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04 luglio, 2022

Gidon Kremer a Ravenna con cambio di programma

Altro appuntamento di lusso al ravennate PalaDeAndré con la mutiana Orchestra Cherubini e due celebrità della musica sinfonica: Christoph Eschenbach e Gidon Kremer. Programma annunciato come tutto russo (alla faccia del CoPaSiR, haha) con un’opera di rara esecuzione di Mieczysław Weinberg e una di Ciajkovski che più inflazionata non si può.

Ma all’ultimo momento ecco la sorpresa: via il problematico Weinberg per far posto ad un raro Schumann della trascrizione dell’Op. 129. (Voci trapelate dal palco attribuiscono la causa a problemi fisici del violinista lettone.)  

Un vero peccato non poter ascoltare questo Weinberg, nato in Polonia (come tradisce il suo nome) nel 1919 ma poi emigrato in URSS nel ’39 per sfuggire al nazismo e che quindi oggi passa per compositore conterraneo di Shostakovich, da cui effettivamente ha mutuato parecchio dello stile, oltre ai fastidiosi problemini di… convivenza con lo stalinismo.

Il suo Concerto per violino è del 1959 e fu dedicato al sommo Leonid Kogan, che lo interpretò nel 1960 con la Filarmonica di Mosca diretta da Kirill Kondrashin. Poi però Weinberg cadde purtroppo nel dimenticatoio e fu proprio Gidon Kremer a resuscitarlo, riproponendone non solo i brani solistici, ma anche quelli orchestrali (con la sua Kremerata Baltica). Il Concerto è stato recentemente inciso da Kremer – in occasione del centenario della nascita di Weinberg - con la Gewandhaus di Lipsia diretta da Daniele Gatti e l’esecuzione è ascoltabile in rete.

Era una ragione in più (per me, ma credo per molti) per ascoltarlo dal vivo qui a Ravenna. Anche perché l’ascolto comparato dell’interpretazione originale di Kogan e di quella moderna di Kremer mette in evidenza una chiara (si potrebbe azzardare abissale) diversità di approccio interpretativo: assai asciutto e nervoso quello di Kogan (rispettoso dei metronomi di Weinberg e verosimilmente benedetto a suo tempo dall’Autore, presente a prove e prima) e molto più sostenuto e riflessivo quello di Kremer. Cosa testimoniata del resto dai quasi 7 minuti (sui circa 26 di Kogan) di differenza in più per il violinista baltico. 

Ma veniamo a ieri: Kremer ci ha presentato quindi una trascrizione del Concerto per violoncello di Schumann, che possiamo ascoltare qui in un’esecuzione di qualche anno fa. Però ha voluto farci anche un’altra sorpresa, iniziando con un… bis in omaggio alle sofferenze dell’Ukraina, suonando il Requiem per violino solo del compositore georgiano Igor Loboda, composto nel 2015 dopo i luttuosi fatti del 2014 che purtroppo sono oggi culminati in questa guerra insensata. La stessa cosa Kremer aveva fatto lo scorso maggio a Lubiana, come testimoniato da questo video, a partire dal minuto 4’33” (erroneamente il titolo di youtube lo cita come primo brano).

Ecco quindi questo inedito Schumann dell'ostico Concerto per violoncello trascritto per lo strumento principe degli archi. Cha Kremer ci ha porto con la raffinatezza che gli è propria, accolto da applausi e ovazioni del pubblico (per la verità non oceanico) al quale ha poi dedicato un altro breve encoreomaggio al… soppresso Weinberg, con il 5° Preludio per violoncello, dall’Op.100, che significativamente cita il tema del concerto schumanniano!

Bene, dopo questa prima parte del concerto ricca di imprevisti, ecco Ciajkovski con la sua celebre Quinta. Che ha permesso ai ragazzi di Riccardo Muti di sfoggiare tutta la loro bravura, sotto la guida vigile e sicura di Eschenbach. Quasi di prammatica un inizio di applauso già sui truci accordi di SI maggiore che precedono la coda Moderato assai e molto maestoso; applausi che poi sono piovuti copiosi e meritati sul conclusivo ta-ta-ta-taaa in Mi maggiore.

Insomma, una bella serata di musica che ci fa dimenticare per un attimo guerre, crisi e… siccità.

01 ottobre, 2016

La Scala si fa un bel giro di vite

 

La Scala sta ospitando una delle opere più affascinanti di Benjamin Britten: The turn of the screw, arrivata ieri alla quinta delle sette rappresentazioni. Come personalmente io vedo i tratti fondamentali dell’opera, anche in relazione al racconto ispiratore di James, ho già avuto modo di esprimerlo anni fa, in occasione di un allestimento veneziano, e a quel commento rimando le falangi (?!) dei curiosi.

Parto dalla prima scena del second’atto (occupata dall’incontro fra i due fantasmi e chiusa dalla sconfortata confessione dell’Istitutrice) che ha il suo culmine nella famosa esternazione di Quint (poi di Jessel e quindi di entrambi): The ceremony of innocence is drowned:
   

Non viene per nulla da James, ma è un verso preso di peso da una poesia di William Butler Yeats del 1919 (The second coming, Il Secondo Avvento) scritta subito dopo la Grande Guerra e la Rivoluzione d’Ottobre, che erano stati eventi di inaudita ferocia (il primo) e di violenta sovversione (il secondo):

William Butler Yeats - 1919
Turning and turning in the widening gyre 
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all convictions, while the worst
Are full of passionate intensity.

Girando e girando nella spirale che si allarga
il falco non può udire il falconiere;
le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere;
pura anarchia dilaga sul mondo,
l’onda intorbidata di sangue dilaga, e ovunque     
il rito dell’innocenza viene sommerso;
nei migliori manca ogni fede, mentre i peggiori
sono colmi di fervente ardore.

Yeats ci vedeva il prevalere dei peggiori istinti bestiali (oggi si incarnano nell’ISIS, per dire) sui sani principii (l’innocenza) che dovrebbero governare le civiltà umane. Nel libretto della Piper il concetto (evidentemente condiviso e magari suggerito da quell’anti-militarista-obiettore-di-coscienza che rispondeva al nome di Britten) viene trasportato a livello privato: i fantasmi Quint&Jessel sono i peggiori, ma dotati di spietata decisione, mentre i migliori (l’Istitutrice) hanno perso ogni fiducia nel bene (Persa nel mio labirinto, non vedo alcuna verità, su di me incombono solamente le pareti nebbiose del male, confessa la poveretta).  

Questo rapporto di sopraffazione dei cattivi sulla buona viene dal regista Kasper Holten proposto lungo l’intero corso della storia, ma smaccatamente mostrato all’inizio del second’atto, proprio nella scena in cui si proclama che il rito dell’innocenza viene sommerso. L’Istitutrice, che già di suo è preda di oniriche visioni da incubo, si ritrova ai suoi fianchi, nel letto, i due fantasmi che, appunto, la sommergono con le loro tentazioni.

È questo certamente il momento-clou della messinscena di Holten, tutta incentrata sulle turbe psichiche dell’Istitutrice, che diventa paradossalmente la cattiva della situazione, facendo prima ammattire Flora e spingendo poi Miles al suicidio: a proposito l’ultima scena mi è parsa davvero... spropositata, con il ragazzo che urla Peter Quint, you devil! proprio abbaiando contro l’Istitutrice, per poi correre a buttarsi dal secondo piano per sfracellarsi al suolo, dove verrà raccolto in una pozza di sangue dalla povera schizofrenica... Mah!

Avendo dato la priorità alla schizofrenia dell’Istitutrice, vengono fatalmente messi in secondo piano gli aspetti che verosimilmente stavano più a cuore a Britten: non è un mistero che il compositore fosse particolarmente e in primo luogo interessato a presentarci la problematica legata ai rapporti fra adulti e adolescenti (con annesse implicazioni omosessual-pedofile); problematica assai più scabrosa di quella legata alla labilità psichica di una donna chiaramente impreparata ad affrontare certi compiti e quindi facilmente suggestionabile. Insomma: nel soggetto di Piper-Britten il piccolo Miles deve essere stato vittima delle vessazioni materiali di un adulto maschio vivo (poco importa che poi torni o no da morto...) e non delle paranoie di una donnicciuola bigotta e inesperta di tutto (massimamente di sesso). Non altrimenti si spiega come Miles, assai prima dell’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato cacciato dalla scuola a causa di suoi comportamenti irriferibili, ma chiaramente spiegabili soltanto con la frequentazione di cattive compagnie... E che il rapporto Flora-Jessel, pur esso preesistente all’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato tutt’altro che limpido ce lo confermano le parole della governante quando narra dei vaneggiamenti onirici della piccola, e si convince a portarla via da quella casa.

E poi che i fantasmi (come minimo quello di Quint) non siano soltanto proiezioni della psiche alterata dell’Istitutrice ce lo conferma un indizio assai scoperto: dalla sommaria descrizione che l’Istitutrice medesima fa della persona comparsale davanti già due volte (e mai vista prima) Mrs.Grose decifra senza alcuna esitazione l’identità di Peter Quint! Dopodichè vuota il sacco su una serie di fatti e comportamenti riprovevoli di cui lei stessa era stata testimone, protagonisti Quint e Jessel.

Ecco quindi che un aspetto fondamentale del soggetto originale qui viene messo in secondo piano, poichè continuamente schermato dalla presenza ingombrante e soffocante dell’Istitutrice e della sua psiche malata: ne è chiaro esempio la scena finale del primo atto, al centro della quale vi è proprio l’Istitutrice, che pare quasi telecomandarla (o magari immaginarla in sogno) invece di sopraggiungere solo a cose fatte (gli abboccamenti fra i due fantasmi e i due fanciulli). 

Insomma, una lettura, quella del regista danese, a mio modo di vedere troppo sbilanciata sul versante freudiano, che rappresenta una parte, ma non il tutto del racconto di James e ancor meno centrale (per quanto rilevante) è nel libretto dell’opera.

Vanno apprezzate le scene, con la suddivisione dello spazio in celle di dimensioni diverse: due grandi, sovrapposte, che occupano il centro e il lato sinistro del palco, e traslano in verticale per scoprire o far scomparire un sotterraneo (ambientazione del lago) che comunica con il salone del maniero attraverso una scala a chiocciola; e tre piccole sovrapposte e fisse sul lato destro, che rappresentano le camere dei due piccoli e della governante. Così diventa efficace mostrare al pubblico anche quei personaggi (i fantasmi) che spesso devono essere invisibili agli altri protagonisti. Inoltre, la chiusura alla vista, ottenuta con pareti mobili, consente al regista di zoomare quando necessario su una sola (o alcune) delle celle.

Costumi e luci contribuiscono a creare efficacemente le ambientazioni delle diverse scene: certo, gli aspetti (pur non trascurabili, anche perchè magistralmente sottolineati dalla musica) legati alla natura (il tramonto, il lago...) vengono qui totalmente ignorati, in un bianco&nero permanente e soffocante. Qualche eccesso, come il già citato suicidio di Miles, e un manichino (? della governante?) che pende impiccato dal soffitto durante il Prologo si potevano evitare, credo.
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Ottime notizie sul fronte dei suoni, dove i magnifici 13 strumentisti della Scala, tutti di fatto dei solisti in questa partitura da camera, si meritano un encomio per l’accuratezza della loro esecuzione. Christoph Eschenbach li ha guidati con la sua proverbiale e maniacale attenzione ad ogni dettaglio: molto opportuna quindi la loro apparizione finale sul palcoscenico, a prendersi i meritati applausi insieme ai protagonisti vocali, tutti indistintamente da lodare, grandi e soprattutto piccoli!   
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Ultima nota (dolente): pubblico scarso e smagritosi ulteriormente all’intervallo; captati qua e là commenti irriferibili sull’inclusione di questo titolo nel programma in abbonamento. Che dire? In questi casi torna sempre e invariabilmente la nostalgia per la cara Piccola Scala (ambiente semplicemente perfetto per questo tipo di rappresentazioni) e la rabbia per la fine che le è toccata... amen.  

18 gennaio, 2010

Bruckner con la Filarmonica della Scala

Christoph Eschenbach ha guidato i filarmonici scaligeri nella grandiosa Settima Sinfonia di Anton Bruckner. Che un disgraziato quanto comico refuso sul frontespizio del programma di sala (roba da mandare in vacca il prezioso e fulminante pezzo di Quirino Principe) ci informa aver campato la bellezza di 172 anni (1824-1996)!

Orchestra disposta modernamente, ad eccezione dell'inversione viole-celli. Un corno ed una tromba di rinforzo, rispetto all'organico canonico.

Eschenbach attacca l'Allegro moderato come fosse un Adagio! Va bene che sono discutibili e controverse, ma sulla partitura bruckneriana ci sono meticolose indicazioni metronomiche: per l'incipit del primo movimento sono 58 minime; ecco, il Maestro deve aver interpretato la nota piena, invece che vuota… Più di 25 minuti di durata sono una cosa davvero al limite dell'umana sopportazione!

Meno male che poi le cose rientrano nella normalità e così questa sinfonia piena di sesso (ohibò, lo scrive il professor Quirino!) non dura più di 80 minuti. Da corni e trombette si potrebbe pretendere di più, mentre le tubette wagneriane, i tromboni e le tube (basso e contrabbasso che si alternano nei 4 movimenti) sono da elogiare, in uno con il resto della compagine. Alla fine applausi fragorosi per il Maestro e per tutti i professori, compreso l'addetto ai piatti.

E al proposito: una bizzarra curiosità di questa sterminata quanto famosa partitura riguarda proprio la presenza dei piatti. Nell'autografo di Bruckner non ce n'era traccia alcuna. Ma suoi sedicenti apostoli-ammiratori (Nikisch, Löwe e i fratelli Schalk) vi aggiunsero - pare contro la stessa volontà dell'Autore, interpellato in proposito – un colpo, uno solo, verso la fine dell'Adagio, proprio nel suo punto culminante:









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E praticamente tutti i Direttori – Eschenbach non ha certo fatto eccezione - adottano questa soluzione, tanto apocrifa quanto plateale e di sicurissimo effetto. La conseguenza pratica di tutto ciò è che un esecutore se ne deve stare per quasi tre quarti d'ora - disoccupato - a sonnecchiare, prima di alzarsi in piedi per sferrare il suo unico colpo; e poi tornare a sedersi e sonnecchiare per i restanti venti minuti della sinfonia. Domanda maliziosa (smile!): ma al FUS cosa dicono, di simili sprechi di risorse?