XIV

da prevosto a leone
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19 maggio, 2023

laVerdi 22-23. 30

È Tito Ceccherini a fare ritorno sul podio dell’Auditorium per il terzultimo concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, co-prodotto con Milano Musica 2023.

E proprio in omaggio ai principi fondativi della rassegna creata in origine da Luciana Pestalozza (sorella di Claudio Abbado) il primo brano in programma è la prima esecuzione della nuova edizione critica di una partitura di Bruno Maderna: Ausstrahlung per voce femminile, flauto e oboe obbligati, grande orchestra e nastro magnetico, su testi sacri e poetici persiani e indiani. I protagonisti sono Monica Bacelli, in veste di recitante poliglotta, oltre che di cantante, e poi Luca Stocco agli oboi (anche musette, corno inglese e oboe d’amore) e Nicolò Manachino ai flauti (anche contralto e basso). Completa il cast l’addetto ai nastri magnetici e alla regìa del suono, Massimo Colombo.

Originariamente composto nel 1971 ed eseguito per la prima volta a Persepoli (per il 2500° anniversario della morte di Ciro il Grande) il lavoro (qui l’unica registrazione oggi disponibile in rete) rimase in uno stato di relativa incompiutezza, poiché la morte prematura impedì all’Autore di apportarvi le ultime finiture: da qui l’importanza della nuova edizione critica, curata per Casa Ricordi da due studiosi: Angela Ida De Benedictis (Responsabile scientifico della Fondazione Sacher, dove sono custoditi tutti i manoscritti di Maderna) e Marco Mazzolini (General Manager di Casa Ricordi) intervenuti prima del concerto di ieri – insieme al Direttore Ceccherini - per presentare questa loro edizione.

Al proposito, un interessante articolo della curatrice De Benedictis ci aiuta a comprendere le particolari caratteristiche di quest’opera, che rappresenta una vera e propria summa di tutti i procedimenti compositivi che erano maturati dagli anni di Darmstadt in poi: ci troviamo porzioni in notazione classica e determinata, altre lasciate all’aleatorietà, altre costituite da minuscoli frammenti che gli interpreti (Direttore e solisti) possono organizzare secondo la loro sensibilità… La presenza dei nastri magnetici (4 Tapes) preregistrati, depositati presso l’Editore che li rende disponibili per le esecuzioni, evidentemente condiziona un poco le esecuzioni medesime, quanto meno dal punto di vista dei tempi, dato che quando i nastri sono in azione (un totale di 14’23” esatti su circa 32’ totali di esecuzione) sono gli interpreti a dover sincronizzarsi con i nastri, essendo piuttosto difficile (salvo stop-start del regista del suono) che siano i nastri a seguire l’esecuzione dal vivo…

Il brano si articola in sette componenti, che incarnano altrettante irradiazioni (Ausstrahlungen) di suoni degli strumenti (solisti e orchestra); in soli due casi (2 e 5) è presente anche la voce solista. Non esiste peraltro una loro sequenza predeterminata, essi possono scomporsi, intersecarsi ed essere disposti secondo un libero approccio esecutivo. Lo stesso Autore ha proposto alcuni Piani esecutivi (che propongono la sequenza di interventi di orchestra, solisti, voce e nastro registrato) uno dei quali fu impiegato per la prima di Persepoli.

In Appendice ho posto una succinta guida all’ascolto dell’opera seguendo la citata registrazione (i testi sono riportati dal citato articolo della curatrice) che riprende nella sostanza la struttura della prima esecuzione di Persepoli diretta dall’Autore.

La proposta di Ceccherini non si discosta macroscopicamente dall’impostazione originaria (il piano esecutivo) di Maderna. Difficile dire invece, di primo acchito, quali e quante libertà, fra quelle comunque previste dall’Autore, Il Direttore e gli interpreti si siano prese. Personalmente ho notato un certo squilibrio nelle dinamiche fra i due solisti, l’orchestra e la voce della Bacelli, che arrivava benissimo nelle parti cantate (e ci mancherebbe) mentre in quelle declamate e soprattutto recitate era spesso travolta dai suoni, pur essendo dotata di amplificazione. Ma credo che la cosa sia perdonabile in una circostanza come questa.

In ogni caso il pubblico, diciamo… selezionato, ha tributato lunghi applausi a tutti.  
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Così come accaduto nello scorso concerto, anche in questo, dopo un'opera moderna, è Richard Strauss a chiudere con il Tondichtung più cerebrale (essendoci di mezzo un tale Nietzschedi tutta la sua produzione: Also sprach Zarathustra.

Sulle mille implicazioni filosofiche che si annidano nella partitura mi sono dilungato tempo addietro e quindi rimando i perditempo a questo scritto. Certo è che solo una conoscenza dettagliata dei temi musicali e delle loro intricatissime relazioni e ricorrenze può farci apprezzare fino in fondo quest’opera davvero geniale.

Viceversa, un ascolto puramente passivo rischia di farcela apparire come bizzarra, frammentaria, cacofonica, con alcuni passaggi entusiasmanti e altri persino noiosi… Ma diamo atto a Ceccherini (un approccio che definirei a tratti quasi espressionista) e ai ragazzi di aver dato il massimo, come il pubblico ha riconosciuto alla fine, con lunghi apprezzamenti per il Direttore e per tutte le prime parti e intere sezioni dell’orchestra.

Insomma, una serata da ricordare. E questa sera… il secondo sbarco dei Mille mahleriani alla Scala!
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Appendice. Ausstrahlung.

L’apertura è affidata al flauto che espone la sua melodia, finchè (21”) la voce solista declama un testo tradotto in inglese da Kavyadarsa del poeta indiano Dandin:

All these three worlds
would have been a dense darkness,
if the light,
called world,
had not shone
from the beginning of the world.

Cominciano ad udirsi sommesse voci in persiano, registrate su nastro (Tape-1). Poi l’orchestra e flauto e oboe musette in primo piano chiudono questa introduzione.

A 3’53” ecco un’esplosione dopo la quale è la voce solista che – intercalata e accompagnata dall’orchestra - recita un lungo testo (tradotto in francese) da Bhagavad Gita di Dandin, tutto imperniato sul tema della guerra e dell’immortalità dell’anima:

Sur le champ les hommes se sont assemblés,
brûlant de combattre.
Debout sur leur grand char de guerre,
attelé à des coursiers blancs,
les puissants archers sont des héros,
prêts à donner leur vie,
tous maîtres dans l’art du combat.
(orchestra)
Aussitôt résonnèrent les conques et les tambours,
les cors et les trompettes
et ce fut un tumulte immense,
qui retentit comme [le] rugissement du lion.
(orchestra)
Profondément ému par la pitié
et plein du douleur, Arjuna dit:
«En voyant dans les rangs mes parents
brûlant de combattre,
mes jambes fléchissent,
et ma bouche se dessèche;
je n’ai pas la force de me tenir debout,
et ma raison se trouble.
Je ne voudrais pas le tuer, même si cela
devait me rendre souverain des trois mondes.
(orchestra)
Les précepteurs, les pères, les fils
et les grand-pères, les oncles, les beaux-pères,
les gendres et tous les parents…..
Si, les armes à la main,
ils allaient me tuer dans la bataille,
moi, je ne veux pas résister».
Ayant ainsi parlé sur le champ de la bataille, Arjuna,
le coeur percé de douleur,
retomba sur le siège de son char
et jeta loin de soi l’arc et la flèche.
(orchestra)
Alors le Seigneur dit:
«D’ou te vient, Arjuna, en cette heure de danger
ce honteux découragement
indigne d’un Aryen?
Celui qui croit qu’il peut tuer et
celui qui croit qu’il peut être tué,
tout les deux sont ignorants.
Il ne peut ni tuer, ni être tué.
Il ne naît, ni ne meurt.
(orchestra)
Ayant été, il ne peut plus cesser d’être.
Non-né, permanent, éternel, ancien,
il n’est pas détruit
quand le corps est tué.
Les armes ne peuvent le percer,
ni le feu le brûler,
ni les eaux le mouiller,
ni le vent le sécher!
(orchestra)
Celui qui habite le corps
est toujours invulnérable.
Tu ne dois donc t’affliger pour aucune [des] créatures.
Tu ne dois pas trembler, Arjuna:
en vérité, pour un Aryen il n’y a rien
de plus désirable qu’un juste combat».

A 9’00” ecco un nuovo passaggio declamato e cantato in inglese, traduzione di due strofe dell’indiano Atharva Veda:

Power art thou, give me power!
Might art thou, give me might!
Strenght art thou, give me strenght!
Life art thou, give me life!
Eyes art thou, give me eyes!
Ears art thou, give me hearing!
Shield art thou, shield me well!
 
May I have voice in my mouth,
breath in my nostrils.
Sight in my eyes, Hearing in my ears,
hair always shining young
and much strength in my arms!

A 10’31” viene recitato un passaggio del persiano Umar Khayyām, tradotto in italiano:

O cuore, fingi d’avere tutte le cose del mondo,
fingi che tutto ti sia giardino delizioso di verde.
E tu, anima mia, su quell’erba verde
fingi d’esser rugiada gocciata là nella notte
e al sorgere dell’alba, svanita…

A 11’07” torna la lingua inglese, con la declamazione di un nuovo passaggio dell’Atharva Veda:

May I have power in my thighs,
swiftness in my legs,
may all my limbs be uninjured
and my soul unimpaired!

A 11’42” uno schianto orchestrale introduce una nuova, agitata strofa dal Rig Veda:

Let’s walk together, speak together;
may the purpose be common,
common the assembly, common the mind;
So be our thoughts united.
May our decision be unanimous.

A 12’11” è lo xilofono ad introdurre una sequenza di versi (tradotti in inglese e italiano e recitati, declamati, cantati) di KhayyāmMuslih Sa’di, dell’Atharva Veda e di Nezâmî Aruzî. Voci maschili e femminili arrivano dal nastro (Tape-2):

May we see a hundred years!

 
Sulla mia tomba ad ogni primavera
il vento del nord farà piovere fiori…
 
Son tutti verdi i rami!
 
May we know a hundred years!
 
I peri e gli albicocchi
avevan ricoperto la tomba di fiori…
 
May we assert our existence a hundred years!
 
È fiorito il giardino…
 
Yea, even more than a hundred years!

A 13’50” ancora un declamato (in inglese) da Kavyadarsa, con interventi di voci maschili (prima strofa) e femminili (seconda) registrate (Tape-2):

Glances to the side,
lovely by nature,
announce intense love,
when thrown by loving maidens,
as messengers to
attract lovers.

The mango-tree’s bud
fills my heart with strong
desire for my lover,
as does the cry of the cuckoos
drunken with love.

A 14’29” ancora versi del persiano Abd Rudaghi, cantati in italiano:

Il monte, un altro monte d’argento,
d’oro è il prato
l’acqua ora è lucente
e tenebrosa s’è fatta l’aria.
Tace la colomba,
vuoto è il verziere.
Muto è l’usignolo:
spoglio è il giardino.
Un vento freddo
come sospiro d’amanti all’alba.

A 18’50” si odono voci registrate (in persiano, Tape-3) e poi la voce solista declama (in inglese, da Kavyadarsa):

They say that the spring
must not cause the lovely
moment of your eyes
and the illusion that they
might be two bess…

A 19’29” si ode (sempre Tape-3) la voce registrata (è quella della moglie di Maderna, Cristina) recitare, da sinistra, due versi dall’Avesta:

Wie geschiet uns
so wunderbar

mentre da destra una voce di bambino (il figlio Andrea) risponde (19’52”):

…so wunderbar
…so wunderbar
(orchestra e voci registrate)
…so wunderbar

Mentre l’orchestra prosegue per quello che diverrà un lungo intermezzo, i richiami del bambino si perdono in lontananza, poi tornano in primo piano; lo stesso accade alle altre voci registrate.

L’intermezzo orchestrale si chiude a 26’54”, quando si torna ad udire la voce registrata di Cristina (Tape-4) che da destra recita – con interventi da sinistra di Andrea con il suo …so wunderbar - i seguenti versi dell’Avesta:

Ich frage Dich mein Gott
gib Du mir Antwort und Verstehen:
Wie kommt es, daß aller Wahrheit eigen
diese zeugende Kraft,
daß die Sonne dort steht
und die Sterne der Nacht,
entsprungenes Licht,
doch gehalten und wandelnd
in stiller Bahn?
Und der Mond in der Kammer
der Schlummernden  ruhe?
Eine Hand legt sich [um uns].
Nun weicht sie  zurück
und sein Licht quillt uns zu.
Wie geschieht uns so wunderbar.
Ich frage Dich mein Gott,
wie ruht uns die Erde
so staunend sicher?
Und darüber die Wolken
gehoben, gehalten,
unsichtbar getragen
und schwebend – worin?
Und es perlen und blinken die Wasser
und Blumen erblühen.
Die Rosse des Windes
durchbrausen die Bahn
und der Wagen der Wolken
rollt in den Lüften
und wir dürfen das sehen:
Unser Geist hat die Augen.
Wie geschiet uns
so wunderbar…

Da 30’41” la voce del mezzosoprano vocalizza all’unisono con oboe e flauto fino a perdersi.

02 luglio, 2018

Battistelli porta Shakespeare alla Fenice


Ieri pomeriggio La Fenice (con ampi spazi deserti nei palchi, ma pure in platea) ha ospitato la seconda recita del Richard III di Giorgio Battistelli, opera che arriva in Italia dopo più di 13 anni dalla sua comparsa sulle scene fiamminghe e dopo aver compiuto altre tappe europee. (Non è dato sapere perchè nel frattempo non si sia pubblicato un DVD, che dico, un CD dell’opera, quasi fossimo tornati all’800, dove però gli organetti di strada supplivano alla mancanza di registrazioni, diffondendo per le piazze le arie e i duetti più famosi. Certo, se si diffondessero oggi con quei mezzi le arie di Battistelli, la gente passerebbe a vie di fatto con gli imprudenti organettari...)

Artefice dello spettacolo il trio Battistelli-Burton-Carsen, che tre anni orsono si è (recidivamente) ripetuto alla Scala con la produzione di CO2. Direttore e concertatore Tito Ceccherini, specializzato in musica contemporanea, che non dev’essere per nulla facile da dirigere ma che - rispetto a Beethoven, Brahms, Mahler e Wagner, dove il vasto pubblico è pronto ad osannare o stroncare l’interprete, ritenendosi preparato sull’autore - mette il direttore al riparo da critiche, dato che il pubblico medio, per scarsa conoscenza dell’autore, fatica a distinguere l’interpretazione del Ceccherini da quella di un Carneade di passaggio. Orchestra che occupava, oltre alla buca a lei destinata, anche i sei palchetti di proscenio (tanto ne restavano vuoti altri 20-30, quindi poco male) per far posto a percussioni, xilofoni, celesta, batteria e sampler (generatore di suoni artificiali, come non bastassero quelli naturali...)

E sulla componente strettamente musicale dell’opera devo in effetti manifestare ampie perplessità: lungi da me richiamare qui i giudizi sommari di tale Fantozzi, dico francamente che essa non è tale (almeno al primo ascolto) da suscitarmi particolari entusiasmi. Certo, quando il soggetto è quanto di più repellente si possa immaginare, allora la musica fatta di atroci dissonanze, fracassi gratuiti e rumori che sostituiscono i suoni sembra apparentemente la più adatta a supportarlo: ma se il teatro musicale degrada a crudo reportage di cronaca nera, credo che abdichi alla sua stessa natura. Nella fattispecie, non bastano (alle mie orecchie) alcuni corali o un finale strappalacrime a riscattare la mediocrità estetica della musica che supporta questo Richard III. Battistelli, come suo solito, impiega di tutto e di più, ma la quantità di mezzi e trovate nella forma spesso maschera la mancanza di profondità dei contenuti.

Invece lo spettacolo non è per nulla da buttare, anzi... grazie a Burton (in realtà Shakespeare) e a Carsen, che sa come presentare il testo di Burton-Shakespeare da par suo. La struttura del dramma è ben articolata, con i tre momenti delle incoronazioni e il ciclico ritorno della Boar-Hunt, all’interno dei quali momenti si accavallano le atrocità del protagonista, i piagnistei delle donne che lo condannano (ma pure lo esaltano) le pavide reazioni di nobilastri imbelli e quelle sempre cieche e telecomandate del popolino. Siamo ancora, lassù in Albione, in pieno medio-evo e sarà proprio l’avvento dei Tudor a far sbocciare anche là un rinascimento, con almeno un paio di secoli di ritardo rispetto a... Firenze.

Carsen, coadiuvato per scene e costumi da Radu e Miruna Boruzescu, ci porta in un ambiente fisso (mosso soltanto dalle luci che vi penetrano da ogni lato) in cui trova spazio una tribuna-anfiteatro sulla quale prendono di volta in volta posto i notabili o il popolo, o gli opposti eserciti delle due rose. In basso, sabbia rossa: insomma, ecco uno spazio adatto a questa particolare versione di sangue-e-arena, la cui cupezza è completata dagli abiti (e occasionalmente dagli ombrelli) rigorosamente neri e perfettamente uguali di tutti coloro che si muovono in scena. Ecco, siamo appunto ancora nei secoli-bui!

Passando agli interpreti, grazie a Carsen la recitazione di tutti, singoli e masse, è di grande efficacia e di sicuro impatto, nulla da eccepire. Sulle qualità vocali dei numerosi personaggi (e meno male che Shakespeare è stato abbondantemente tagliato!) il mio giudizio è più che positivo solo per il Richard di Gidon Saks, il cui vocione potentissimo e perfettamente impostato ha riempito con grande drammaticità lo spazio della Fenice. (Al proposito farò una battuta davvero dissacrante: ma non sarebbe stato più audace, da parte del compositore, affidare questa parte, invece che ad un basso-baritono che è perfetto per Hagen o Hunding, o magari per Jago, ad un castrato o - visto che oggi non ne circolano più - ad un controtenore o falsettista? Chissà se non avrebbe scolpito meglio, vocalmente, la personalità di questo individuo le cui propensioni animalesche dovevano nascondere preoccupanti segni di instabilità...)

Degli altri, note positive per il Buckingham di Urban Malmberg, il Clarence-Tyrrel di Christopher Lemmings e la Anne di Annalena Persson. Assai meno per il Richmond di Paolo Antognetti, vocina piccola e poco udibile. Tutti gli altri su standard accettabili. Bene il coro di Claudio Marino Moretti, sia negli arcani interventi da fuori campo che nelle presenze in scena.

In definitiva, uno spettacolo coinvolgente ma - ripeto, questo è il mio personale giudizio - che ha il suo punto debole proprio nell’ingrediente che dovrebbe maggiormente caratterizzarlo: la musica...

12 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°10


Riecco Tito Ceccherini (stavolta da titolare) nel decimo concerto della stagione 2016, tutto dedicato all’Italia (emigrati inclusi...) L’impaginazione prevede di incastonare due concerti per violino (Busoni e Malipiero-1, protagonista Domenico Nordio) fra due - i più eseguiti - dei tre poemi sinfonici romani di Respighi. Quanto alle date, si esplorano 35 anni, che separano il Busoni tardo-romantico di fine ‘800 - passando per il Respighi a cavallo della Grande Guerra (1916-1924) - dal Malipiero in pieno fascismo (1932).     

Si parte con Fontane di Roma, in cui subito appare nei secondi violini (ad introdurre il tema debussyano negli oboi) una vaga reminiscenza mahleriana: sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquìo, che rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia. Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina (qui fa capolino Sheherazade del grande Rimski, maestro di Respighi) e poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi della campana. 

Come sempre impeccabile l’orchestra, dalla quale Ceccherini sa cavar fuori le appropriate sonorità, in particolare dai timbri di legni, arpa e tastiere (celesta, organo, pianoforte) per questo brano di grande raffinatezza impressionista.
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La parte centrale del concerto è dedicata a due opere per violino solista. Ceccherini e Nordio rifanno coppia in Auditorium - lo sono spesso in Svizzera - dopo nemmeno un anno (lo scorso maggio si erano esibiti in Bartók). Nordio prosegue da parte sua l’esplorazione del repertorio italiano, dopo che nel 2012 ci aveva proposto Castelnuovo-Tedesco.

Oggi: Busoni e Malipiero, due compositori che hanno molti aspetti in comune, ma altrettanti, se non di più, che li differenziano radicalmente. Il mai abbastanza compianto Sergio Sablich ci ha lasciato al proposito un acutissimo scritto, che mette in risalto la complessità del rapporto fra i due musicisti.  

Il Concerto di Busoni fu presentato l’8 ottobre 1897 alla Singakademie Berlin, con l’Autore sul podio alla guida dei Berliner Philharmoniker, solista Henri Petri, dedicatario dell’opera. Il concerto, che fu bollato da un critico berlinese come abbastanza scialbo e scarso di contenuti (!) da allora ha invece avuto un discreto successo presso i principali interpreti: qui una storica interpretazione (1936) del grande Adolf Busch con Bruno Walter, al Concertgebouw.

Busoni, trentenne alla data della composizione, si muove ancora nell’800, come mostrano reminiscenze di Beethoven, Brahms e persino di Bruch, ma al contempo cerca un po’ velleitariamente di innovare: la struttura è più vicina a quella di una fantasia dove i motivi si susseguono ma senza svilupparsi, nè interagire (quindi: niente forma-sonata); le sezioni (movimenti?) sono tre, caratterizzate da tempi diversi, ma tra loro concatenate (tipo Mendelssohn e Bruch). In definitiva l’impressione che se ne trae è di qualcosa di indecifrabile: al confronto il concerto di Sibelius, sfornato quasi 8 anni dopo a ‘900 ormai inoltrato, avrà un successo largamente superiore, proprio per la sua caratteristica di rifarsi esplicitamente (e assai prudentemente) alla tradizione ottocentesca, senza pretese di innovare, non dico stravolgere, alcunchè.
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Proviamo a decifrare quest’opera piuttosto fuori dagli schemi, seguendone la citata interpretazione di Busch-Walter.

L’inizio dell’Allegro moderato è di pretta marca beethoveniana: su un RE all’unisono di tutti gli archi, i legni e i corni presentano subito (4”) un primo tema cantabile (tema-a, che tornerà anche nelle altre due sezioni del concerto, conferendogli quindi una caratteristica di ciclicità) che si chiude con tre quarte e una quinta discendenti dei clarinetti e poi si spegne rapidamente sulla sottodominante per far posto all’entrata del solista (27”) che per ora si limita a sciorinare virtuosismi, con ondeggiamenti di crome e poi semicrome, accompagnato quasi soltanto da rulli di timpano, finchè il fagotto prima (56”) quindi i clarinetti (1’04”) ancora fagotto e corni (1’10”) ne contrappuntano le evoluzioni con un motivo (tema-b) costituito da una scala ascendente che copre un’intera ottava (rispettivamente di DO, FA# e LA, sfociando un semitono più in alto) e che tornerà nel seguito.

Finalmente il solista, dopo una sospensione di sapore brahmsiano in corona puntata sulla sensibile DO#, espone a sua volta (1’26”) il tema-a, successivamente reiterato (1’51”) con sviluppo di virtuosismi e sfociante (2’02”) in una plateale perorazione cadenzante dell’orchestra. Subito il solista (2’05”) si imbarca in virtuosismi sopra il tema-b esposto (sul RE) da fagotto e viole, poi ancora (sul LA) da fagotti e clarinetti, fino ad arrivare ad una nuova feroce esternazione dell’orchestra (2’25”) che richiama le quarte discendenti del tema-a.

Il violino (2’31”, tranquillo) riprende i suoi virtuosismi accompagnato con discrezione da oboi e poi corni (che ripetono la cadenza di poco prima) e clarinetti e corni, per giungere (2’59”, più moderato) ad un passaggio dei fiati che paiono anticipare un nuovo tema, per ora solo accennato (ricorda qui l’Italiana di Mendelssohn) e subito interrotto (3’05”, allegro) dal solista, sempre più ostinato e scalpitante finchè non si acqueta (3’30”, quasi adagio) per esporre in ottave in corda doppia (sul SOL#) il tema-b e quindi ancora adagiarsi su trilli di DO#.

Ora (4’03”, Tempo I) i fiati espongono compiutamente il nuovo tema (tema-c) che il solista ancora accompagna con i suoi svolazzi di semicrome, fino ad arrivare (4’23”) ad un fortissimo a piena orchestra, sul quale corni e tromboni reiterano pomposamente (sul LA) il tema-b, chiudendolo (4’27”) con uno schianto di settima diminuita dal quale il solista si lancia in un’ennesima volata di semicrome, prima staccate, poi in corda doppia. Su esse intervengono (4’34”) i corni e gli archi bassi con l’incipit del tema-c, quindi tutti si incaponiscono in una pesante cadenza, che sfocia (4’57”, Gemessen, mit Humor) invece che nel canonico sviluppo e poi ripresa, in una sorprendente e bizzarra sezione che si potrebbe plausibilmente interpretare come la lunga coda del primo movimento del concerto.

Il solista espone un nuovo, spigliato motivo in LA maggiore e poi dialoga con l’orchestra su un ostinato ritmo marziale degli archi in pizzicato, poi (5’25”, Scherzoso) tutti si sbizzarriscono in trilli e note staccate, quindi è ancora il solista a trascinare l’orchestra animando sempre più, finchè su un suo MI acuto in trillo le trombe (6’04”) espongono per l’ennesima volta e con grande luminosità (sul MI) il tema–b. Qui si innesta la perorazione finale (sulla dominante LA maggiore) della sola orchestra, enfatica e magniloquente, che si spegne però (6’27”) su una cadenza sommessa in continuo ritardando, in cui si riaffacciano le quarte e quinta discendenti del tema-a, e che porta direttamente ad un tempo quasi andante sul quale di fatto ha inizio la sezione centrale (o movimento lento, se così si preferisce) del concerto.

I contrabbassi (6’59”) la aprono, subito dopo affiancati dai celli, in un cupo DO minore, sul quale si ode (7’14”) un richiamo della tromba (SOL-DO); poi, dopo un altro richiamo di corno e tromboni, ecco l’oboe (7’42”) che canta la sua melopea, sempre in DO minore, insieme ai clarinetti. Sembra affacciarsi (8’14”) il DO maggiore nei corni, ma il solista (8’17”) entra per esporre il suo languido motivo in FA maggiore, che però (8’43”) vira a DO maggiore e poco dopo, con un’ulteriore modulazione a SOL maggiore (8’52”) ci porta ad una chiara reminiscenza di Bruch (tema in MIb maggiore – poi DO maggiore - dell’Adagio del celebre concerto op.26). La melodia del violino si estende ancora largamente con successive increspature e modula più volte, fino a morire sul RE maggiore (10’16”).

Qui il tempo accelera a Poco agitato e sul tremolo di RE di primi violini e viole il solista in corda doppia (10’20”) ricorda ancora Bruch (in SOL maggiore). Sono poi gli archi bassi a rimuginare un lugubre motivo sul quale il violino innesta il suo canto appassionato, che sfocia (11’11”, Tempo I) in un prolungato dialogo con i fiati. Il solista poi (11’56”) espone una nuova, lunga melodia in corda doppia in MIb, accompagnato dapprima da fagotti e corni, poi (12’49”) dai clarinetti. Dopo una modulazione a DO maggiore, ecco (13’57”, Più lento) entrare corni e tromboni con un inciso corale, basato sulle prima note del tema-a, con cui il concerto si era aperto, tema il cui incipit infatti ritorna (14’29”) nel violino.

Con il sottofondo dei corni il solista si avvia a concludere, in territorio... beethoveniano: dapprima (14’59”) con una ondeggiante cadenza e poi (15’15”) con una reminiscenza del Larghetto dell’op.61. I tromboni accompagnano con la triade di DO maggiore e un sommesso rullo di timpano la corona puntata del MI sovracuto del violino.

Senza soluzione di continuità attacca (15’48”) il conclusivo Allegro impetuoso, in atmosfera di SI minore che sfocia poi nel RE maggiore d’impianto. Il solista si esibisce, interrotto da brevi incisi di fagotti e archi, in velocissime scale discendenti in semicroma, seguite – contrappuntato dai fiati -  da una scalata di trilli di ben 9 terze maggiori (3 ottave!) dal LA# sotto il rigo al LA# sovracuto, che sfocia poi (16’04”) nel SI, da dove il solista si imbarca in un’agitatissima specie di moto perpetuo (tema-d) che si muove dal SI minore per sfociare (16’51”) sul un fortissimo RE maggiore di tutta l’orchestra, che adesso si esibisce da sola in una cadenza che si chiude (16’59”) con il ritorno del solista.

Il quale espone un nuovo motivo in corda doppia, e quasi subito ricompare nelle viole (17’04”) il tema-a. Ora il violino torna ad esibire grandi volate di semicrome, accompagnato dapprima da note lunghe del clarinetto e poi (17’15”) dal flauto che lo imita una terza sotto. A 17’22” il flauto tace e si ode un richiamo della tromba (lo stesso inciso dell’apertura) ripetuto dal clarinetto, mentre il solista prosegue imperterrito con le sue semicrome, che sostengono (17’29”) veloci terzine ascendenti. Il fagotto lo accompagna, con crome in staccato, con un motivo in MI maggiore - che riprende le quarte discendenti del tema-a, qui esposte proprio con un chiaro sapore mahlerian-titanesco - più volte reiterato, che poi (17’42”) passa ai corni modulando a DO maggiore e poi ancora - mentre il solista torna in corda doppia – passa alla tromba (17’48”) in SI maggiore e infine (17’54”) arriva al DO, enfatico, negli archi.

Dopo che questi hanno emesso quattro proterve strappate, ecco (17’59”) il solista riesporre in SI minore il tema-d, che culmina (18’19”) in una perorazione di corni e trombe cui segue, nel violino (18’25”) un nuovo tema ondeggiante, di languido sapore zingaresco, interrotto dall’orchestra (18’35”) che intercala altre folate del violino e poi riduce la velocità e (18’53”) in tempo Moderato, attacca un ritmo marziale nelle trombe. Ecco quindi - Alla marcia, pomposo umoristico (!) – i legni presentare (19’05”) un nuovo motivo per terze, che sembrerebbe venire da Smetana, la cui conclusione è ripresa poi (19’31”) dal solista in corda doppia.

Il dialogo fra orchestra e violino prosegue, fra velocissime folate del solista ed incisi anche pesanti (20’20”) del pieno strumentale. A 20’32” ha inizio (Più stretto) la forsennata coda del concerto, con il solista che accelera sempre più esponendo un tema eroico fino al Quasi presto (21’05”) e poi (21’25”) al definitivo Più presto, dove tutti ingaggiano una vera e propria rincorsa verso gli schianti conclusivi.
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Splendida davvero l‘esecuzione di Nordio e dell’orchestra: il solista accentua il lato per così dire romantico del brano, con ampio uso di rubato e sonorità che spaziano dall’elegiaco all’eroico; e Ceccherini accentua da parte sua tutti i contrasti che emergono da questa interessante partitura, che meriterebbe forse di essere messa in programma più spesso di quanto non accada.  
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Il primo Concerto per violino di Gian Francesco Malipiero è del 1932 e vide la prima esecuzione ad Amsterdam, Concertgebouw. 

Erano gli anni d’oro (si fa per dire, come del ventennio berlusconiano...) del fascismo e un personaggio in vista come Malipiero non poteva non trovarsi nella scomoda posizione in cui è difficile far convivere le proprie convinzioni progressiste e allo stesso tempo patriottiche con tutti i vincoli che il regime bene o male imponeva. Insomma, una storia di successi e riconoscimenti cui si accompagnarono parecchie (vere o presunte, o millantate) umiliazioni, che per certi versi ricorda quella dello Shostakovich alle prese con lo stalinismo. E il risultato delle (apparenti?) ambiguità degli atteggiamenti di Malipiero verso il fascismo fu di renderlo inviso (cosa che lo addolorò sommamente) anche al CNL di Venezia, che dopo la Liberazione lo accusò senza mezzi termini di connivenza con il regime appena abbattuto.

E proprio il concerto per violino in programma in Auditorium ci presenta un Malipiero che percorre strade altrettanto lontane dalla tradizione romantica (forma-sonata e sviluppi tematici, come il virtuosismo fine a se stesso, erano per lui quasi delle bestemmie) quanto dalle (allora) relativamente recenti conquiste dell’atonalità e della serialità.

Il suo conterraneo Domenico Nordio, che oltre a quello di Castenuovo-Tedesco ha già inciso anche il concerto di Casella, ha mirabilmente colto lo spirito dell’opera, che si muove fra tonalità e modalità arcaiche sulle quali si innestano spunti di assoluta modernità. La forma tripartita è soltanto un involucro che nasconde in realtà un continuo alternarsi di momenti vivaci e di pause di riflessione, quasi una simbiosi di Vivaldi e Monteverdi, i due autori più amati da Malipiero. Nordio in particolare è parso particolarmente coinvolto nel centrale Lento ma non troppo, interpretato quasi con sofferenza fisica.

Grande successo per lui che ci dedica (con Santaniello in veste di gira-pagine) un bis moderno fatto di spettacolari invenzioni virtuosistiche.
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Chiusura in bellezza con Pini di Roma. Introdotti dal corno inglese e dal primo fagotto, con la punteggiatura dei corni, che intonano – a Villa Borghese - la popolaresca Oh quante belle figlie madama Dorè. E non è la sola filastrocca che compare in questo quadro d'apertura; poco dopo ecco infatti un paio di giro-girotondo, il primo introdotto da archi e fiati a canone, il secondo da oboi e clarinetti, che viene ripetuto più volte, fino a sfociare nel lugubre passaggio presso le Catacombe, con il suo sghembo intermezzo in 5/4, pieno di note ribattute.

Nei Pini del Gianicolo, proprio alla fine (ultime 10 battute e mezza) è previsto che canti un usignolo vero: no, non è in gabbia ed in penne ed ossa, oltretutto ci vorrebbe anche l'ammaestratore a corredo, per dargli l'attacco giusto… In partitura è segnato come una registrazione su nastro (ai tempi gli mp3 potevano essere, al massimo, dei moschetti) e invece ieri lo si è udito proprio suonato dal computer.

Nel conclusivo I Pini della via Appia, dopo un lungo assolo del corno inglese, compaiono le sei buccine, specie di enormi unicorni che accompagnavano le marce delle legioni romane. Respighi – che ne prevederà tre anche in Feste Romane - prescrive in partitura dei flicorni (2 soprani, 2 tenori e 2 bassi). Sul martellante ritmo di timpani e gran cassa, sono loro a portare all'enfatico epilogo dell'opera.

Strepitosa la prestazione dei ragazzi, che non fanno rimpiangere esecuzioni ormai storiche, come questa del venerabile Prêtre con i ceciliani.

L’unico neo della serata è costituito dall’affluenza invero scarsa all’Auditorium. Ma mai come in questo caso gli assenti (che hanno ancora domenica pomeriggio per rimediare) hanno avuto torto marcio!