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28 ottobre, 2022

laVerdi 22-23. 5

Eccoci ad uno degli appuntamenti fissi delle stagioni dell’Orchestra Sinfonica di Milano: il Requiem verdiano. Sul podio il Direttore Emerito Claus Peter Flor, affiancato dal Maestro del Coro Massimo Fiocchi Malaspina. Auditorium affollatissimo e soprattutto popolato di gioventù. Gli orchestrali sfoggiano per l’occasione le nuove livree (puro Made-in-Italy) che indosseranno anche nell’imminente tournée in Olanda e Spagna, dove proporranno proprio il Requiem.

Grande prestazione di tutti, a partire dal Coro, invero perfetto, ma anche dei quattro solisti, veramente all’altezza dell’impegnativo compito: alle due super-collaudate voci femminili (Carmela Remigio e Anna Bonitatibus) si sono affiancati due giovani ormai più che promesse: il tenore Valentino Buzza (voce mozartiana/vivaldiana, chiara e squillante) e il basso Fabrizio Beggi, che ha sfoggiato potenza e varietà di accenti.

Quanto all’Orchestra, possiamo soltanto ringraziarla per la maiuscola prestazione, autorevolmente guidata dal redivivo Flor.

Esalato l'ultimo Libera me... applausi ritmati e ovazioni per tutti!
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Come detto, ora laVerdi (il nome resta sempre nella… tastiera) fa un giro in Europa e tornerà in Largo Mahler il 17 novembre.
 

21 novembre, 2020

Belisario da Bergamo

La seconda giornata del trittico donizettiano di questo Festival 2020 ci ha proposto in streaming (non diretta... ma fa poca differenza) Belisario, opera immeritatamente dimenticata da più di un secolo e ancor oggi proposta col contagocce.

La presenza dei cori, già corposa nel Faliero, qui nel Belisario è addirittura esorbitante. E se già per il Doge veneziano l’impossibilità di portare il Coro in scena aveva negativamente condizionato la rappresentazione, per il condottiero di Costantinopoli l’avrebbe del tutto compromessa. Obbligata quindi è stata la scelta di proporla in forma di concerto.

Placido Domingo era stato originariamente scritturato per la parte del titolo, un suo ennesimo sconfinamento in territorio baritonale. Beh, lasciatemi dire che qui il Covid ci ha aiutato (!) Roberto Frontali non sarà un superman ma, vivaddio, è un baritono, e si sente!

Bravissima, ma secondo me troppo bambina (solo nella voce, ma qui conta assai) è la Carmela Remigio, un’Antonina che meriterebbe voce da soprano lirico, non dico drammatico.

Perfetta invece per la parte di Irene la voce di Annalisa Stroppa, che metterei in testa alla mia personale classifica.

Celso Albelo più che dignitoso come Alamiro(/Alessi) e un filino sotto l’imperatore Simon Lim.  

Come ieri, ottimi Orchestra, Coro e il Kapellmeister Frizza.

24 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Petite Messe Solennelle


L’onore di chiudere il ROF-39 è quest’anno toccato alla grandiosa (!) Petite Messe Solennelle. Piazza del Popolo (ci ripasso dopo aver circumnavigato, laggiù in riva al mare, il fontanone - acqua dolce - con la sfera sventrata di Gio’ Pomodoro) alle 20 è già gremita di pubblico in attesa (per nulla religiosa, hahaha) della diffusione su maxi-schermo del concerto conclusivo del Festival, il cui inizio è stato spostato quest’anno dalle 20:30 alle 21. La piccola bomboniera del Teatro Rossini ribolle invece di preziose toilette e rumoreggia negli idiomi più svariati, compreso (ma è quasi un’eccezione) quello italico. Nal palco del sovrintendente prende posto anche un JDF con anulare e mignolo della mano sinistra strettamente imprigionati in una fasciatura rigida: forse un postumo dell’ultimo duello con Ircano (?!)  

La Messa è tornata al ROF dopo l’ultima comparsa nel 2014, allorquando fu diretta dal compianto Alberto Zedda, che con l’occasione presentò anche la sua orchestrazione del Preludio Religioso, che Rossini ha affidato al solo organo. Commentando quell’evento, mi ero permesso di avanzare seri dubbi sull’opportumità di presentare tale orchestrazione: non certo dal punto di vista della fattura, davvero eccellente, ma innanzitutto da quello del rispetto della volontà dell’Autore (visto che qui siamo nella fabbrica delle edizioni critiche...) ma anche da quello della concezione estetica. Per non parlare poi delle stesse argomentazioni addotte dal Maestro per la sua iniziativa, che reputavo e continuo a reputare del tutto inconsistenti e pretestuose. In qualche modo accettabile (secondo me) era stata la proposta di allora, un evento eccezionale nell’ambito di un festival, ma la ritenevo da escludersi come prassi da seguire. 

Orbene, la locandina dell’odierna esecuzione si è premurata di annunciare che il Preludio Religioso sarebbe stato eseguito anche questa volta proprio nella versione orchestrata da Zedda (il che esclude anche l’impiego dell’organo tout-court). Ecco quindi un bell’esempio di perseveranza nell’errore: errore che si può scusare una volta, come omaggio al grande paladino rossiniano, ma che rischia di diventare una colpa (diabolicum, come dice il vecchio adagio...) se reiterato.
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Esecuzione pregevole da parte dell’OSN-RAI, che Giacomo Sagripanti ritovava dopo il Ricciardo&Zoraide, e del Coro del Teatro della Fortuna (Mirca Rosciani) che replicava qui la Petite Messe dopo averla cantata a Roma poco tempo fa: picchi di merito per le colossali fughe di Gloria e Credo.

Alti e bassi per le quattro voci soliste. Sulle quali è spiccata ancora una volta quella di Daniela Barcellona, 22 anni di ROF e alla terza Messa (dopo 2004 e 2007): l’imponente contralto triestino si è presentata sfoggiando un décolleté alla... Jane Mansfield (!) forse come contrappasso a tutti i petti appiattiti cui l’hanno costretta negli anni i suoi personaggi en-travesti. Ma la voce è sempre solidissima e l’espressione (vedasi l’accorato Agnus Dei conclusivo) è davvero impeccabile.

Carmela Remigio, che tornava qui dopo 20 anni e 21 dal suo esordio al ROF proprio nella Messa, ha un po’ stentato all’inizio (non proprio da incorniciare i suoi acuti nel Qui Tollis e nel Crucifixus). Si è però riscattata ampiamente con un O salutaris hostia davvero convincente per purezza di canto ed espressività.

Celso Albelo non ha (alle mie orecchie, perlomeno) particolarmente brillato: il suo Domine Deus ha un po’ mancato di slancio e di profondità.

Senza infamia e senza lode l’esordiente al ROF Nicolas Courjal, forse ancora freddo nell’iniziale Et in terra, ma che ha fatto meglio nell’impegnativo Quoniam tu solus sanctus.
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Alla fine gran trionfo per tutti, con ripetute chiamate per i quattro solisti e i due direttori. Fuori, Piazza del Popolo è ormai... spopolata, e sul grande schermo campeggia già l’arrivederci al ROF-XL (il cui piatto forte sarà una nuova Semiramide della premiata coppia Mariotti-Vick).

05 giugno, 2016

Lieber Fritz in Venedig


La Fenice ha ospitato nei giorni scorsi un amico piuttosto riservato (nel senso che si fa vedere in giro abbastanza di rado): trattasi di tale Fritz, animato dalla musica di Pietro Mascagni, che ieri si è accommiatato dopo la quinta ed ultima rappresentazione.

Opera piuttosto singolare: un verismo sui-generis, perlomeno rispetto allo stereotipo classico che vorrebbe per questo genere di opere soggetti sanguigni, se non addirittura crudi e truci. Qui siamo invece alla normale (o quasi) vita di campagna, fra viti e ciliegi, dove due giovani troveranno la felicità dopo qualche vicenda strappalacrime e grazie all’intercessione di un rabbino. L’unico momento drammatico di tutta l’azione (beh, azione si fa per dire...) si riduce alla fuga precipitosa di Fritz dalla campagna verso la città, lasciando con un palmo di naso la poverina Suzel. Qualcuno ha persino parlato di una specie di Elisir d’amore (a ruoli principali invertiti) come dire: una pièce zuccherosa e un po’ patetica, con finale degno di Harmony, ecco.     

Le cronache ci dicono che fosse proprio Mascagni, dopo il clamoroso successo di Cavalleria - che però più d’uno maliziosamente attribuiva in parti uguali alla potenza del libretto e alla musica – a chiedere al suo editore Sonzogno, impaziente di fare altri affari con una nuova opera dell’astro nascente, un soggetto di basso profilo, in modo che, per contrasto, fosse la sua ispirata musica a venire in primo piano. E così ecco che la scelta cadde su L’ami Fritz, un romanzo leggero (ma non banale, attenzione!) in 18 capitoli di Erckmann-Chatrian del 1864, poi ridotto per il teatro nel 1876, dalla quale riduzione il famoso Angelo Zanardini aveva ricavato un libretto, di cui Mascagni irrise a tal punto la poetica da convincere Sonzogno a farne rimuovere le coglionerie (sic) da tale P. Suardon (al secolo il giornalista Nicola Daspuro, anzi D’Aspuro) e infine dai fidati Targioni-Tozzetti&Menasci, onde ricavarne il comunque mediocre libretto dell’opera.



Qualche curiosità sulle differenze di scenario fra il romanzo e il libretto. Il romanzo che indirettamente ispirò Mascagni fu opera di due francesi originari della Lorena: Émile Erckmann, nato a Phalsbourg e Alexandre Chatrian, nato a Soldatenthal (dei due, Erckmann era in effetti l’autore dei romanzi, mentre Chatrian si occupava più che altro della loro... commercializzazione o riduzione per il teatro).

La collocazione geografica della vicenda è abbastanza controversa: è luogo comune parlare di Alsazia (e così sarà infatti nel libretto dell’opera) ma in realtà i nomi delle località citate nel romanzo sono o immaginari o mascherati: la cittadina dove abita Fritz (non citata nell’opera) è Hunebourg, che non esiste come tale (a quel nome corrisponde in effetti un vecchio e isolato castello alsaziano, nei Vosgi) mentre si ritiene, da indizi derivati dal contesto, che si tratti di Landau (o località in quei pressi, come Dahn) che è nel Palatinato meridionale, regione tedesca occupata da Napoleone con tutti i territori tedeschi a sinistra del Reno nel 1797, ma poi tornata tedesca nel 1815 (Congresso di Vienna) con la restituzione di Landau e dintorni al Regno di Baviera. In effetti Fritz (siamo nel 1847) si vanta di essere bavarese e non vede di buon occhio gli imperialisti prussiani che si aggirano dalle sue parti, mentre mostra più simpatia per la Francia (e per i suoi vini, per la verità...)

Anche la descrizione di Bischem, dove Fritz e Suzel ballano alla festa (episodio ignorato dal libretto) corrisponde in realtà alla cittadina di Pirmasens, 30Km circa a ovest di Landau, sempre Palatinato. Nel romanzo troviamo anche la Lauter, fiumiciattolo che scorre nel Palatinato e poi traccia il confine fra lo stesso e l’Alsazia, sfociando nel Reno. Altri due luoghi direttamente connessi con Fritz sono Meisenthal (nell’opera Mésanges, il podere di Fritz, gestito dal padre di Suzel, Hans Christel) e Sonneberg (dove Fritz possiede dei vigneti - oggetto della scommessa con il rabbino David - nell’opera Clairefontaine): a questi nomi corrispondono effettivamente due località della Lorena che però sono (la prima sicuramente) incoerenti con il contesto (Fritz va e torna a piedi in giornata da casa sua a Meisenthal... che però disterebbe almeno 50Km!) Insomma, meglio non fare troppo caso ai riferimenti geografici, oppure pensare che gli autori abbiano consapevolmente voluto mischiare le carte per trasmetterci il concetto che tutta quell’area geografica (Alsazia-Lorena-SudPalatinato) avesse in fondo delle caratteristiche assai simili di civiltà, usi e costumi.

Ciò che infatti importa rilevare è come gli autori del romanzo siano francesi e per di più ardenti patrioti (scrissero diversi lavori di argomento nazionale) ma raccontino qui una storia edificante con personaggi tutti tedeschi, in un luogo storicamente più tedesco che francese. Mostrandoci con sapienti pennellate lo spaccato di una società persino fin troppo felice, tutta dedita al lavoro e al conseguente godimento (rendita compresa, vero Fritz?) delle risorse con esso create. E ciò si spiega con la collocazione temporale della scrittura del romanzo e della vicenda in esso narrata: il romanzo è scritto nel 1864 e narra di avvenimenti del 1847 (il periodo nel quale matura l’amore fra il ricco, nullafacente e impenitente scapolo 36enne Fritz Kobus e la timida, casta e romantica 17enne Suzel Christel, figlia di un suo mezzadro). Si tratta di un periodo storico in cui ancora in Francia si aveva dei tedeschi un’immagine positiva (la vecchia, buona Germania, amica della pace). Per chi, come gli autori del Fritz, proveniva proprio dalle zone di confine, prima del 1870 era quasi normale passare nel vicino Palatinato, venire a contatto con quelle popolazioni, apprezzando la quasi idilliaca convivenza fra etnie, lingue e religioni diverse: basti pensare che Fritz è luterano, Suzel anabattista e David (che fa di tutto pur di vederli sposati) è un rabbino! E che lo stesso David e il violinista gitano Iosef (personificazioni di due figure – ebrei e zingari – che diverranno tristemente famose per le persecuzioni di cui saranno vittime nella Germania del 20° secolo) in quella tollerante società sono invece accettati quasi con naturalezza...

Tutto cambiò dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, la dolorosissima perdita di Alsazia-Lorena e il conseguente insorgere in tutta la Francia, e in particolare nelle regioni annesse dai tedeschi, di sentimenti di revanche contro l’imperialismo d’oltrereno: da allora Erckmann diventò forsennatamente antiprussiano e scrisse solo opere intrise di fazioso patriottismo francese.

Orbene, a che pro tutto questo tormentone? Semplicemente per censurare la cervellotica impostazione del libretto di Daspuro, che colloca invece la vicenda in un generica Alsazia attorno al 1890 (periodo della composizione dell’opera) quando la regione Alsazia-Lorena era da quasi 20 anni annessa alla Germania (tornerà francese dopo la WW1, di nuovo tedesca nel 1940 e ancora francese a fine della WW2). Quindi: una collocazione geografica ma soprattutto temporale che fanno letteralmente a pugni con i contenuti idilliaci della vicenda, divenuti impensabili in quei luoghi e in quel periodo (i rappresentanti della regione al Reichstag erano tutti protestatari, cioè contrari all’annessione). Peraltro il libretto ignora quasi del tutto ogni aspetto politico, etnico, linguistico e religioso presente nel romanzo - salvo il riferimento al ruolo pastorale di David e alle attitudini gitane di Beppe - per insistere principalmente sulla banale componente rosa della vicenda. E a questo punto però l’ambientazione diventa del tutto gratuita, e Alsazia-1890 potrebbe tranquillamente mutare, invento a caso, in Pannonia-1760 o in Molise-1810 o nelle Fiandre-1920... e Fritz mutare in Frigyes, Chicco, Rik, ecco.
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Beh, dopo aver denigrato a sufficienza il libretto (ma mai come Verdi, che lo bollò seccamente come scemo!) veniamo alla musica, che dalla povertà del testo avrebbe dovuto programmaticamente trarre vantaggio! E bisogna dire che da subito lo trasse, se è vero come è vero che la prima di sabato 31 ottobre del 1891 al Costanzi fu un trionfo addirittura superiore a quello di Cavalleria (e più di un critico azzardò il giudizio secondo cui Fritz superava la stessa Cavalleria in contenuti estetici).

Nel 1892 l’opera approdò nel gotha di Vienna: martedi 26 gennaio fu data in tedesco, sotto la bacchetta del venerabile Hans Richter, alla Hofoper; poi in italiano, al Prater, diretta da Mascagni in persona, giovedi 15 settembre. L’ex sovrintendente della Hofoper ricordò il primo avvenimento come greve e il secondo come ispirato: confidò queste sensazioni dopo aver udito una delle prime, se non proprio la prima rappresentazione tedesca (lunedi 16 gennaio 1893, Amburgo) diretta da Gustav Mahler, il quale da parte sua si dichiarò letteralmente entusiasta del lavoro di Mascagni. Lusinghiero era stato a Vienna anche il commento del severo Eduard Hanslick, il di cui complimento per la verità potrebbe pure essere considerato, ehm, imbarazzante; e la cronaca ci dice che lo stesso Mahler, dopo Amburgo, mai più diresse il Fritz, ma solo Cavalleria, il che non esclude quindi un certo... raffreddamento nelle simpatie del boemo verso quell’opera. La cui lenta e progressiva diluizione di comparse nei teatri (alla Fenice la prima si ebbe... non prima del 1944 e la seconda e penultima 10 anni dopo; alla Scala nel dopoguerra abbiamo una sola presenza nella stagione 63-64!) testimonia dello scarso appeal di questa musica, di cui sopravvive, ma in esecuzioni concertistiche, il solo Intermezzo che apre il terz’atto.
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E di esecuzione in forma di concerto si potrebbe parlare a proposito di questa edizione del teatro veneziano, dove regìa, scene e costumi fanno a gara nel non dare valore aggiunto alla musica (così, paradossalmente, si accontenta Mascagni!) Simona Marchini (che con quest’opera ha una relazione particolare, nata a Livorno nel lontano 1991 e ivi rinfocolata nel 2002) pensa più che altro a mettere a loro agio i cantanti, facendoli cantare il più possibile al proscenio, ben rivolti verso il pubblico e bene in vista al direttore. Massimo Checchetto propone precisamente un quadretto (con tanto di corniciona) entro il quale si sviluppa la vicenda: nei due atti esterni siamo in casa di Fritz, un tavolo, uno scrittoio e sul fondo una grande vetrata da cui si scorge (atto primo) un campanile che spunta in mezzo agli alberi sotto un cielo sereno e (atto terzo, Alsazia addio!) un gran mare sotto un cielo plumbeo, che solo alla fine ovviamente si rischiara (hai capito che intuizione!?) Nell’atto centrale siamo ovviamente nella fattoria dove abita Suzel: una gradinata coperta da moquette verde sulla quale incombe di sghimbescio una piccola serra, poi un alberello con ciliegie mature, la pompa dell’acqua e un tavolo rustico. I costumi di Carlos Tieppo sono alsaziani quanto molisani o pannonici, ma comunque i/le sarti/e avran pure faticato a tagliarli e cucirli, quindi si meritano un bravi! Nulla di speciale nelle luci di Fabio Barettin.

Fabrizio Maria Carminati fa un buon lavoro di concertazione (aiutato, come detto, dalla regìa che gli mette i cantanti proprio... in faccia). Ma efficace è anche la sua resa delle mille sfumature (troppe, diceva un tal Giuseppe Verdi!) che costellano la partitura, con i continui cambi di tempo e le ardite (a volte cacofoniche) modulazioni. Ottima l’esecuzione dell’Orchestra, guidata da Robero Baraldi, salito alla fine sul palco a ricevere meritati applausi per la sua prestazione solistica del prim’atto.

Alessandro Scotto di Luzio mi è parso un buon Fritz, bella voce squillante ed efficacia nel rendere l’animo del protagonista, esteriormente spavaldo e cialtrone, ma sotto-sotto romantico e sensibile. Con lui ha fatto coppia una Carmela Remigio che ho trovato un filino al di sotto del suo normale standard: certo, la sua voce è per natura assai appropriata al personaggio, ma ieri ha avuto qualche calata di troppo e un portamento eccessivamente affettato.

Convincente la prestazione di Elia Fabbian (David): voce solida e penetrante, a supporto di una felice espressività. La controfigura (!) di Roberto Baraldi (Beppe) era Teresa Iervolino, che forse non ha cantato come il primo violino ha suonato, ecco... però si merita comunque ampia sufficienza. Hanno degnamente contribuito al successo William Corrò, Alessio Zanetti e Anna Bordignon. Bene al solito (la parte non è peraltro proibitiva) il coro di Claudio Marino Moretti.    

Alla fine un pubblico lungi dall’essere oceanico ha tributato a tutti applausi calorosi, che si sono aggiunti a quelli a scena aperta dopo le arie e l’Intermezzo.
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Ecco, salutato Fritz Kobus, adesso si profila all’orizzonte la minacciosa quanto pagliaccesca figura di un suo coetaneo del secolo precedente, il barone Ochs auf Lerchenau, non so se mi spiego!

18 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 3

 

Ieri pomeriggio al Regio torinese seconda de La donna serpente di Alfredo Casella. Teatro piacevolmente affollato, con buona presenza di ragazzi, che già avevano mostrato interesse per l’altra favola in musica programmata a inizio anno, La piccola volpe astuta.    

La positiva impressione suscitata (per quanto mi riguarda, perlomeno) dalla visione in TV della prima di giovedi scorso è stata confermata in pieno. A partire dall’allestimento di Arturo Cirillo, che ha optato per scene (di Dario Gessati) assai stilizzate e minimaliste, quindi poco rispettose, se si vuole, delle favolistiche didascalie del librettista Lodovici, ma concentrando i caratteri fiabeschi del soggetto nei bellissimi costumi di Gianluca Falaschi e nelle luci assai efficaci di Giuseppe Calabrò.

A proposito di costumi, intelligente è aver rivestito le quattro maschere con quelli della tradizione veneziana (Pantalone, Brighella, Truffaldino e Tartaglia) anche se Lodovici, per accentuare l’ambientazione caucasica del racconto di Gozzi ne ha islamizzato i nomi in Pantul, Albrigor, Alditruf e Tartagil (i primi due in Gozzi parlano in dialetto veneto, oltretutto...)        

Cirillo opta per una totale glasnost (trasparenza) consistente nel mettere in mostra, davanti agli occhi dello spettatore, anche scene o personaggi che il libretto prescriverebbe di celare agli sguardi del pubblico. Ciò accade in special modo nell’atto conclusivo, a partire proprio dall’inizio, preludio strumentale e aria di Miranda (la leopardiana Vaghe stelle dell’Orsa): che si dovrebbero ascoltare a sipario chiuso e nella più totale oscurità, per evidenti ragioni di ambientazione (l’impenetrabile dimora di un rettile) e per non dover mostrare un serpente che canta! Invece Cirillo fa esibire durante il preludio la bravissima e sinuosa danzatrice Vilma Trevisan e poi ci mostra Carmela Remigio che canta la sua struggente aria mirabilmente abbigliata con uno dei costumi di Falaschi.

Più avanti, mentre si prepara la tenzone fra Re Altidor e i tre mostri, è previsto un breve siparietto di cui sono protagonisti il Re delle fate (Demogorgon, padre di Miranda) e il mago Geonca (protettore di Altidor). Il libretto prevede espressamente che i due non si vedano, ma cantino stando dietro le quinte; non solo, ma la loro voce dovrebbe arrivare in sala attraverso forti altoparlanti elettrodinamici (da qui l’indicazione: duetto degli altoparlanti!) È una più o meno voluta imitazione del vocione di Fafner che nel Siegfried si deve udire attraverso un megafono, per dare l’impressione di cavernosità e lontananza delle voci. Ecco, Cirillo fa invece entrare sul palco i due personaggi e li fa cantare al naturale, senza megafoni di sorta.

Infine, anche l’ingresso di Togrul con i due figlioletti di Altidor dovrebbe avvenire dopo che la voce del Visir si è udita da dietro le quinte: qui invece lui canta dopo essere ben entrato in scena. Beh, non mi sentirei francamente di censurare più di tanto queste scelte del regista (che ci ha anche risparmiato il passaggio della distruzione del sepolcro del serpente-Miranda e della sua riduzione in cenere).

Casella ha infarcito l’opera di passaggi puramente strumentali - formalmente motivati dalla necessità di coprire complicati cambi di scena - ma che a lui risultavano oltremodo congeniali, date le sue attitudini di musicista puro. Qualche esempio: il lungo interludio che separa il Prologo dall’inizio dell’Atto I (e che ha quasi una funzione di ouverture) dovrebbe permettere di sostituire la lussureggiante scenografia iniziale del mondo delle Fate con quella orrida e selvaggia del deserto in cui troveremo Albrigor e Alditruf. Oppure, nell’Atto I, la scena del sonno di Altidor, con la bellissima berceuse. O ancora, nell’Atto II, la transizione verso la scena IV (a Teflis) con la marcia delle amazzoni. Ecco, avendo Cirillo di fatto eliminato la necessità di complicati cambi di scena, ha avuto l’idea vincente di riempire gli spazi puramente sonori della partitura con le coreografie di Riccardo Olivier e i quattro danzatori della Fattoria Vittadini, più 10 mimi impiegati in funzione di... fate-maschio (= fati!) in ciò rifacendosi alla tradizione dell’opera barocca, tanto cara al compositore.

A proposito di mimi, Intelligente (e didascalico) anche l’impiego di due di loro in veste di marionette manovrate dalle due maschere per rappresentare i travestimenti Pantul-Checsaia e Togrul-Altamuc nella quarta scena dell’Atto I. Simpatica anche la resa dell’inizio della scena magica (terza dell’Atto I) dove Togrul e Tartagil invece che calare dall’alto in groppa a due grosse libellule arrivano su due trabiccoli multicolori spinti da due mimi.
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Ma il tutto è assai funzionale alla narrazione musicale di Casella, della quale si fanno carico Gianandrea Noseda, gli orchestrali e le voci. Il Maestro sciorina la sua grande dimestichezza con la musica di Casella e non lascia mai cadere la tensione (perdonabile qualche eccesso di decibel) e mette benissimo in risalto tutte le scoppiettanti idee musicali che costellano la partitura, benissimo assecondato da un’Orchestra in stato di grazia.

Sul fronte voci, un encomio si merita subito il coro di Claudio Fenoglio, impegnato a pieno organico in passaggi di notevole difficoltà ed effetto (Atto III) ma anche a piccoli gruppi in scene di grande lirismo (ad esempio: le Nutrici...)

Tutto il cast mi è parso offrire una prestazione rimarchevole, a partire dalla protagonista Carmela Remigio, perfettamente calatasi nella parte di Miranda: prestazione che ha avuto ovviamente il suo apice nella difficile quanto commovente aria del serpente.

Accanto a lei, ottimo Piero Pretti, voce squillante e sempre ben intonata, capace di sovrastare anche i fracassi orchestrali, ma efficace anche nelle tante espressioni di puro lirismo che caratterizzano la parte.

Le due guerriere Armilla e Canzade sono splendidamente impersonate da Erika Grimaldi, che ha esibito una bellissima voce da soprano drammatico, e da Anna Maria Chiuri, autorevole in tutta la non facile tessitura. Metterei appena un filino sotto la prestazione di Francesca Sassu (la sbifida fata Farzana) che ha esibito qualche urlo di troppo sugli acuti.

Bravi tutti i quattro interpreti delle maschere, Francesco Marsiglia, Marco Filippo Romano, Fabrizio Paesano e Roberto de Candia. A quest’ultimo darei la palma di primus-inter-pares... Ottimo mi è parso Fabrizio Beggi, in specie nelle accorate esternazioni verso i due pargoletti di Miranda. Sebastian Catana ed Emilio Marcucci hanno avuto, come detto, il privilegio di cantare al naturale e senza amplificazione, il che gli ha consentito di esibire voci robuste e ben adatte ai ruoli (Demogorgon e Geonca).

Ma bene hanno operato anche tutti gli altri interpreti minori, dando il loro valido contributo alla notevole resa complessiva dello spettacolo.    
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Interessante la mostra allestita nel foyer Toro del Teatro, che ripercorre la vita di Casella attraverso preziosi reperti fotografici e testuali che testimoniano dell’apprezzamento che l’intero mondo musicale della prima metà del ‘900 mostrò per questo musicista autenticamente europeo. Apprezzabile anche l’iniziativa del teatro di allegare (senza sovrapprezzo) al programma di sala un doppio CD con interpretazioni caselliane di Noseda (le 3 sinfonie e frammenti sinfonici da La donna serpente) con i suoi ex- della BBC Philharmonic. Insomma, direi che questo revival di Casella sia da applaudire – come ha fatto ieri il pubblico - senza condizioni.

(3. fine)

23 marzo, 2015

A Venezia un’Alceste… smagrita ma sempre bella

 

Ieri, in una Fenice abbastanza affollata, complice (o nonostante) un inizio di… inverno, è andata in scena la seconda rappresentazione di Alceste. Firmato dalla coppia Pizzi- Tourniaire.

La diffusione di Radio3 della prima di venerdi scorso (cui ha assistito il venetiofobo Amfortas riportandone impressioni positive) mi aveva un filino deluso sul piano dei contenuti (si intuiva già dai tempi indicati per lo spettacolo che ci fossero tagli non propriamente marginali) mentre mi aveva abbastanza soddisfatto su quello dell’esecuzione musicale.  

L’allestimento di Pier Luigi Pizzi prevede un solo intervallo, collocato - per equilibrare i tempi delle due parti - dopo la Scena II dell’Atto II. Questo comporta qualche teorico scompenso a livello del respiro dello spettacolo, che in origine prevede due fermate in momenti topici e paralleli: lo sconcerto generale per il destino di Admeto e quello analogo per il destino di Alceste, sostituitasi al marito.

Qui invece la prima parte, dopo l’Atto I, prosegue con la proposizione anticipata del Pantomimo numi infernali, che è in origine proprio alla fine della Scena II: non saprei dire se questo spostamento sia dovuto a necessità di coprire un cambio-scena (del resto non complicatissimo, apparentemente) oppure da una scelta estetica del duo regista-direttore: fatto sta che dopo il coro in DO maggiore Chi serve e chi regna, che chiude(rebbe) l’Atto I, il sipario viene calato e il pubblico applaude proprio come si fosse arrivati all’intervallo… invece ecco uscire sul proscenio Alceste, silenziosa e accompagnata dal Pantomimo (DO minore) che si chiude con l’entrata di Ismene (LA minore, Ferma, dell’inizio Atto II).

Prima parte dello spettacolo che si chiude quindi con l’aria di Alceste (Non vi turbate no) che ottiene dai Numi di poter tornare a salutare per l’ultima volta i cari, prima di morire. Una chiusura quindi piuttosto dimessa, sia pure in MIb maggiore, assai diversa da come sarebbe quella dell’Atto I, sul possente coro del Popolo.  

Per avere poi due parti di durata paragonabile (65 e 70 minuti) l’Atto II e l’Atto III hanno subito i tagli più evidenti (anche il primo atto ha delle sforbiciatine, ma roba da poco). In particolare la Scena VI dell’Atto II manca dei recitativi di Alceste (O casto…) e dei Cortigiani (Così bella…) e soprattutto del lungo e bellissimo recitativo di Alceste Figli, diletti figli. Nell’Atto III è principalmente tagliata la Scena II: recitativo di Alceste-Admeto (Vieni dunque) prima di Cari figli. Per il resto, è stato sacrificato qualche da-capo nei balletti.

Pizzi, intervistato alla radio venerdi scorso dalla Gaia Varon, aveva giustificato questi interventi sul testo con razionali vaghi e opinabili, del tipo: qualche taglio si faceva anche ai tempi di Gluck… In realtà la ragione più plausibile sembrerebbe di puro carattere… logistico: evitare un secondo intervallo, che si renderebbe necessario data la durata dei 3 atti completi (60-73-38 minuti, come si può rilevare da questa registrazione con la Flagstad, oltre che dall’esecuzione scaligera di Muti del 1987).  

Però, fatte queste doverose premesse e osservazioni di carattere tecnico-pedantesco, devo dire: tanto di cappello a Pizzi per come ha reinterpretato – era la sua quarta volta! - l’opera, benissimo coadiuvato dalle luci di Vincenzo Raponi.

Scene e costumi sono intonati ai colori bianco e nero (il proscenio ha addirittura un pavimento a scacchiera…): bianco come amore e nero come morte. Poi nella seconda parte dello spettacolo compare anche un poco di giallo-oro, forse a rappresentare la felicità. Il fondo della scena è modellato da pannelli che lo suddividono in 3 arcate, all’interno delle quali compaiono pochi e simbolici oggetti: un enorme turibolo e la statua di Apollo, poi (scena agli Inferi) degli alberi neri e rinsecchiti con le radici ricoperte di bianchi teschi (che sono anche appesi, quali frutti, ai rami). Per il resto servono anche a separare (come le basse gradinate che scendono al proscenio) i cori, fra destra e sinistra, come prescritto in partitura da Gluck. Fanno eccezione i Numi infernali, il cui coro canta in buca, mentre in scena scorrono pantomime di spettri rigorosamente in nero. Anche i costumi, di foggia assolutamente classica e stilizzata, come detto sono immacolati, salvo quelli di Alceste e della confidente Ismene, che mutano in nero dopo che la protagonista ha deciso di sacrificarsi.

I movimenti di protagonisti e masse sono sempre lenti e ieratici (un po’ alla… Wilson, se vogliamo) come si addice allo spirito dell’opera. La morte e… resurrezione di Alceste sono rappresentate dal suo addormentarsi sul letto posto al centro della scena, e alla fine dal suo risvegliarsi grazie alla… grazia di Apollo, la cui voce si ode dall’alto, senza che il dio appaia di persona.

Insomma, una messinscena pregevole che va ad aggiungersi al già abbondantissimo carnet di Pizzi.
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Sul fronte dei suoni, confermata la buona impressione della prima radiofonica.

Guillaume Torniaire – è il primo direttore mancino che io abbia mai visto su un podio - sfoggia grande sicurezza e sensibilità, ottenendo dall’ottima orchestra della Fenice un suono sempre morbido e leggero, come si confà allo spirito dell’opera, che rifugge da qualsiasi forzatura, enfasi o fracasso per concentrarsi sul dramma dei protagonisti e del popolo che ne condivide ogni singolo passo. A proposito di Popolo e di Numi infernali, eccellenti i componenti del coro di Claudio Marino Moretti, che ha appunto messo in mostra quel pathos che caratterizza i numerosi interventi delle masse.

Trionfatrice del pomeriggio Carmela Remigio, un’Alceste davvero emozionante, in tutta la gamma dei sentimenti che la protagonista esterna durante l’intera opera: dolcezza, amore, dolore, sacrificio, rassegnazione, gioia.

Marlin Miller è Admeto, una parte difficile che il tenore americano affronta forse con un po’ di circospezione all’inizio, per poi crescere nettamente. La voce forse non è penetrantissima, ma sempre ben intonata e senza forzature.

Quasi meglio di lui il suo… confidente Evandro, dicasi Giorgio Misseri, bella voce squillante e ben impostata (forse un paio di lievi calatine, ma nulla di grave). E anche l’altra confidente, Zuzana Marková, se l’è cavata assai bene.

Più che apprezzabili gli altri comprimari: Armando Gabba, Vincenzo Nizzardo e gli altri solisti del Coro che hanno parti di un certo rilievo.

Bravissimi infine i due fanciulli (interpreti dei figli della coppia protagonista) che vengono dal Coro di voci bianche dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.
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Ecco, uno spettacolo che val bene una trasferta in laguna!   

30 giugno, 2014

Altri libertini a Venezia


Dopo il Regio di Torino è la volta della Fenice a cimentarsi con Stravinski. Impresa peraltro non proibitiva, a suo tempo (1951) essendo stato proprio il teatro lagunare a tenere a battesimo l’ultimo ruggito neo-classico dell’orso russo transumato in occidente. Ieri pomeriggio seconda rappresentazione in un teatro assai gremito. Anche qui si è fatto un solo intervallo che – a differenza di Torino - è stato posto fra il secondo e il terzo atto.

Segnalo subito la – come sempre – brillante recensione di Amfortas, che ha seguito la prima di venerdi. E anche il magnifico programma di sala, già scaricabile via web, vero fiore all’occhiello del teatro veneziano.
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Damiano Michieletto con il suo team fisso (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti) fa ancora il profeta in patria portando a Venezia – però con cast totalmente rinnovato - il suo allestimento già collaudato qualche settimana fa a
Lipsia dove, almeno stando alla stampa locale, ha ottenuto molti consensi e sparute contestazioni. E a proposito di stampa tedesca, è interessante (e torna a tutto suo onore) un’affermazione di Michieletto in risposta all’ultima domanda del Leipzig-Almanach: l’arte non deve insegnare, ma suscitare emozioni. Beh, come risposta a tanti eccessi pseudo-maieutici del Regietheater non c’è male davvero! Ma il rischio è che si predichi bene e poi…

La regìa del suo Rake la definirei superficiale, riscattatasi soltanto nelle due scene finali (quelle oggettivamente più facili da valorizzare e/o più difficili da… rovinare). Vediamo perché.

La prima scena, che almeno inizialmente dovrebbe essere – seriamente e poeticamente! – idilliaca, viene trasformata da Michieletto in una prosaica giornata di week-end in campagna, con tanto di barbecue, dispetti con spruzzi dell’irrigatore e lavaggio di auto. Quest’ultima operazione serve al regista per rappresentare il lavoro alienante (di contabile) proposto a Tom dal futuro suocero, e che il (potenziale, per ora) libertino disprezza nel suo recitativo con aria di sortita. Magari l’autoveicolo può anche evocare il viaggio maledetto di Tom che toccherà diverse tappe per condurlo finalmente alla perdizione, dopodichè si può sorridere dell’ingenuità di portare in scena una vecchia Peugeot 204 degli anni ‘60 (in Inghilterra poi, un’auto francese con guida a sinistra?) come simbolo del viaggiare! Dal che intanto si deduce quale sia il periodo storico in cui Michieletto cala la sua ambientazione; quanto al luogo, effettivamente pare più yankee che british.   

Shadow compare in scena fin da subito e in pratica mai ne uscirà, costituendo una presenza costante e persin troppo asfissiante. Poco giustificate le sue attenzioni (e molestie in piena regola) nei confronti di Anne, forse ai suoi occhi una nemica, in quanto potenzialmente in grado di strappargli dalle grinfie la sua vittima Tom (nulla di tutto ciò si desume, nemmeno lontanamente, dal libretto, manco a dirlo).

L’enorme piscina in cui è ambientata la seconda scena del primo atto (il bordello di Mother-Goose) fa venire in mente LasVegas più che Londra: è riempita di monete d’oro e sopra di essa incombono sette scritte al neon rappresentanti gli altrettanti vizi capitali. Questa scelta è di sicuro impatto, anche se sembrerebbe attribuire surrettiziamente a Tom tutti i vizi possibili e immaginabili (vedremo che non sarà così, ma che ciò provocherà altri problemi). Inoltre è poco appropriata a dipingere un postribolo frequentato da bad-boys (o hooligans violenti, oggidì) dove in definitiva è quasi solo la lussuria ad imperare, contornata magari da accidia e ira: si deve perciò da subito sospettare che questa scena farà da sfondo – via via deteriorandosi - anche a tutte le successive tappe del cammino di Tom. E di volta in volta si accenderanno solo alcune scritte al neon per sottolineare i vizi in quel momento aleggianti sulla scena.

Ecco, l’associazione di taluni vizi a personaggi diversi da Tom finisce però per togliere enfasi e per sfuocare proprio quelli del protagonista, che dovrebbero essere l’oggetto dell’opera. Che ira, gola, invidia e superbia siano attribuibili a Baba (scena 3 dell’atto secondo) può essere tecnicamente plausibile, ma è del tutto fuorviante nell’economia dell’opera, che è focalizzata sui vizi di Tom! Al quale Tom essi vengono anche attribuiti a sproposito: ad esempio la sua infatuazione per la macchina del pane andrebbe imputata a superbia (diventare famoso e meritare l’amore di Anne) non come fa Michieletto ad avarizia (=avidità) vizio che Tom ha già ampiamente dismesso nella prima scena di quello stesso atto, in cui lui manifesta la sazietà e il disgusto per cibo, gioco e donne, cioè gola, avarizia e lussuria. Un discorso a sé meriterebbe l’accidia: la scritta luminosa si accende nella prima scena del second’atto (dove vediamo Tom schifato dell’esistenza da ricco) e quindi comunica il concetto che tale vizio sia un effetto della sua nuova vita a Londra, quando invece sappiamo benissimo che esso è per lui la madre di tutti i vizi e quindi la causa prima e unica di tutte le sue disavventure! Se si voleva chiarire il concetto allo spettatore sprovveduto, allora quella scritta luminosa doveva essere mostrata già nella prima scena del primo atto!

Veramente debole la seconda scena dell’atto 2, con Baba (alias Conchita Wurst) che assiste a volto (e corpo!) scoperto all’arrivo di Anne, ai preparativi delle nozze e all’incontro di Anne con Tom: come minimo va a farsi benedire la sorpresa dello scoprimento della sua fluente barba!

Ridicola anche la terza scena del second’atto, con canotti, salvagenti e pupazzi di plastica a rappresentare i cimeli di Baba: insomma tutto il personaggio e il mondo della donna barbuta vengono banalizzati e irrisi in modo volgare (e non raffinato, come si dovrebbe e potrebbe fare rispettando il libretto!) Bambinesca anche la parte finale della scena, con la macchina del pane ridotta ad una pila di salvagenti, metafora piuttosto ingenua delle bolle economiche dei nostri giorni, gonfiate artificiosamente.

Di conseguenza anche la prima scena del terz’atto (l’asta) diventa tutta una pagliacciata che finisce per metterne in ombra, annegandoli in una generale caciara, proprio tutti gli aspetti più grotteschi.

Come detto, le ultime due scene, dove si materializza il dramma, sono le meglio riuscite: guarda caso, lì Michieletto segue il testo originale in modo quasi pedestre, senza inventarsi nulla. Tranne il due di spade della scena del cimitero, che magari si giustifica proprio per facilitarne la miglior comprensione da parte dello spettatore italiano. E poi – ultima scena – il mostrare il suicidio di Tom che si soffoca infilandosi in testa un sacchetto di plastica. Invece la bambolina-Venus che il regista mette in braccio a Tom (e gli fa rubare da Shadow) è un’idea coerente con lo spirito (se non la lettera) dell’originale e come tale è da apprezzare.

Nell’Epilogo fanno un poco sorridere le quattro coltellate inferte al povero Shadow (che tanto se ne fa un baffo…) dai quattro protagonisti.

In definitiva, un allestimento con parecchie ombre e qualche luce nel finale. Dal confronto diretto, per me McVicar esce vincitore per 3-1!

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Diego Matheuz ha diretto la pregevole orchestra della Fenice con diligenza e compostezza; devo dire che a Torino Noseda mi aveva dato l’impressione di maggior cura dei dettagli (ma sono proprio impressioni…) Bravissimi anche i membri del Coro di Claudio Marino Moretti, a partire dalle sguaiatezze del bordello per finire al mirabile canto funebre conclusivo.

Fra i protagonisti, su tutti un ottimo Juan Francisco Gatell, che ha proposto in modo assai efficace il personaggio di Tom. Accanto a lui una più che discreta Carmela Remigio, efficace in tutta la gamma, che va dal SI sotto il rigo al DO acuto (nella chiusa della cavatina lo ha esploso come nulla fosse). Le perdonerei la forzatura di altri acuti, con tendenza a vetrosità di emissione. 

Lo sbifido Shadow era Alex Esposito, attore consumato in cui Michieletto ha di sicuro trovato il suo diavolo. Ma anche vocalmente se l’è cavata assai bene (la parte peraltro non è proibitiva).

La Baba di Natasha Petrinsky si è meritata ai miei orecchi una larga sufficienza, che sarebbe diventata ancor più solida se le note dell’ottava bassa (tocca il LA sotto il rigo) fossero risultate più udibili.

La Mother Goose Silvia Regazzo e il Sellem Marcello Nardis hanno ben meritato: in particolare il secondo, che ha una parte molto radicata al centro dell’estensione (MI-SOL) ma deve cantare con la voce petulante caratteristica degli imbonitori da strada.

Michael Leibundgut (Trulove) e Matteo Ferrara (guardiano del manicomio) più che onesti nelle loro parti di contorno.

Alla fine il pubblico ha tributato meritati applausi a tutti, per uno spettacolo che evidentemente lo ha divertito ed emozionato.

17 aprile, 2013

Normariella ci prova a Bologna


Uno degli eventi più attesi del millennio (smile!) si sta consumando a Bologna, dove è in scena una Norma… fuori-norma. O almeno tale ritenuta da molti sacerdoti del culto del soprano drammatico, che considerano una bestemmia e una provocazione che il ruolo della terrificante sacerdotessa gallica venga sostenuto da una vocina più adatta, caso mai, ad impersonare la mite e patetica Adalgisa. (La quale Adalgisa, per inciso, qui è Carmela Remigio, che fa la… pendolare - smile! - proprio dal ruolo di Norma, quasi a dimostrazione che l’uno vale l’altro, ahahaha!)

Personalmente mi tengo alla larga da simili diatribe, anche perché se l’alternativa è fra un soprano drammatico che bercia e uno leggero che canta, ho pochi dubbi sulla scelta…  
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Sui contenuti e sul soggetto (e le incongruenze storico-geografiche) dell’opera ho già dissertato (smile!) in occasione di una rappresentazione di un anno addietro al Regio torinese, e colà rimando l’eventuale lettore masochista… Allego piuttosto uno scritto di Friedrich Lippmann su Bellini, apparso su Musica&Dossier nel giugno 1987.

Dirò quindi due cose sull’allestimento di Federico Tiezzi, una co-produzione del triangolo Bologna-Trieste-Bari (al Petruzzelli andò in scena nel lontano e infausto 27 ottobre 1991).

Le tre immagini che seguono danno vagamente l’idea delle diverse prospettive sotto le quali si può vedere l’opera: la prima (ripresa al San Carlo nel 1987) riproduce quella di Alessandro Sanquirico per la prima alla Scala del 1831, in cui è evidente lo stile neoclassico; la seconda presenta un bozzetto di Felice Casorati (atto IV, quadro II) del 1935 per il Maggio, un approccio chiaramente realista e paganeggiante; la terza mostra la celebre struttura lignea astratta di Mario Ceroli, per l’allestimento di Mauro Bolognini, che imperversò alla Scala per anni, a partire dal 1972.



Ecco, Tiezzi e lo scenografo Pier Paolo Bisleri (che riprende i fondali originali di Mario Schifano) propongono un’ambientazione, diciamo, sincretizzata, dove troviamo qualche riferimento neoclassico (colonne-quinte) e naturalistico (alcuni fondali) innestati su una base simbolista, rappresentata dall’Irminsul stilizzato e dalla Luna di Schifano). La scena è quasi sempre sgombra, o popolata da pochissimi oggetti. I costumi di Giovanna Buzzi sono anch’essi di epoche diverse: ottocenteschi-napoleonici quelli dei romani, più neoclassici (vedi le lunghe tuniche) quelli dei galli. Anche le suppellettili di casa-Norma (ridotte peraltro a due sedie e poco più) sembrano settecentesche, mentre il trenino-giocattolo del figlio della profetessa ci riporta necessariamente nel primo ottocento.

I movimenti dei personaggi e delle masse sono in sintonia con l’austerità delle scene (e del libretto) e tutta la regìa è quindi orientata alla concentrazione sui conflitti psicologici che caratterizzano il soggetto. Il che è da apprezzare in pieno.
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Della parte musicale dirò subito – tanto per introdurre il discorso-Devia – che Casta Diva è stata cantata in FA e non in SOL (tonalità originaria in cui fu composta la cavatina, ergo più adatta ad una voce… leggera) e che quindi la Mariella si è attenuta alla tradizione, senza cercare di… approfittare di una circostanza teoricamente a lei favorevole. Qui abbiamo la sua performance alla prima, dove si può notare un particolare interessante, che testimonia dell’originalità e della cura che la Devia ha messo nella sua preparazione: l’esposizione della prima frase, a 2’15” (a noi volgi il bel sembiante) è eseguita scrupolosamente secondo partitura, con la salita dal SI naturale al LA acuto (sillaba sem) seguita da 3 forcelle sul bian, poi da un respiro e quindi dalla quarta forcella sul LA con salita al SIb acuto e successiva discesa all’ottava inferiore (sempre sulla sillaba bian); invece alla ripresa del motivo (spargi in terra quella pace) a 5’00”, la Devia, dopo la salita dal SI al LA (sulla parola quella) canta anche la parola pace tutta in legato, senza forcelle e senza prese di fiato intermedie (respira più avanti, prima di che regnar):


Un esempio credo legittimo, questo, di intervento sullo spartito, intervento del tutto normale ai tempi del bel canto, dove era anzi richiesto all’interprete di portare, nelle ripetizioni, il suo valore aggiunto rispetto all’originale.  

Ora, avanzare accademici distinguo sulla prestazione della Devia sarebbe non solo irrispettoso verso la straordinaria professionalità di questa cantante, ma anche piuttosto pretestuoso e scarsamente sostenibile proprio in termini estetici: perché ciò che conta è – anche qui, come in politica o nello sport - il risultato. E il risultato complessivo (parlo ovviamente per me e per nessun altro) è stato più che soddisfacente (per gran parte del pubblico… anche di più, a giudicare dal calore generale dell’accoglienza riservata alla protagonista). E non solo per il Casta Diva, ma per l’intera performance della Devia, culminata in un In mia man alfin tu sei, dove la Mariella, oltre ad evitare il naufragio, ha tirato fuori unghie insospettabili!  

L’altra peculiarità di questa edizione – in omaggio al Wagner bi-centenariato, ma anche in ragione dell’ammirazione incondizionata che il genio di Lipsia nutriva per Bellini e a conferma della vocazione wagneriana di Bologna - è rappresentata dall’impiego della variante (Norma il predisse, o Druidi, WWV52) composta da Wagner a Parigi (1839) per l’aria di Oroveso che nell’originale belliniano inizia con Ah, del Tebro al giogo indegno (scena V, atto II, brano invero splendido e con chiari rimandi tematici al precedente Non partì). Ecco il fascicoletto col contributo wagneriano fare capolino dal volume della partitura di Mariotti, nel bel mezzo dell’atto secondo:


Detto fra noi, e con tutto il rispetto per Wagner (sia ben chiaro) a mè mme pare… ‘na padanada! Ci si sente qualche folata dell’Holländer (toh!) mescolata a scimmiottature dei Puritani, compresa la conclusione con un protervo accordo generale, laddove Bellini chiude in pianissimo! Insomma: una cosa davvero deplorevole, che francamente ci poteva essere risparmiata!
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Del cast di Torino-2012 tornano qui alcuni protagonisti, a cominciare dal padrone di casa Michele Mariotti, il quale conferma in pieno la sua notevole caratura, oltre che il suo approccio all’opera: tempi piuttosto trattenuti, è vero, ma mai grevi, né tali da spossare i cantanti; attacchi sempre precisi e controllo appropriato del volume, attenzione alle minime sfumature… insomma, una direzione autorevole (a proposito, scusate, voi lassù in cima alla Scala… state mica cercando qualche giovine al posto di Barenboim?)

Poi Aquiles Machado, che magari col tempo è un filino migliorato, anche se ancora non mi è parso un Pollione veramente all’altezza (e viene il dubbio che difficilmente lo sarà mai, ahilui). Infine Gianluca Floris, che è stato un Flavio dignitoso.

Sergey Artamonov è un Oroveso di gran presenza scenica; quanto al canto… non mi ha proprio entusiasmato. In più, non vorrei che abbia messo lo zampino nella scelta dell’aria wagneriana, solo per esibire qualche nota (e nemmeno perfetta) in più…  

Carmela Remigio in Adalgisa mi pare stia proprio a… casa sua. Una prestazione pulita e convincente, una partner ben affiatata della Norma di Mariella.

Alena Sautier ha dignitosamente interpretato Clotilde.

Più che apprezzabile anche la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, capace di rendere al meglio sia le parti più platealmente enfatiche, che quelle intimistiche, come l’intercalare su Casta Diva.  
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Come detto, gran trionfo per Mariella e per tutti (comunque qualche dissenso, nel clamore generale, mi è parso di percepirlo…): una Norma che magari non farà storia, ma che a chi ha avuto la ventura di assistitervi (senza pregiudizi, come il sottoscritto) ha davvero lasciato il segno!