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13 ottobre, 2024

Il Rosenkavalier di Salzburg (2014) per la seconda volta alla Scala.

Ieri l’argenteo cavaliere straussiano, come originariamente prodotto a Salzburg nell’ormai lontano 2014, è tornato per la seconda volta a far visita al Piermarini, dopo la prima apparizione del 2016. Allora, teatro semideserto, ieri pieno come un uovo! Che sia perchè sul podio c’era il grande Kirill Petrenko?

Alla regìa, scomparso nel 2019 l’ideatore Harry Kupfer, Derek Gimpel. Superstiti delle recite del 2016 la Marescialla Krassimira Stoyanova e il buzzurro Ochs di Gunther Groissbock.

Non sto quindi a commentare la regìa, ennesima e discutibile ri-ambientazione del soggetto al tempo della composizione dell’opera o giù di lì, cosa che non condivido per varie ragioni, già in passato riassunte in queste mie considerazioni, ehm, filosofiche.

Il trionfatore della serata è stato (ma si poteva tranquillamente prevederlo) il Direttore russo, subissato da applausi e ovazioni ai due ritorni sul podio e al termine della recita

Ovviamente i suoi meriti sono squisitamente di natura musicale: non una battuta di Strauss è andata persa o manomessa, o deturpata: tutta l’opera è corsa via con quel carattere fluido che proprio l’Autore riconosceva essere nel DNA di questa musica. Nel saggio pubblicato sul programma di sala, Quirino Principe definisce il Rosenkavalier come opera dominata né da Apollo, né da Dioniso, ma da Hermes, il dio della musica. Ecco, mi verrebbe da dire che Petrenko abbia proprio interpretato così questo capolavoro.   

Di lui va celebrata la modestia e il riserbo: alle tre entrate sul podio ha dato solo un fugace saluto al pubblico; alla fine ha ringraziato ripetutamente l’orchestra, che ha sfoderato una prestazione davvero impeccabile, quasi senza neanche guardare la sala, che lo stava letteralmente sommergendo di ovazioni da stadio! E anche all’ultimissima uscita singola si è rivolto più alla buca che al pubblico.

Detto dell’onorevole prestazione del coro di Alberto Malazzi, rinforzato dai piccoli di Marco De Gaspari, resta da spendere poche parole sulle voci.

I due cugini più maturi non solo non hanno perso nulla rispetto alle loro prestazioni di 8 anni fa, ma mi sento di dire che abbiano acquistato (la Stoyanova in particolare) spessore sia vocalmente che scenicamente.

Kate Lindsey è stata un’ottima Octavian, e una superlativa Mariandel. Con qualche decibel in più di proiezione della voce le avrei assegnato la lode.

Johannes Martin Kränzle ha ben meritato come Faninal: anche per lui il Piermarini è forse troppo vasto!

Benissimo Sabine Devieilhe come Sophie, voce appropriata al personaggio, acuta (qui ha già fatto Zerbinetta!) ma rotonda, e soprattutto ben proiettata.  

Accomuno tutti gli altri (Gerhard Siegel, Valzacchi; Tanja Ariane Baumgartner, Annina; Caroline Wenborne, Jungfer Marianne Leitmetzerin; Bastian-Thomas Kohl, Notaio-Commissario e Jörg Schneider, Maggiordomo di Faninal – Oste) in un generale apprezzamento, ma con menzione per la Wenborne.

Per ultimo (italianità…) lascio Piero Pretti, interprete del Tenore, che deve cantare la famosa arietta di Molière (più… metà) nella sala dei ricevimenti del primo atto. Per dire che non se l’è cavata per niente male… salvo che anche lui, come il 90% dei tenori, non canta tutte le note di Strauss!

Si osservi il brano incriminato:

Il verso in un baleno viene cantato due volte, a breve distanza. La prima volta le parole in un ba… salgono dalla dominante LAb alla sesta SIb percorrendo croma, semiminima, semiminima, croma. Nella ripetizione quelle parole compiono lo stesso balzo in alto, ma con semiminima puntata più sei semicrome.

Della ventina almeno di esempi disponibili in rete, con i tenori più famosi di oggi e di ieri, io ho trovato ad eseguire precisamente il secondo passaggio solo Ben Heppner (59”), Fritz Wunderlich (1’53”) e Josef Traxel (1’25”). Gli altri al massimo, eseguono 4 o 5 delle sei semicrome.

Peccato, perché questa è una delle tante piccole ma preziose perle che Strauss ha disseminato nella sua straordinaria partitura, per evocare la consuetudine - tutta settecentesca - di lasciare all’interprete la libertà di variare le ripetizioni con propri abbellimenti.

Chiudo confermando comunque un voto di eccellenza a questa produzione, di cui il merito preponderante va al piccolo, grande… Cirillo!  

17 marzo, 2017

I Maestri trionfano alla Scala

 

Dopo ben 27 anni ieri sera le note dei wagneriani Meistersinger sono tornate a risuonare dentro il Piermarini (ahinoi con ampi spazi vuoti...) accolte da un autentico trionfo. E il trionfatore primo è stato Daniele Gatti, autore di una direzione e concertazione di livello assoluto: dallo stacco perfetto dei tempi, alla certosina meticolosità dello scavo dei particolari; dall’autorevolezza nel guidare le colossali scene corali alla cura con cui ha accompagnato il canto dei singoli. E l’Orchestra (piccole sbavature negli ottoni a parte) lo ha splendidamente assecondato, inondando la sala di suoni ora strepitosi, ora delicati e raffinati; ora tronfi ed enfatici, ora languidi ed accorati. Restituendoci tutta l’emozionante ricchezza di questa mirabile partitura. A partire dal Preludio, che Gatti ha meritoriamente spogliato di ogni eccesso di retorica guglielmina, moderando i suoni quasi a livello cameristico, per continuare con il Preludio del terz’atto, dove la cavata dei violoncelli e poi l’ingresso di viole e violini hanno avuto del memorabile. Quando poi ce n’è stato bisogno, Gatti non ha esitato a fare esplodere tutta la santabarbara orchestrale insieme a quella del coro di Casoni, con effetti davvero straordinari.

Per il direttore milanese un successo indiscusso, già prefigurato dagli applausi e dai bravo! piovutigli addosso ai due rientri e suggellato dalla trionfale accoglienza finale.

Nel cast vocale le cose non sono andate tutte allo stesso modo. Per fortuna ci ha pensato Michael Volle a deliziarci con una perfetta resa della personalità di Sachs: i suoi lunghi (o brevi) monologhi sono stati autentiche perle di espressività, da far salire le lacrime agli occhi; e la voce non ha mai perso smalto e profondità. Insomma, una prestazione che merita il massimo dei voti.

Sul fronte opposto, che dire del Walther di Michael Schade? Che il suo stesso cognome è l’immagine della sua prestazione? Che si può spiegare soltanto con un’improvvisa (e non annunciata) indisposizione: non altrimenti può accadere ad un tenore di dover portare quasi regolarmente all’ottava inferiore ogni nota superiore al SOL! Peccato davvero...

Note ancora positive per il Beckmesser di Markus Werba: la sua voce chiara e sempre controllata, senza inflessioni sguaiate che la parte potrebbe facilmente indurre, gli ha permesso di offrirci un Merker di alto livello: da incorniciare tutto il finale dell’incontro con Sachs nel terz’atto, oltre alle due memorabili serenate.

La Eva di Jacquelyn Wagner non mi ha francamente entusiasmato: voce minuta (spesso coperta dall’orchestra, che pure Gatti cercava di tenere a bada) e piuttosto aspra e vetrosa; si è comunque difesa onorevolmente almeno nel quintetto.

Suo padre Pogner è stato un ottimo Albert Dohmen, uno che interpretando ruoli di cattivoni e bastardi spesso esagera in sguaiatezze, mentre qui, nei panni di un padre nobile (magari un filino ottuso, ecco) ha dato il meglio di sè. Da incorniciare il suo indirizzo ai Maestri nel primo atto.

Benino anche il David di Peter Sonn, che a differenza di Schade evidentemente stava... bene e ha onorevolmente impersonato il ragazzo un po’ ingenuo che se la fa con una zitella!

La quale Magdalene è stata un’onesta Anna Lapkovskaja, che mi è parsa dotata di voce più penetrante di quella della Wagner.

Fra i Maestri, da menzionare in particolare il Kothner di Detlef Roth, tutti gli altri hanno... risposto bene al suo appello!

Efficace, nella minuscola ma importante parte del guardiano notturno, Wilhelm Schwinghammer.   

Da lodare tutti gli apprendisti(/e), allievi delle Accademie (scaligera, del Mozarteum e di Zurigo). Come detto, perfetto il coro di Casoni, con la perla del Wach’ auf!
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L’allestimento di Harry Kupfer (il cui gruppo di lavoro è stato pure calorosamente applaudito alla fine) va dritto al sodo, senza pretendere di scoprire chissà quali astrusi significati si nascondano nelle pieghe del libretto. Scene ridotte all’osso (ruderi della Katharinenkirche e ponteggi praticabili), costumi moderni, luci efficacemente dosate. Ma soprattutto: eccellente caratterizzazione dei personaggi e aderenza quasi maniacale (complice il concertatore) alle minuziose indicazioni che Wagner dissemina sulla partitura. Un esempio su tutti: la scena dell’arrivo di Beckmesser in casa Sachs nel terz’atto, dove ogni minimo dettaglio delle didascalie originali (che richiede perfetta sincronia tra ciò che si ode in orchestra e ciò che si vede sul palco) è stato restituito in modo a dir poco mirabile.

Qualche invenzione del regista non disturba più di tanto: mi limito a citare il Beckmesser che resta in scena dopo il fiasco della prova finale per ricevere una stretta di mano di Sachs.

All-in-all: uno spettacolo di assoluto livello che francamente non merita tutti i vuoti registrati ieri alla prima.

08 giugno, 2016

L’argenteo cavaliere ci riprova alla Scala

 

Ieri sera alla Scala seconda recita del redivivo Der Rosenkavalier, che a più di un secolo di distanza evidentemente continua a non convincere i milanesi (e non). Per carità, ora nessuno ha l’ardire – come accadde in quel lontano mercoledi 1° marzo del 1911 - di fischiare la musica del bavarese, accusandola di lesa maestà al nobile melodramma italico, perchè intrisa di eccessivo walzerismo viennese... O di irridere il testo del raffinato Hofmannsthal, che nella traduzione italiana doveva perdere parecchio dell’appeal che ha nella lingua originale, con tutte le sfumature del dialetto austriaco (che noi non crucchi ci perdiamo comunque anche ascoltando il tedesco). No, la disaffezione oggi si misura in numero di poltrone e di intere file di palchi andate deserte: una cosa, questa sì, al limite dello scandalo.

La nuova (per la Scala) produzione viene – tramite l’intermediario Pereira - da Salzburg ed è firmata dall’oggi 81enne Harry Kupfer. L’ambientazione – cosa che ormai supera il limite dell’abuso – è nella Vienna degli autori, non in quella di 150 anni prima. Quindi nei locali settecenteschi (su fondali di foto della Vienna novecentesca) lo scenografo Hans Schavernoch ci mostra – cito solo due esempi - un fonografo a manovella e una bellissima automobile (quella di Strauss doveva proprio essere così) e i costumi di Yan Tax sono pure da primo novecento, però con qualche tocco... vintage, come il taglio degli abiti di Octavian. (Delle scene c’è da elogiare la piattaforma che scorre da destra a sinistra e viceversa, assai efficace nel creare di volta in volta gli ambienti in cui si snoda la vicenda, mostrandoci anche ciò che avviene fuori scena, tipo l’ingaggio di Valzacchi-Annina da parte di Octavian). Naturalmente è un’ambientazione che deve fare i conti con la parrucca, e in particolare con quella di Ochs, oggetto fondamentale nel testo, poichè determina nientemeno che lo sviluppo della scena tragicomica del terz’atto: come sempre, anche qui il regista deve ricorrere al volgare parrucchino (perso e poi recuperato dal buzzurro di Lerchenau) che trasforma un’invenzione invero raffinata di Hofmannsthal in una gag da avanspettacolo. Come una gag diventa il duello Octavian-Ochs dell’atto secondo, con il nobilastro campagnolo ferito da una spada passatagli al volo dal ragazzo per invitarlo a combattere... O come la torma di ragazzini sedicenti-figli-illegittimi che nell’atto finale circondano Ochs, ben più numerosi dei 4 (quattro) previsti dal libretto. Tutte trovate abbastanza stantie – simili a quelle del precedente allestimento visto qui, a firma di Herbert Wernike, che avevo personalmente criticato assai a suo tempo - che non mi pare proprio valorizzino l’opera, ecco.   

Detto ciò, va comunque riconosciuto al vecchio Kupfer di averci presentato con grande equilibrio lo scenario socio-psico-esistenziale che caratterizza questo capolavoro: ci troviamo tutta l’apologia del regno di Maria Theresia, dal quale era nata l’Austria in cui vivevano (pieni di fama e... quattrini) gli autori, ma al contempo la meditazione sull’eterno fluire del tempo e sulla necessità di accettazione dei mutamenti che esso comporta per gli esseri umani. Tutto è un mistero, un grande mistero, ed esistiamo per questo, (sospirando) per sopportarlo. E nel “come” (con molta calma) sta la vera differenza. E parlo dei mutamenti a livello privato, come a livello pubblico: il futuro di Marie Theres’ come quello della nobiltà illuminata che lei impersona; quello della nobiltà retriva (Ochs); quello dell’emergente borghesia produttiva (Faninal); e infine quello dei giovani eredi (Octavian-Sophie). E al proposito la scena finale (indipendentemente dal mezzo di trasporto) è resa da Kupfer con perfetta aderenza allo spirito dell’opera.
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A Krassimira Stoyanova va indiscutibilmente la rosa d’argento della serata. Un’interpretazione magistrale (grazie anche a Kupfer, certo) e una prestazione vocale di eccellenza, per potenza di suono coniugata con mirabile espressività.

Il travesti è Sophie Koch, che (per me) ha iniziato malissimo, per poi però ritrovarsi e fare una dignitosa figura in particolare nelle prove finali (terzetto e duetto) dove la sua voce (mi) è parsa trovare il giusto grado di morbidezza. Meglio di lei l’altra Sophie (il personaggio): quella di Christiane Karg, che ha sciorinato un bella voce squillante e appropriatissima alla figura della figlia-di-papà, caratterizzata al contempo da ingenuità e slanci battaglieri.

Günther Groissböck è finalmente un Ochs appropriato anche anagraficamente: ha solo pochi anni più del (probabile) 35enne bue che viene dalla campagna a nord di Vienna e che troppo spesso viene cervelloticamente presentato come un vecchio lurido e bavoso. Quanto alla prestazione vocale, mi è parsa più che apprezzabile, a partire dal timbro piuttosto baritonale, anche qui adatto ad impersonare un tipaccio esuberante e non un vecchio mezzo rincoglionito. Qualche decibel in più di volume non avrebbe guastato, tuttavia si son potuti (a fatica) udire anche i MI gravi (e persino l’impossibile DO sotto il rigo, proprio nel momento in cui si accommiata dalla Marescialla nel primo atto, mich tiefst beschämt).


Faninal è Adrian Eröd, che si comporta senza infamia a senza lode: voce non molto penetrante (dovrebbe essere da baritono acuto) che fatica ad arrivare su al loggione. Certamente più udibile (anche troppo...) invece la Silvana Dussmann che impersona la cameriera di casa Faninal, il cui vociferare non è però del tutto inappropriato al personaggio di zitella... accalorata, ecco.

Ora farò indebitamente di ogni erba un fascio, accomunando tutti gli altri numerosi personaggi in un generico apprezzamento per aver dato il loro onesto contributo. Faccio una piccola ma doverosa eccezione per il tenore italiano, che l’italiano di studi Benjamin Bernheim ha impersonato con bella prestanza e sfoderando al meglio gli squillanti SIb e il SI naturale che la particina comporta. Sempre efficace il coro (grandi e piccoli) di Bruno Casoni.

Lascio da ultimo il venerabile Zubin Mehta, capitano di lungo corso su queste rotte straussiane e concertatore sopraffino. Se mi posso permettere un appunto, gli imputerei un filino di rilassatezza nei tempi, che avrei (personalmente, sia chiaro) preferito più spediti e garibaldini. Già l’attacco dei corni (uno dei quali purtroppo non è stato perfetto, ma pazienza...) mi è parso ad orecchio piuttosto al di sotto del metronomo di 60 minime prescritto da Strauss. Ma al grande vecchio si può perdonare questo ed altro, perchè tenere in pugno con consumata maestrìa un oggetto come questo non è da tutti.

Trionfo quindi meritato e... peggio per i disertori.