come oggetto il lavoro di Stravinski: una vera miniera d’oro per chi abbia voglia (e tempo...) di approfondire la conoscenza di Petruska e del suo autore. 

Propongo poi in appendice al post un bigino dell’opera, appoggiandomi a questa interpretazione di Jansons con l’Orchestra del Concertgebouw.

Tornando a ieri, strepitosa prestazione di tutti, salutata da ovazioni per Direttore e strumentisti, molti di loro chiamati a interventi squisitamente solistici e perciò ancor più apprezzabili.
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Dopo l’intervallo e a chiudere il concerto, un altro pezzo forte del repertorio dell’Orchestra, la Shéhérazade di Nicolai Rimski-Korsakov, del 1888. Questa volta il ruolo della principessa che incanta il sultano cattivone, spegnendone gli istinti omicidi, è affidato ad un altro Nicolai (Freiherr von Dellingshausen) che siede sulla sedia della spalla e deve quindi suonare le diverse parti solistiche che evocano i racconti della bella quanto astuta Shéherazade. Devo dire che non ha per nulla fatto rimpiangere Luca Santaniello (ieri seduto alle sue spalle) che fino ad oggi aveva di diritto impersonato quel ruolo.

Dopo un rigorosissimo Stravinski, Bignamini si è scatenato con un’interpretazione personalissima del lavoro di Rimski, non risparmiandosi rubati, cambi di tempo e di dinamica, magari al limite del... regolamento, ma di un’efficacia straordinaria. Memorabile, all’interno di una lettura da incorniciare, l’Andantino quasi allegretto, diretto senza bacchetta (appoggiata sul leggio di... Scarpolini): un vero diamante in un vaso di perle!

Alla fine pubblico entusiasta e trionfo per tutti.   
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Petruska

I passaggi descritti corrispondono alle indicazioni didascaliche sulla partitura.

Quadro I - La fiera di Shrovetide a Pietroburgo.

Siamo nella settimana grassa e la fiera è affollata da gente di ogni tipo: il flauto imita le grida dei venditori e l’orchestra il tumulto generale.

55” Ecco passare un gruppo di festaioli già ubriachi che ballano in modo sgangherato.

1’26” Il maestro di cerimonie attira l’attenzione dei passanti da sopra il suo banchetto; poi torna il tumulto della festa.

1’46” Un suonatore d’organetto arriva con una danzatrice.

2’08” L’organetto comincia a suonare.

2’26” la danzatrice balla accompagnandosi con il triangolo (canzonetta francese Elle avait une jambe de bois) mentre il suonatore d’organetto con una mano gira la manovella e con l’altra suona la trombetta.

2’50” Poco distante da lì un’altra ballerina danza sulla musica che esce da un carillon.

3’17” Tornano la prima danzatrice con il triangolo e il suonatore d’organetto con la trombetta.

3’33” Organetto e carillon tacciono improvvisamente: è il maestro di cerimonie che riprende il centro dell’attenzione con la sua parlantina, poi si riode il tumulto della piazza.

3’56” Ripassano gli allegri buontemponi; quindi ancora il chiasso della festa.

5’24” Due tamburini si piantano davanti al teatrino, attirando l’attenzione dei passanti con il rullo dei loro strumenti. All’interno del teatrino appare il vecchio mago.

6’00” Il mago suona il suo flauto magico.

6’41” Si apre il sipario del teatrino e compaiono tre marionette: Petruska, il Moro e la Ballerina.

7’11 Il mago anima le tre marionette toccandole col suo flauto magico. E loro si mettono a danzare la lunga e variata Danza russa, lasciando stupefatta la folla circostante.

10’02 Buio improvviso, cala il sipario. Lungo rullo di tamburo.

Quadro II - Nella stanza di Petruska.

Dal mondo reale si passa ora a quello virtuale: questo e il successivo quadro sono infatti incentrati sul rapporto fra le tre marionette, un triangolo che ricorda quello dei pagliacci del teatro dell’arte (Arlecchino t’invola Colombina... canta Canio, protagonista del triangolo con Nedda e Silvio) a sua volta mutuato però da tutti i triangoli che si materializzano nel mondo reale.

10’17 Petruska viene scaraventato in scena con un calcio.

11’21 Petruska esterna tutta la sua rabbia.

13’00 Arriva la Ballerina.

13’27 La Ballerina se ne va arrabbiata con Petruska.

14’16 Petruska resta solo e disperato. Un gran rullare di tamburi introduce il quadro successivo.

Quadro III - Nella stanza del Moro.

14’48 Atmosfera minacciosa.

15’45Il Moro comincia a ballare, sempre in uno scenario lugubre.

17’43 Arriva la Ballerina. Gran rullo di tamburi.

17’50 La Ballerina danza allegramente per il Moro, accompagnata da una trombetta. Poi si prepara a ballare con lui.

18’29 La Ballerina e il Moro danzano un walzer in due sezioni, tratte da lavori di Josef Lanner. Prima parte Lento cantabile, accompagnata da trombetta e flauto, con sottofondo del fagotto (da Steyrische tänze, qui a 1’27”). Poi (19’12) Allegretto (da Die Schönbrunner, qui a 5’22”). Da 20’05” riprende il tempo lento.

20’40” Moro e Ballerina rizzano le orecchie: sta arrivando Petruska!

21’01” Moro e Petruska si azzuffano. La Ballerina sviene.

21’33” il Moro sbatte fuori Petruska. Buio.

Quadro IV - La fiera di Shrovetide al tramonto.

21’41” Siamo tornati nel mondo degli uomini: la festa continua ormai da ore e ore. Introduzione con lungo rullo di tamburo e poi la solita animazione nella piazza.

22’47” Arrivano le balie e si mettono a ballare una lunga danza, con diversi motivi popolari.

25’24” Irrompe sulla scena anche un contadino con un orso. Fuggi-fuggi generale. Il contadino suona il suo piffero e l’orso balla sulle zampe posteriori. Poco dopo contadino ed orso se ne vanno e torna l’animazione nella piazza.

26’56” Ora un mercante festaiolo arriva con due zingare. Si diverte gettando banconote alla folla.

27’11” Le zingare ballano mentre il mercante suona la fisarmonica.

28’01” Mercante e zingare se ne vanno, sostituiti (28’07”) dal sopraggiungere di cocchieri e stallieri che cominciano a ballare.

29’09” Le balie (sul loro tema di poco prima) ballano con cocchieri e stallieri.

30’12” Arrivano anche i mimi. Quello che incarna la morte (30’32”) spinge la folla a danzare con lui.

30’46” Ecco ora una buffonata dei mimi (protagonisti capra e maiale).

31’11” Mimi e maschere danzano insieme. Tutta la gente (31’22”) si unisce alle loro danze. (Qui finisce - opzionalmente - la versione per concerto.)

31’48” Tutti continuano a ballare, mentre si odono grida dal teatrino delle marionette.

31’56” I balli cessano. Petruska corre fuori dal teatrino, inseguito dal Moro, che la Ballerina cerca di trattenere

32’16” Il Moro inferocito acchiappa Petruska e lo colpisce con la sua sciabola. Petruska cade con la testa fracassata e una folla si assiepa attorno alla marionetta.

32’48” Petruska muore, fra gemiti e lamenti. Una guardia va a rintracciare il mago. Il quale (33’26”) arriva, raccoglie e scuote la salma di Petruska.

34’10” La folla si disperde e il mago, restato solo in scena, trascina Petruska verso il teatrino.

34’39” Sopra il teatrino appare lo spettro di Petruska, minaccioso, che sporge il suo naso verso il mago. Il quale, terrorizzato, lascia cadere il fantoccio e se ne va rapidamente, gettando occhiate impaurite dietro le spalle.
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