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23 marzo, 2015

A Venezia un’Alceste… smagrita ma sempre bella

 

Ieri, in una Fenice abbastanza affollata, complice (o nonostante) un inizio di… inverno, è andata in scena la seconda rappresentazione di Alceste. Firmato dalla coppia Pizzi- Tourniaire.

La diffusione di Radio3 della prima di venerdi scorso (cui ha assistito il venetiofobo Amfortas riportandone impressioni positive) mi aveva un filino deluso sul piano dei contenuti (si intuiva già dai tempi indicati per lo spettacolo che ci fossero tagli non propriamente marginali) mentre mi aveva abbastanza soddisfatto su quello dell’esecuzione musicale.  

L’allestimento di Pier Luigi Pizzi prevede un solo intervallo, collocato - per equilibrare i tempi delle due parti - dopo la Scena II dell’Atto II. Questo comporta qualche teorico scompenso a livello del respiro dello spettacolo, che in origine prevede due fermate in momenti topici e paralleli: lo sconcerto generale per il destino di Admeto e quello analogo per il destino di Alceste, sostituitasi al marito.

Qui invece la prima parte, dopo l’Atto I, prosegue con la proposizione anticipata del Pantomimo numi infernali, che è in origine proprio alla fine della Scena II: non saprei dire se questo spostamento sia dovuto a necessità di coprire un cambio-scena (del resto non complicatissimo, apparentemente) oppure da una scelta estetica del duo regista-direttore: fatto sta che dopo il coro in DO maggiore Chi serve e chi regna, che chiude(rebbe) l’Atto I, il sipario viene calato e il pubblico applaude proprio come si fosse arrivati all’intervallo… invece ecco uscire sul proscenio Alceste, silenziosa e accompagnata dal Pantomimo (DO minore) che si chiude con l’entrata di Ismene (LA minore, Ferma, dell’inizio Atto II).

Prima parte dello spettacolo che si chiude quindi con l’aria di Alceste (Non vi turbate no) che ottiene dai Numi di poter tornare a salutare per l’ultima volta i cari, prima di morire. Una chiusura quindi piuttosto dimessa, sia pure in MIb maggiore, assai diversa da come sarebbe quella dell’Atto I, sul possente coro del Popolo.  

Per avere poi due parti di durata paragonabile (65 e 70 minuti) l’Atto II e l’Atto III hanno subito i tagli più evidenti (anche il primo atto ha delle sforbiciatine, ma roba da poco). In particolare la Scena VI dell’Atto II manca dei recitativi di Alceste (O casto…) e dei Cortigiani (Così bella…) e soprattutto del lungo e bellissimo recitativo di Alceste Figli, diletti figli. Nell’Atto III è principalmente tagliata la Scena II: recitativo di Alceste-Admeto (Vieni dunque) prima di Cari figli. Per il resto, è stato sacrificato qualche da-capo nei balletti.

Pizzi, intervistato alla radio venerdi scorso dalla Gaia Varon, aveva giustificato questi interventi sul testo con razionali vaghi e opinabili, del tipo: qualche taglio si faceva anche ai tempi di Gluck… In realtà la ragione più plausibile sembrerebbe di puro carattere… logistico: evitare un secondo intervallo, che si renderebbe necessario data la durata dei 3 atti completi (60-73-38 minuti, come si può rilevare da questa registrazione con la Flagstad, oltre che dall’esecuzione scaligera di Muti del 1987).  

Però, fatte queste doverose premesse e osservazioni di carattere tecnico-pedantesco, devo dire: tanto di cappello a Pizzi per come ha reinterpretato – era la sua quarta volta! - l’opera, benissimo coadiuvato dalle luci di Vincenzo Raponi.

Scene e costumi sono intonati ai colori bianco e nero (il proscenio ha addirittura un pavimento a scacchiera…): bianco come amore e nero come morte. Poi nella seconda parte dello spettacolo compare anche un poco di giallo-oro, forse a rappresentare la felicità. Il fondo della scena è modellato da pannelli che lo suddividono in 3 arcate, all’interno delle quali compaiono pochi e simbolici oggetti: un enorme turibolo e la statua di Apollo, poi (scena agli Inferi) degli alberi neri e rinsecchiti con le radici ricoperte di bianchi teschi (che sono anche appesi, quali frutti, ai rami). Per il resto servono anche a separare (come le basse gradinate che scendono al proscenio) i cori, fra destra e sinistra, come prescritto in partitura da Gluck. Fanno eccezione i Numi infernali, il cui coro canta in buca, mentre in scena scorrono pantomime di spettri rigorosamente in nero. Anche i costumi, di foggia assolutamente classica e stilizzata, come detto sono immacolati, salvo quelli di Alceste e della confidente Ismene, che mutano in nero dopo che la protagonista ha deciso di sacrificarsi.

I movimenti di protagonisti e masse sono sempre lenti e ieratici (un po’ alla… Wilson, se vogliamo) come si addice allo spirito dell’opera. La morte e… resurrezione di Alceste sono rappresentate dal suo addormentarsi sul letto posto al centro della scena, e alla fine dal suo risvegliarsi grazie alla… grazia di Apollo, la cui voce si ode dall’alto, senza che il dio appaia di persona.

Insomma, una messinscena pregevole che va ad aggiungersi al già abbondantissimo carnet di Pizzi.
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Sul fronte dei suoni, confermata la buona impressione della prima radiofonica.

Guillaume Torniaire – è il primo direttore mancino che io abbia mai visto su un podio - sfoggia grande sicurezza e sensibilità, ottenendo dall’ottima orchestra della Fenice un suono sempre morbido e leggero, come si confà allo spirito dell’opera, che rifugge da qualsiasi forzatura, enfasi o fracasso per concentrarsi sul dramma dei protagonisti e del popolo che ne condivide ogni singolo passo. A proposito di Popolo e di Numi infernali, eccellenti i componenti del coro di Claudio Marino Moretti, che ha appunto messo in mostra quel pathos che caratterizza i numerosi interventi delle masse.

Trionfatrice del pomeriggio Carmela Remigio, un’Alceste davvero emozionante, in tutta la gamma dei sentimenti che la protagonista esterna durante l’intera opera: dolcezza, amore, dolore, sacrificio, rassegnazione, gioia.

Marlin Miller è Admeto, una parte difficile che il tenore americano affronta forse con un po’ di circospezione all’inizio, per poi crescere nettamente. La voce forse non è penetrantissima, ma sempre ben intonata e senza forzature.

Quasi meglio di lui il suo… confidente Evandro, dicasi Giorgio Misseri, bella voce squillante e ben impostata (forse un paio di lievi calatine, ma nulla di grave). E anche l’altra confidente, Zuzana Marková, se l’è cavata assai bene.

Più che apprezzabili gli altri comprimari: Armando Gabba, Vincenzo Nizzardo e gli altri solisti del Coro che hanno parti di un certo rilievo.

Bravissimi infine i due fanciulli (interpreti dei figli della coppia protagonista) che vengono dal Coro di voci bianche dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.
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Ecco, uno spettacolo che val bene una trasferta in laguna!   

18 marzo, 2015

La Fenice ospita Alceste


Venerdi 20 marzo (diretta su Radio3 alle ore 19) va in scena alla Fenice la prima di Alceste di Christoph Willibald Gluck, su testo di Ranieri de’ Calzabigi. Si tratta della versione originale in italiano, presentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna sabato 26 dicembre 1767. (Nove anni dopo nascerà a Parigi la versione in lingua francese, che si discosta non proprio marginalmente da quella viennese.) Martedi 24, sempre alle 19, l’opera verrà anche irradiata in streaming-video qui, dove la registrazione rimarrà disponibile per un anno.
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Alceste viene unanimemente considerata come l’opera che consolida i princìpi innovatori del teatro musicale maturati a metà di quel secolo ed esposti in un saggio di Francesco Algarotti, e fatti propri da Calzabigi. Il quale aveva trovato in Gluck un altro sostenitore e soprattutto l’ideale traduttore in musica di tali princìpi, subito messi in pratica dai due con l’Orfeo (1762).

Le ragioni profonde dell’urgenza innovatrice di Algarotti e poi di Calzabigi&Gluck sono da ricondurre alla progressiva degenerazione che l’opera musicale aveva subito a partire dalla prima metà del ‘600, in particolare a Venezia, con la nascita e l’esponenziale diffusione del teatro pubblico e popolare. In sostanza, l’organica coerenza del recitar-cantando di bardiana memoria (fine ‘500) era stata rotta dal combinato disposto di due fenomeni dilaganti: le esigenze di un pubblico di estrazione borghese che mal sopportava l’eccessiva profondità e l’austera classicità greca dei soggetti del teatro aristocratico delle corti e prediligeva il piacere del canto puro; e gli interessi dei musicisti, e soprattutto dei cantanti, che ovviamente ben si sposavano con le aspettative del nuovo, vasto pubblico. Ecco quindi maturare un netto sdoppiamento all’interno della struttura fino allora unitaria delle opere musicali: da una parte i recitativi secchi (poco più che parlati, come dice il termine) che in qualche modo tenevano i fili della narrazione, e dall’altra le arie musicali, sovraccariche di virtuosismi e gorgheggi del tutto fine a se stessi (e alla fama del cantante) e spesso musicalmente avulse dal contesto del dramma, di cui anzi finivano per spezzare la continuità.

Tutta la produzione di teatro musicale italiano serio (ma anche buffo) di fine ’600 e ‘700 (che aveva spopolato anche nel mondo tedesco, a partire proprio dalle Corti, Vienna in-primis, dove Metastasio ne aveva meticolosamente codificato la struttura bifronte, recitativo-aria) aveva poggiato su queste basi, che rimasero in verità saldamente in piedi, nonostante Gluck e Calzabigi, fino ai primi decenni dell’800 e all’irruzione del romanticismo, caratterizzando in qualche misura anche opere di Mozart e Rossini, per dire. Diversamente erano andate le cose a Parigi, dove la presenza della Corte più grande e ricca del pianeta aveva contribuito a mantenere alto l'ideale bardiano, grazie anche all’opera di musicisti italiani, primo fra tutti Lulli(-Lully, che pure compose un Alceste nel 1674) a cui non a caso si ispirò lo stesso Gluck: il genere della tragédie lyrique ne fu la più corposa manifestazione, che sicuramente ebbe un peso nel formarsi a Vienna di quella corrente innovatrice che trovò (temporaneamente) in Gluck, Calzabigi e Giacomo Durazzo (direttore artistico dei teatri di corte) i suoi paladini. Ma per vedere gli ideali della camerata fiorentina cinquecentesca tornare pienamente in auge si dovrà attendere nientemeno che il Wagner post-Lohengrin!

I fondamenti della nuova concezione del teatro musicale furono espressi in modo assai dettagliato in una prefazione all’edizione dell’Alceste - indirizzata al futuro Imperatore Leopoldo II - cui appose la firma il compositore, ma che fu presumibilmente ispirata, se non proprio vergata, dal librettista: 

ALTEZZA REALE!

Quando presi a far la musica dell’Alceste mi proposi di spogliarla affatto di tutti quegli abusi che, introdotti o dalla mal intesa vanità dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de’ Maestri, da tanto tempo sfigurano l’Opera italiana, e del più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso.

Pensai restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia, per l’espressione e per le situazioni della favola, senza interromper l’azione o raffreddarla con degli inutili superflui ornamenti, e crederei ch’ella far dovesse quel che sopra un ben corretto e ben disposto disegno la vivacità de’ colori e il contrasto bene assortito de’ lumi e delle ombre, che servono ad animare le figure senza alterarne i contorni.

Non ho voluto dunque né arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo per aspettare un noioso ritornello, né fermarlo a mezza parola sopra una vocal favorevole, o a far pompa in un lungo passaggio dell’agilità di sua bella voce, o ad aspettare che l’Orchestra gli dia il tempo di raccorre il fiato per una cadenza. Non ho creduto di dover scorrere rapidamente la seconda parte di un’aria, quantunque fosse la più appassionata e importante per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir l’aria dove forse non finisce il senso, per dar comodo al cantante di far vedere che può variare in tante guise capricciosamente un passaggio; insomma ho cercato di sbandire tutti quegli abusi de’ quali da gran tempo esclamavano invano il buon senso, e la ragione.

Ho imaginato che la sinfonia debba prevenire gli spettatori dell’azione che ha da rappresentarsi, e formare, per dir così, l’argomento: che il concerto degli istrumenti abbia a regolarsi a proporzione degl’interessi e della passione, e non lasciare quel tagliente divario nel dialogo fra l’aria e il recitativo, che non tronchi a controsenso il periodo, né interrompa mal a proposito la forza e il caldo dell’azione.

Ho creduto poi che la mia maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicità; ed ho evitato di far pompa di difficoltà in pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato spregevole la scoperta di qualche novità, se non quando fosse naturalmente somministrata dalla situazione e dall’espressione; e non v’è regola d’ordine ch’io non abbia creduto doversi di buona voglia sacrificare in grazie dell’effetto.

Ecco i miei principj. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno il libretto, in cui il celebre autore, immaginando un nuovo piano per il drammatico, aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni superflui e alle sentenziose e fredde moralità, il linguaggio del cuore, le passioni forti, le situazioni interessanti e uno spettacolo sempre variato. Il successo ha giustificato le mie massime, e l’universale approvazione in una città così illuminata ha fatto chiaramente vedere che la semplicità, la verità e la naturalezza sono i grandi principii del bello in tutte le produzioni dell’arte.

Con tutto questo, malgrado le replicate istanze di persone le più rispettabili per determinarmi di pubblicare con le stampe questa mia opera, ho sentito tutto il rischio che si corre a combattere dei pregiudizi così ampiamente, e così profondamente radicati, e mi son veduto in necessità di premunirmi del patrocinio potentissimo di vostra altezza reale implorando la grazia di prefiggere a questa mia opera il suo augusto nome, che con tanta ragione riunisce i suffragi dell’Europa illuminata. Il gran Protettore delle bell’Arti, che regna sopra una nazione, che ha la gloria di averle fatte risorgere dalla universale opressione, e di produrre in ognuna i più gran modelli, in una città ch’è stata sempre la prima a scuotere il giogo de’ pregiudizi volgari per farsi strada alla perfezione, può solo intraprendere la riforma di questo nobile spettacolo in cui tutte le arti belle hanno tanta parte. Quando questo succeda resterà a me la gloria d’aver mossa la prima pietra, e questa publica testimonianza della sua alta Protezione al favor della quale ho l’onore di dichiararmi con il più umile ossequio

    Di V.A.R.
Umil.mo Dev.mo Obblig.mo Servitore
CRISTOFORO GLUCK

Beh, la sintesi dei concetti espressi nella prefazione potrebbe ridursi al celebre motto: Prima le parole, poi la musica; ed è proprio perché è difficile immaginare che il musicista Gluck lo condividesse al 100% che viene il sospetto che l’autore di detta prefazione sia in realtà il paroliere Calzabigi, che sembra quasi citare alla lettera un passo del saggio di Algarotti:

Un altra principal ragione ancora del presente scadimento della Musica, è quel suo proprio, e particolar regno, ch'ella si è venuta formando. Il compositore si comporta quivi come despotico, vuol pure far da sé, e piacere unicamente in qualità di Musico. Per cosa del mondo non gli può entrare in capo, ch'egli ha da essere subordinato, e che il maggior effetto della Musica ne viene dallo esser ministra, e ausiliaria della Poesia. Proprio suo uffizio è il dispor l’animo a ricevere le impressioni dei versi, muovere così generalmente quegli affetti, che abbiano analogia colle idee particolari, che hanno da essere eccitate dal Poeta; dare in una parola al linguaggio delle Muse maggior vigore e maggiore energia.

E per nostra (dei musicomani) fortuna, i proclami di Algarotti e Calzabigi furono da Gluck applicati… da grande musicista! Per Alceste vale ciò che si può dire dei drammi di Wagner: per quanto il testo sia di elevata qualità, senza la musica che lo accompagna sarebbe finito nel dimenticatoio, anzi probabilmente non avrebbe mai avuto l’onore di esser recitato in un teatro.
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Conformemente alla massima di Orazio posta sul frontespizio del libretto e in chiara polemica con Metastasio, Denique sit quodvis simplex dumtaxat et unum (Sia come lo vuoi, purché sia semplice e unitario) il soggetto di Calzabigi è di una semplicità che sfiora la povertà: mancano del tutto i contrasti (amorosi, politici, bellici) che caratterizzavano (e caratterizzeranno) i libretti d’opera; tutto si concentra sulla tragica vicenda dei due sposi Alceste-Admeto e sullo scavo psicologico dei rispettivi sentimenti, in una cornice dove i cori hanno parte di primo piano (proprio come nelle tragedie greche) e dove assumono un ruolo importante anche le scene di danza o di balletto (balli pantomimi e balli ballati).

Quanto alla musica, Gluck sopprime (quasi) totalmente i recitativi secchi e rinnova radicalmente la struttura delle arie, rinunciando definitivamente alla classica forma del da-capo (al massimo fa ripetere, ma non meccanicamente, qualche verso) per privilegiare un’assoluta libertà espressiva (inconcepibile secondo i sacri canoni vigenti, che imponevano forme facilmente riconoscibili) che si materializza in frequenti mutamenti di tempo, ritmo e tonalità, volti a sottolineare ogni più piccola sfumatura dei sentimenti dei protagonisti. Inoltre, rompe la continuità dei cori con interventi solistici e/o con coreografie/balli che coinvolgono anche gli stessi coristi.

Calzabigi da parte sua pretende dagli interpreti gestualità e movenze naturali, per dare la più grande credibilità al dramma (anticipando concetti che le moderne regìe teatrali scopriranno 150 anni più tardi…) Insomma l’idea è quella di mettere tutte le risorse (umane e materiali) al servizio dello spettacolo, proprio come sognerà 80 anni più tardi Richard Wagner.
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A Venezia l’allestimento sarà curato da Pier Luigi Pizzi - un veterano di messinscene di Alceste, italiana e francese – che realizzò anche quella della Scala con Muti del 1987 (eseguita senza tagliare nemmeno una virgola di testo e solo un paio di brevissimi da-capo nei balletti). Il sito del Teatro informa di una durata (netta) di 2h15’, il che farebbe ipotizzare un buon 20-30 minuti di tagli (?!) Venerdi ascolteremo questa Tragedia per musica, in seguito… vedremo.