XIV

da prevosto a leone
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19 marzo, 2025

Scala: Bruckner può aspettare…

Un’indisposizione di Riccardo Chailly ci ha mandato a meretrici (almeno per il momento) il privilegio di poter godere di una delle tradizionali primizie che il Direttore Musicale è solito propinarci: in questo caso la prima esecuzione italiana della Nona di Bruckner arricchita del Finale ricostruito (o forse… immaginato?) da John A.Phillips, sulla scia di altre analoghe fatiche di addetti ai lavori. [Chissà se saranno più fortunati a Reggio Emilia, dove l’evento è in programma per il prossimo 12 maggio.]

E così abbiamo dovuto accontentarci (ma chissà che non sia stata una fortuna!) di un sempre grande e sempre più… ieratico Myung-Whun Chung, che ci ha portato in paradiso con Schubert e Beethoven!

Un programma che, date le circostanze, è evidentemente stato approntato cercando innanzitutto di andare-sul-sicuro, minimizzando i rischi e quindi scegliendo due opere perfettamente familiari a Direttore e Orchestra e indubitabilmente gradite al vasto pubblico, che avrebbe potuto considerare la proposta originaria come rivolta a pochi (relativamente) addetti-ai lavori.

E così ci siamo goduti queste musiche che non rischiano mai di restare… sullo stomaco! Soprattutto se dirette ed eseguite in modo davvero impeccabile, per non dire eccellente. 


Il Maestro coreano si è presentato sul podio in tenuta da jogger, precisamente la stessa che indossava l’ultima volta che l’ho visto dirigere, la scorsa estate alla sagra riminese.

Il suo Schubert mi sentirei di definirlo proprio confuciano: un Allegro moderato con il primo tema dolente, sforzato, con corone puntate a dividere le frasi, poi l’Andante con moto quasi una catarsi, quella che i tedeschi chiamano Verklärung. Memorabile!

Il Beethoven della Settima più che una danza (copyright Wagner) è un viaggio nell’eros, direi. Nel quale spicca l’Allegretto, quasi una presa di fiato e di… recupero di energie vitali per precipitarsi nelle due restanti orge sonore.

Tifo da stadio per Chung, che ha chiamato il pubblico agli applausi per ogni sezione dell’Orchestra, che evidentemente ha condiviso con lui (e con noi!) questa emozionante serata. [Della serie: non tutto il male vien per nuocere.]


23 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.8

Ancora il Direttore Musicale sul podio di Largo Mahler. E ancora con un concerto di quelli di una volta, e immerso nel più profondo romanticismo! Auditorium ancora preso d’assalto, con illustri presenze (cito solo lo scaligero Sovrintendente con signora…) e la diretta su Radio3 introdotta dal navigato Bossini.

L’antipasto che Tjeknavorian ci propone (se ne è vista un’anticipazione nella scorsa puntata di Splendida cornice su RAI3) è opera di Felix Mendelssohn, la sua Ouverture zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta a cavallo dei primi anni 30 dell’800 dopo un viaggio in Scozia. È in effetti un micro-poema-sinfonico (10’ sì e no) il cui soggetto è l’ambiente naturale di quelle isole scozzesi (che ispireranno poi la Terza Sinfonia) e in particolare di Staffa (con le sue imponenti colonne basaltiche che incorniciano la grotta marina) sul quale si innesta la spuria leggenda del guerriero Fingal (Fionn mac Cumhaill) preteso padre di Ossian e fiero nemico di invasori vichinghi e romani.

In Appendice qualche nota sulla struttura del brano, che il Tjek ci ha offerto con leggerezza proprio mendelssohniana, mettendone in risalto i contrasti, ma senza mai eccedere in facili eccessi enfatici.

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Arriva ora un altro poco più che ragazzo, il 23enne Daniel Lozakovich, svedese di nascita, ma di genitori migranti dall’est, Bielorussia e Kirgizistan, quindi fulgido esempio di globalizzazione dal volto umano, ecco!  

Ci suona il tormentato Concerto per violino di Robert Schumann, opera composta quasi allo scadere dell’avventura terrena del genio di Zwickau, definita da molti un concerto maledetto, anche a causa dell’eccesso di circostanze reali (il sequestro dei manoscritti da parte del deluso e scettico dedicatario Joachim) e di invenzioni romanzate (apparizioni di Schumann in sedute spiritiche) che si sono diffuse relativamente alla sua composizione e poi alla sua riscoperta, come avevo succintamente ricordato anni fa in occasione della precedente esecuzione qui all’Audtorium.

Certo, che il lavoro sia partorito da una mente disturbata è cosa difficile da negare: se si esclude il centrale Langsam, basta osservare la ossessiva riproposizione di frasi musicali lasciate a metà, o di cadenze che… non cadono mai (specie nel finale). Ma, se eseguita con la giusta ispirazione, è un’opera che merita di essere rispettata ed apprezzata.

E devo dire che il giovanissimo Daniel, che con il giovane Emmanuel ha un solido legame di amicizia, ha proprio raggiunto l’obiettivo, distillando il meglio da questo Schumann tanto bistrattato. Proprio nella polacca conclusiva (mi) ha convinto del tutto, a partire dal tempo tenuto, che molti suoi colleghi snobbano come insopportabilmente lento e trasformano in… Ciajkovski!

E ovviamente le sue eccezionali doti tecniche hanno poi fatto il resto, garantendogli un urgano di applausi che lui ha ricambiato, osservato e ammirato dal Direttore sedutosi fra le viole, con una sensazionale Ballade di Ysaÿe.

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La chiusura era riservata a Franz Schubert e alla sua piccola Sinfonia in DO. Così amichevolmente chiamata per distinguerla da quel mostro, sempre in DO, che va sotto il nome di grande.

Schubert, sommo liederista e camerista, difficilmente sarebbe passato alla storia solo grazie alle sue sinfonie. La cui debolezza principale – oltre al fatto di essere, come minimo le prime tre (ma possiamo arrivare anche a questa…) lavoretti scolastici di uno che era poco più che un ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello che, da Haydn in poi, e massimamente con Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro.

E il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata richiede tassativamente la presenza di (come minimo) due temi: il primo di carattere maschio (eroico, imperioso) e l’altro  (femmina,  contemplativo, elegiaco) che devono prima presentarsi, poi provare - se ci riescono - a convivere, ma in ogni caso devono confrontarsi e magari addirittura affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere miracolosamente la pace con la quale il secondo tema entra nella casa del primo (proprio come una moglie entra, patriarcalmente, in quella del marito).

Ebbene, al giovane Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei piacevoli temi (e ci mancherebbe!) ma di trovarli ed accoppiarli con le caratteristiche richieste da quelle regole del gioco. Nei primi tempi delle sue sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente eroici, né completamente elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente insinuare) e quindi il compositore fatica assai a creare le condizioni per farli muovere e vivere all’interno della forma canonica. 

Questo limite si manifesta puntualmente anche nella sesta sinfonia, che si apre con ben 30 battute di un solenne Adagio (proprio à la Haydn) che serve ad introdurre l’immancabile Allegro. Il quale però soffre della mancanza di stacco, di conflittualità (potremmo dire) fra i due temi, cui non basta certo differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per creare quell’atmosfera particolare che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia:

La scarsa distanza fra le personalità dei due temi (il secondo pare più un controsoggetto del primo) ha come conseguenza l’atrofizzazione dello sviluppo, poi compensata da una corposa ricapitolazione seguita infine da una coda pretenziosamente enfatica.

Nei movimenti centrali (Andante e Scherzo-Trio) la vena melodica di Schubert va a nozze; poi il Finale è ancora una volta assai ricco (pur se monotono la sua parte) con una coda in cui compare anche un protervo Beethoven: un chiaro preludio a quello della futura grande.

Il riservato Tjek, che deve avere tutta la biblioteca di partiture ben ordinata nella sua folta… capigliatura, con questo Schubert non ha lesinato nemmeno la retorica e l’enfasi che aveva controllato assai nei primi due brani.

Ne è uscita un’esecuzione che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo, sfociato in applausi ritmati che il Direttore ha trasferito ai suoi ragazzi, davvero in stato di grazia.

E domenica mattina, come sgambatura di preparazione in vista della replica del concerto del pomeriggio, il Tjek e sette magnifici archi dell’orchestra saranno al Teatro Gerolamo per deliziarci ancora con Mendelssohn e Schönberg!   

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Appendice. Le Ebridi.

Il breve brano è in Allegro moderato, in forma-sonata e vi campeggiano due temi principali: il primo in SI minore, piuttosto mosso, quasi agitato, è subito esposto da fagotto, viole e celli in tre ondate successive dell’alzarsi della marea, con armonizzazione di Si minore, poi RE maggiore, poi FA# minore (come a scalare la triade di SI minore) creata da violini, clarinetti e flauti:

Appare una seconda idea, derivata dal tema, che viene ripreso dai violini, ancora seguito dalla seconda idea. Ora abbiamo un corposo ponte basato su varianti del primo tema, che ci porta ad una distensione dell’atmosfera, culminante nell’esposizione del secondo, più calmo e sereno, quasi uno squarcio di mare in bonaccia… affidato a celli e fagotto, canonicamente nella tonalità di RE maggiore:

Lo riprendono tosto i violini, poi una cadenza chiude l’esposizione e il primo tema ricompare per dare inizio ad un grandioso sviluppo, caratterizzato dal risuonare di fanfare e poi da un ripetuto e stentoreo richiamo dei fiati (che siano il ricordo delle eroiche imprese di Fingal in quelle acque?) Il secondo tema e poi il primo (questo portato in tonalità maggiore) sembrano preparare un’apparente calma che però presto si trasforma in un’atmosfera agitata, caratterizzata dall’irruzione (sul primo tema esposto con ritmo marziale) che progressivamente porta ad un climax che ricorda epici scontri e battaglie marine.

Ma anche il trambusto si attenua rapidamente. Siamo quindi alla ricapitolazione: il primo tema torna portandosi dietro reminiscenze guerresche, poi si calma lasciando spazio al secondo, che riappare, canonicamente in SI maggiore e romanticamente ampliato.

Ma ancora c’è tempo (…Animato) per un ultimo e trionfale sfogo del primo tema, in mezzo a folate di vento e squilli di tromba. Poi tutto si chiude in pianissimo, con i due temi che si riuniscono, proprio in una stessa battuta, la terz’ultima: il primo nel clarinetto, sul FA#, il secondo nel flauto, sul SI, la quinta vuota che oboi e archi ripetono in pizzicato


10 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 15

Profondo ‘800 (= grande musica!!!) al centro del cartellone del 15° concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto da Víctor Pablo Pérez [secondo Wikipedia, un esperto di… Zarzuelas !!??!!] Però qui non dirige due operette spagnole rimaste a metà, ma due grandi Sinfonie incompiute! E dico subito che il 69enne iberico ha retto benissimo l’urto di questo impegnativo programma.

Il primo titolo è l’Incompiuta per antonomasia, quella catalogata come Ottava di Franz Schubert. Davvero una Sinfonia sui-generis, constando di due soli movimenti e per di più pochissimo contrastanti. Però… Schubert si riscatta con la sua straordinaria vena melodica, e nell’Andante mostra anche capacità di drammatizzazione della narrativa musicale.

Pérez (che ha preso la bacchetta solo nello Scherzo bruckneriano) con il suo gesto sempre privo di ogni affettazione, asciutto e misurato, ha perfettamente interpretato la natura della Sinfonia in SI minore, che poi rispecchia quella del suo Autore: dando grande risalto alla leggerezza e alla cantabilità dei temi, tenendo sempre dinamiche discrete e tempi comodi: insomma, proprio lo Schubert… viennese che – nel bene e nel male – si differenziò sempre dal nordico e impegnato Beethoven.

Il pubblico - non proprio nutritissimo, devo dire - dell’Auditorium ha però apprezzato assai.
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Ecco infine la poderosa (e ponderosa) Nona di Anton Bruckner, che rimase priva del Finale per… sopravvenuta scomparsa dell’Autore. Datosi che era stata dedicata al buon Dio… si potrebbe sospettare che il Dedicatario non abbia poi tanto gradito la dedica, impedendo d’autorità il completamento dell’opera. [Ma questa è solo una battuta di bassa lega, degna di qualche anti-bruckneriano incallito.]

In questo scritto, derivato da precedenti commenti alla Sinfonia, ho cercato di riassumerne sommariamente le circostanze della composizione e le caratteristiche salienti, che la configurano come l’estremo lascito musicale, ma soprattutto spirituale, del complesso e complessato ex-organista di SanktFlorian.

È un’opera, come altre - non tutte - sinfonie di Bruckner, che richiede un ascolto preparato, e mal si presta a fruizioni superficiali o passive. Perché non è semplice entrare in sintonia con questo compositore, la cui musica di primo acchito potrebbe apparire come contorta, o frammentaria, o addirittura priva di qualsivoglia narrativa. Persino un Brahms – che pure quanto a cerebralità delle sue composizioni non scherzava di certo – la considerava priva di senso e di logica, addirittura arrivando ad offenderla come ciarpame. (Però al funerale del vecchio Anton anche lui gli rese il dovuto omaggio…)

Pérez dimostra qui di sapersi destreggiare sapientemente nei meandri della musica di Bruckner (del resto scopriamo dalla sua biografia che non è nuovo ad interpretare questa ed altre famose None, Mahler compreso): l’approccio al primo movimento è proprio solenne, e le proverbiali pause bruckneriane sono sempre rispettate come si deve per questi silenzi che sono abissali assenze di suono.

Lo Scherzo è precisamente demoniaco, nei passaggi di pervicace martellamento degli ottoni o come negli svolazzi spiritati dei violini nel Trio. L’Adagio conclusivo è proprio un Purgatorio, popolato di grandi slanci verso il cielo e di rassegnata e serena attesa della fine (le tubette wagneriane dell’addio alla vita…) La lunga coda, con le tubette che scalano per due ottave (SI-MI-SI-MI-SI) l’accordo di MI maggiore dell’orchestra, lascia proprio senza fiato, e i 10 secondi abbondanti di silenzio che Pérez impone mantenendo alzate le braccia mettono il sigillo a questo viaggio verso… l’Assoluto.   

Lunghi applausi, anche ritmati, per il Direttore e ovazioni per i suonatori – capitanati da Dellingshausen - tutti chiamati, sezione per sezione, a godersi il meritato trionfo. 

15 ottobre, 2022

laVerdi 22-23. 3

Il terzo appuntamento della stagione vede l’atteso esordio di Michele Mariotti (che dal prossimo 1° novembre inizia il suo mandato di Direttore Musicale dell’Opera di Roma) sul podio dell’Auditorium di Largo Mahler. Ed è proprio Mahler a riempire (in coabitazione con Schubert) il programma del concerto.

Il filo conduttore del programma potrebbe definirsi una meditazione sulla morte: dal 27enne Schubert esplicitamente esposta già nel titolo del primo brano in programma, oltre che personalmente e materialmente vissuta e sofferta; nel poco più che 30enne Mahler, presente in almeno tre dei cinque Lieder proposti, oltre che essere una componente fondamentale della sua concezione artistica-esistenziale, che costituirà il sostrato di tutta la sua produzione a venire.

Il primo brano della locandina è la trascrizione, opera di Mahler, dello schubertiano Quartetto D 810 in RE minore del 1824. Che è più noto con il titolo Der Tod und das Mädchen, il brevissimo Lied del 1817 – solo 43 battute in RE minore, tre minuti appena - le cui 8 battute introduttive vengono richiamate all’inizio dello sterminato Andante con moto – 272 battute in SOL minore, con ben 11 da-capo, quasi un quarto d’ora!

In questo commento ad un concerto del lontano 2011 avevo segnalato alcuni sotterranei legami fra temi dei 4 movimenti del quartetto e opere anteriori e soprattutto posteriori a Schubert. Allo stesso tempo avevo segnalato i rischi connessi all’ispessimento dell’organico orchestrale, legato alla trascrizione mahleriana. Che anche ieri si sono inevitabilmente materializzati, anche se l’encomiabile sforzo di Mariotti per dare trasparenza e leggerezza al tessuto musicale schubertiano ha sortito effetti apprezzabili: cito solo come esempio proprio il movimento che dà il titolo al quartetto, dove il Direttore pesarese (epigono del suo maestro Abbado anche nella postura di volto e… mani) ha ridotto qua e là la strumentazione proprio a quella di un quartetto, ma non quello classico, come far suonare - per ottenere un effetto stereo - solo la quarta fila dei primi violini. In compenso ci ha inspiegabilmente risparmiato almeno un paio dei da-capo, cosa che francamente mi è dispiaciuta assai.        

In ogni caso il successo non è mancato, con prolungati applausi a strumentisti e Direttore.
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Ian Bostridge ha fatto il suo gradito ritorno qui (dopo quasi 13 anni, se la memoria non m’inganna…) per proporci alcuni Lieder che Mahler musicò scegliendoli fior-da-fiore dalla sterminata collezione della raccolta titolata Des Knaben Wunderhorn.

Si tratta di vecchie poesie e filastrocche popolari tedesche – risalenti prevalentemente alla guerra dei 30 anni (1618-1648, culminata con la Pace di Westfalia) - pubblicata nei primi anni dell’800 (1805-1808) da Achim von Arnim e Clemens Brentano. I tre volumi contengono quasi 700 poesie, inclusi 134 Kinderlieder. Come è facile immaginare, ci si trova un po’ di tutto: fatalismo, disperazione, antimilitarismo, ingenuità, fanciullaggini, ma anche sana saggezza, sarcastica critica del potere e delle stupide convenzioni sociali. I Lieder presentati nel concerto ne rappresenrano un piccolo ma significativo campione.  

Nell'ultima decade dell'800 Mahler musicò 9 canti per voce e pianoforte, e successivamente altri 15 (in tre tranche di 5, 8 e 2) per voce e orchestra, tre dei quali sono poi divenuti altrettanti movimenti di sinfonia (seconda, terza e quarta). Ma frammenti e reminiscenze di Lied pervadono letteralmente tutta la produzione sinfonica di Mahler.

Dei 15 canti qui Bostridge e Mariotti ne hanno proposti cinque, due nella sezione… sarcasmi e fanciullaggini in campo ittico, gli altri tre nella sezione… antimilitarista e funerali, e precisamente:

Des Antonius von Padua Fischpredigt: Sant’Antonio predica ai pesci, che seguono il sermone con il massimo interesse (proprio a bocca aperta, si potrebbe dire); finita la predica, ognuno se ne torna alle proprie poco edificanti occupazioni. Peraltro, non è ciò che accade al 98% dei frequentatori delle nostre chiese?! La musica di questo Lied è stata impiegata da Mahler, con notevoli ampliamenti, come Scherzo della Seconda Sinfonia.

Rheinlegendchen: è una delicata melodia campestre (una ballata, come era definita) su un testo che racconta un’improbabile storia di un anellino, buttato nel fiume da un mietitore, e che arriva sulla tavola del re, dentro al pesce che lo ha ingoiato. Così una bella ragazza di corte lo riporta al contadinello.  

Wo die schönen Trompeten blasen: un giovane innamorato bussa alla porta della sua amata, che lo fa entrare, ma poi piange udendo l’usignolo. Lui la rassicura: sarai mia, ma prima devo proprio andare in guerra, sui verdi prati, dove squillano le belle trombe. Là è la mia casa.

Revelge: un tamburino, morto, che risorge per guidare i compagni, morti pure loro, alla vittoria… per poi tornare a fare il morto, sotto le finestre dell’amata. Pare che Mahler abbia confessato di aver avuto l’ispirazione per la musica di questo Lied - un breve inciso del quale compare nel Finale della Quinta sinfonia - durante una lunga seduta sul… WC! Ma qui Fantozzi non avrebbe proprio nulla da eccepire!

Der Tambourg‘sell: un altro, povero tamburino disertore è portato al patibolo, e saluta tutti i commilitoni con uno sberleffo, me ne vado in ferie, lontano da voi. Buona notte!

Pare che Mahler avesse concepito questi canti per voce maaschile, sta di fatto però che le principali edizioni recano l’indicazione generica per voce solista e orchestra, per cui i Lieder sono stati tradizionalmente eseguiti da baritoni, contralti e soprani, più raramente da tenori. Alcuni, proprio come Wo die schönen Trompeten blasen, si prestano anche ad essere interpretati da voce maschile e femminile dialoganti (cosa che molti esperti – e Bostridge con loro - contestano apertamente). Non è raro che la tonalità venga trasposta per meglio adattarla alla voce dell’interprete.

Bostridge, del quale si possono ascoltare qui quattro dei cinque Lieder, eseguiti nel 2015 con l’OSN-RAI, ha sfoggiato la sua straordinaria carica espressiva – invero perfettamente calzante sullo scenario straniato e straniante di questi testi - che riesce a coinvolgere il pubblico come poche volte accade.

Mariotti ha trovato immediatamente sintonia con il solista, accompagnandolo con discrezione, quasi in punta di piedi, salvo far esplodere l’orchestra (a rischio di coprire la voce…) nelle poche irruzioni (copyright Adorno) che caratterizzano un po’ tutta la produzione mahleriana.

Le ripetute chiamate e gli applausi ritmati che hanno accolto i due al termine hanno sortito anche un bis: la predica del Santo agli… ipocriti. 

03 giugno, 2021

laVerdi romantica

Oleg Caetani fa il suo ritorno alla guida de laVerdi per il terzo appuntamento dei sette che danno corpo a questa stagione di riapertura al pubblico.

Come si sa, le perduranti regole anti-Covid - e in particolare quelle che impongono il distanziamento -  condizionano la programmazione, che deve limitarsi ad opere che possano essere efficacemente presentate anche con una formazione orchestrale necessariamente ridotta a non più di 35-40 strumentisti, date le dimensioni del palcoscenico dell’Auditorium. (Per le recenti trasmissioni in streaming l’orchestra a ranghi completi occupava anche quasi metà della platea!)

Ecco quindi un programma - musiche caratterizzate da serenità e ottimismo, certificati dal RE maggiore che le accomuna - che fa di necessità virtù, comprendendo due brani adeguatamente gestibili da un complesso poco più che cameristico.

E tale possiamo immaginare fosse l’orchestra degli allievi del Vienna Stadtkonvikt, dove (si ipotizza) il sedicenne violinista/corista Franz Schubert vide eseguita, a fine ottobre 1813, la sua Prima Sinfonia, poi rimasta inascoltata per decenni.

Mozart, Beethoven ma soprattutto Haydn sono i chiari modelli ispiratori di questo lavoro, come testimonia subito l’Adagio iniziale, 20 battute che introducono, proprio à-la-Franz-Joseph, l’Allegro vivace in RE maggiore (4/4 alla breve) che dà corpo al primo movimento. Movimento in canonica forma-sonata, con esposizione di un primo tema spigliato e abbastanza conciso, seguito da un secondo sulla dominante LA, questo più cantabile e soprattutto assai più corposo, con motivi complementari in imitazione. É lo stesso secondo tema il protagonista dello sviluppo, chiuso sorprendentemente dal ritorno - ampliato - del tema dell’Introduzione, che prepara la ripresa: al primo tema segue il secondo, ora adeguatosi alla tonalità principale, che sfocia in una lunga e melodrammatica cadenza conclusiva a piena orchestra.

L’Andante che segue (scolasticamente in SOL maggiore, 6/8) è sostanzialmente bitematico, ma la struttura è più complessa della classica A-B-A: il tema A ha un sapore liederistico, cantabile, e viene subito ripetuto. Gli subentra, con un drammatico accordo di MI minore, il tema B, più cupo e introverso, a dispetto di qualche breve virata in maggiore. Torna il tema A, ma si direbbe inquinato dal MI (minore e maggiore) del B, fino ad una fermata in corona puntata sulla dominante RE. Poi ci sono altre 8 battute di transizione prima di tornare al tema A, che viene ripetuto e seguito dalla cadenza che porta sommessamente alla conclusione.

Come di prammatica, ecco poi il Menuetto (Allegro, 3/4) di struttura classica e semplice, ma significativamente energico, fin quasi ad anticipare certo Bruckner! Presenta una prima sezione di 18 battute (che chiude sulla dominante LA) e poi una seconda di 22 (con modulazione a SI minore) più la ripresa della prima sezione allungata (22 battute, chiusa sul RE) entrambe da ripetersi. Poi, più tranquillo e rilassato, il Trio, sempre in RE maggiore, pure in due sezioni, di 9 battute (chiusa sul LA) e 26 battute (incipit dalla dominante e chiusa sulla tonica) da ripetersi. Infine si torna al Menuetto, senza ripetizioni.

Chiude il Rondo (4/4 Allegro vivace, RE maggiore) di struttura assai articolata, che comporta l’impiego di quattro motivi fra loro mirabilmente intrecciati.

Viene esposto subito il primo gruppo tematico A, costituito da due frasi in RE maggiore, la prima (a1, 16 battute) piuttosto delicata, danzante; la seconda (a2, 19 battute) più marziale, che chiude con un un’impertinente cellula (a3, che occuperà poi un ruolo importante) ripetuta 4 volte ad altezze diverse, finendo sulla dominante. Il gruppo tematico viene subito riproposto, ma dopo la frase a1 identica, la seconda ora viene sviluppata assai (34 battute) insistendo sulla cellula a3, e porta verso LA maggiore, tonalità del tema B. Un tema di 8 battute, esposto da fagotto e violini, subito ripetuto dagli strumentini a canone, e poi seguito dalla cellula a3, che con una lunga transizione conduce inaspettatamente al ritorno della frase a2, sempre in LA maggiore.  

Qui Schubert ne inventa una davvero nuova: il tema B si smagrisce e si oscura, in flauto e fagotto, poi diventa balbettante nei violini e infine torna (fagotto e violini) incredibilmente in tonalità di FA maggiore! Dopo essere stato ripetuto dagli strumentini a canone, lascia spazio ancora alla cellula a3, sempre in FA maggiore ma abbrunata da lamenti (quinta - sesta abbassata - quinta) di oboi e clarinetti. Sempre a3 a tener banco in una lunga transizione che lentamente degrada nei legni verso l’accordo di settima di dominante di RE. E qui torna il gruppo A, riesposto come all’inizio, salvo una battuta extra (cellula a3) alla fine. 

Ora Schubert si diverte a portare a1 in minore, poi usa la cellula a3 per virare alla relativa FA maggiore e, da qui prende la rincorsa per riproporre a2 in SIb maggiore! É sempre a3 a riportarci a RE maggiore, tonalità di impianto cui ora si adegua canonicamente anche il tema B, esposto da clarinetto e violini e ripetuto da strumentini a canone. Immancabilmente torna a3 e si ripropone una transizione che porta alla lunga, pomposa coda, basata sulla frase a2, arricchita dalla presenza di una versione di a3 ancor più marcata ed enfatica.

Insomma, il ragazzino aveva proprio imparato bene le lezioni dei grandi della prima scuola!  

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E per un piccolo ensemble di 9 strumenti (quartetto d’archi più flauto, 2 clarinetti, fagotto e corno) era stata concepita nel 1857 (e per la prima volta eseguita due anni dopo) la Prima serenata del 24enne Johannes Brahms. Che successivamente ci fece un paio di upgrade per orchestra sinfonica quasi... (mancando tromboni, arpa e percussioni) romantica.

Insieme al concerto pianistico (Op.15) si ritiene che questa sia una delle due principali opere propedeutiche al tardivo ingresso di Brahms nell’arena sinfonica, che Beethoven aveva sostanzialmente prosciugato e che era stata poi rispettosamente frequentata solo dalla coppia Mendelssohn-Schumann.

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Caetani, che in Schubert non aveva fatto sconti ai da-capo presenti nella partitura, qui ne ha evitati un paio, ma direi senza far danni, anzi. Se nella Sinfonia aveva tenuto un approccio classico, con una gestione misurata di tempi e dinamiche, in Brahms (diretto a memoria) ha invece sciorinato qualche personale idea interpretativa, come la foga con cui ha attaccato l’iniziale Allegro molto, o l’aplombe (forse eccessivo, per me almeno) tenuto per il Menuetto

Ma il successo non è comunque mancato, per il Direttore e per l’Orchestra, specie per la sezione dei fiati che si è ben distinta (perdoneremo una svirgolata di corno) soprattutto in Brahms.

21 aprile, 2020

In memoriam di un’infermiera


Das Mädchen:
Vorüber, ach, vorüber!
Geh, wilder Knochenmann!
Ich bin noch jung, geh, Lieber!
Und rühre mich nicht an.

Der Tod:

Gib deine Hand, du schön und zart Gebild!
Bin Freund und komme nicht zu strafen.
Sei guten Muts! Ich bin nicht wild,
Sollst sanft in meinen Armen schlafen!

(Mathias Claudius)

La fanciulla:
Via, ah, sparisci!
Vattene, barbaro scheletro!
Io sono ancora giovane; va', caro!
E non mi toccare.

La morte:

Dammi la tua mano, bella creatura delicata!
Sono un'amica, non vengo per punirti.
Su, coraggio! Non sono cattiva,
dolcemente dormirai fra le mie braccia!

(Traduzione di Pietro Soresina)


01 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°15


Protagonista assoluto del concerto di questa settimana è un personaggio che da anni circola in Italia e non solo nei grandi teatri e sale da concerto, ma anche e soprattutto in... provincia, dove ha modo di gettare i semi della sua arte e della sua sapienza interpretativa. Qui fa le cose davvero in grande, presentandoci un celeberrimo concerto e una grande sinfonia, di due autori fra loro legati da stretti vincoli artistici.

Intanto una nota di una certa importanza: altri pianisti-direttori dispongono il pianoforte perpendicolare al fondo-scena, per poter dirigere meglio; ma così facendo restano di spalle al pubblico, cosa di per sè sgradevole per l’ascoltatore, ma soprattutto devono far togliere dallo strumento il coperchio, perdendo quindi la sua fondamentale funzione di riverbero del suono. Ecco, Lonquich invece dispone il pianoforte nella posizione canonica: certo, così dà le spalle alla... spalla (ieri Dellingshausen) ma evidentemente l’affiatamento con il primo violino è così alto da non creare problemi. Poi Lonquich dispone l’orchestra alla tedesca, ma con i contrabbassi in linea sul fondo e tiene proprio di fianco a sè gli strumentini, cosa utilissima nel concerto di Schumann, dove soprattutto l’oboe (di Luca Stocco, per l’occasione) dialoga di continuo col solista.

Ecco quindi il Klavierkonzert di Robert Schumann, pilastro della scrittura pianistica romantica, che Lonquich interpreta con straordinaria sensibilità, tocco sempre delicato, impiego sapientissimo ma non invadente del rubato e soprattutto una perfetta osmosi con l’orchestra, che sappiamo essere proprio la caratteristica peculiare e programmatica di questo concerto.

Per lui ovazioni che ricambia ancora con Schumann, suscitando emozioni come accadeva per questo suo illustre predecessore!
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Poi la Sinfonia in DO di Franz Schubert, quella che proprio Schumann portò alla luce dal chiuso di cassetti polverosi ed esaltò per le sue celestiali lungaggini, un’opera che chiude in modo davvero grandioso tutta un’esistenza musicale che Schubert aveva vissuto prevalentemente nel piccolo, nel raccolto, nell’intimistico, nelle sue mille canzoni e nelle sue opere cameristiche.

Qui invece costruisce un monumento, una cattedrale di possanza bruckneriana e di ideali beethoveniani. E Lonquich (che ha diretto a memoria) non si e ci risparmia una sola battuta di questo capolavoro, eseguendo scrupolosissimamente tutti i ritornelli, proprio come Schumann esigeva si facesse. Più di un’ora di durata, ma si starebbe lì per un‘altra ancora ad ascoltare questa mirabile musica. Soprattutto se suonata con la bravura e la partecipazione dei ragazzi de laVerdi!

Auditorium non affollatissimo, ma gli assenti di ieri possono ancora rimediare oggi o dopodomani...

10 novembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°7


Per il concerto di questa settimana laVerdi si apparenta con Milano Musica, il che comporta l’inserimento nel programma di opere del compositore cui l’edizione 2018 del festival è dedicata: György Kurtág, che in questo periodo è di casa a Milano, visto che dal 15 al 25 novembre la Scala ospiterà la sua ultima fatica (già in ritardo di anni, peraltro): Fin de partie, da Samuel Beckett, cui il compositore dichiaratamente si ispira anche nel terzo dei brani in programma all'Auditorium. Sul podio il navigato Sylvain CambrelingPubblico non oceanico, ma neanche di pochi intimi, anzi.  

Di Kurtág vengono presentate due opere, incastonate fra due di Franz Schubert, che apre il programma con la Quinta Sinfonia, in SIb maggiore. Sinfonia che è stata diretta qui meno di 2 anni fa dalla bacchetta del rampante Trevino e sulla quale ho scritto allora qualche nota esplicativa.

Cambreling – gesto secco e, almeno apparentemente, preciso – ne dà una lettura più settecentesca che romantica, forse per prepararci adeguatamente ai due brani di Kurtág…
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Così, dopo le note serene - pur velate da screziature crepuscolari - di Schubert, eccoci di fronte a quelle assai problematiche di Kurtág, del quale ascoltiamo dapprima uno dei tanti Messages, quello abbozzato nel 98-99 e poi rivisto nel 2009: New Messages, op. 34a. Si tratta di sette aforismi musicali: 1. Caliban e il sogno di Miranda; 2. Ombre (questi due brani ricompaiono in ordine inverso e in varianti come ultimi due pezzi); 3. Dal profondo bisogno (messaggio a Madeleine Santchi); 4. Les Adieux alla maniera di Janáček (in memoria di Diego von Westerholf); 5. Messaggio a Zoltán Peskó. E proprio il direttore che passò anni e anni a Milano (con l’Orchestra RAI) fu protagonista della prima esecuzione con i Berliner (commissionari dell’opera) nel 2000.   

Si tratta di sette aforismi musicali, di cui i primi due ricompaiono in ordine inverso e in varianti come ultimi due pezzi:

1. Sogno di Miranda (circa 2’30”). Atmosfere languenti dei fiati (corni in primis) e interventi improvvisi delle percussioni, per questo richiamo shakespeariano;

2. Ombre (circa 1’05”). Dichiaratamente ispirato allo scherzo della settima maleriana (schattenhaft, appunto): protagonisti i contrabbassi con sordina, che suonano veloci terzine, soprattutto discendenti, supportati da arpa, timpani e da colpi di frusta; poi isolate irruzioni degli ottoni;

3. Dal profondo bisogno (circa 1’25”). Poderoso richiamo di trombe e tromboni, poi raggiunti da corni e percussioni; silenzio rotto poi da due interventi isolati del flauto, su un tappeto sonoro di fiati, percussioni e archi;  

4. Les Adieux alla maniera di Janáček (circa 5’20”). Atmosfera misteriosa, quasi liquida (celesta, cimbalom e percussioni leggere); irruzioni di grancassa;

5. Messaggio a Zoltán Peskó (circa 1’10”). Brano agitato e nervoso, tutto scatti, chiuso dall’intera orchestra con due terzine e una poderosa croma;

6. Ombre - 2 (circa 1’40”). In questa ripresa c’è più presenza dell’orchestra (altri contrabbassi, arpa e percussioni) a rinforzare la corposità del suono;

7. Sogno di Miranda - 2 (circa 2’50”). Questa variante è scritta per soli archi (un unico fugace intervento di timpani e piatti) ed effettivamente pare più sognante della prima… 

Che dire: musica più da subire che da capire? Applausi, di cortesia?
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Nel secondo brano Kurtág mette in musica lo straniante e straniato poema di Samuel Beckett: What is the Word (op.30b, orchestrazione dell’originale op.30a per pianoforte) che Claudio Abbado portò alla luce a Vienna domenica 27 ottobre del 1991, con la voce di Ildikó Monyók, l’attrice-cantante ungherese la cui disavventura di anni prima (perdita totale della voce, poi faticosamente recuperata) aveva guidato il compositore verso il poema di Beckett (il quale a sua volta e curiosamente, anni addietro e prima del caso Monyók, aveva scritto un dramma - Not I - proprio sull’esperienza di una donna che perde la voce e poi la recupera miracolosamente ad anni e anni di distanza). 

Il testo di Beckett viene affidato (in traduzione magiara) alla voce recitante, che in realtà deve emettere suoni (notati sulla partitura in chiave di violino) con una tessitura di contralto profondo, che spazia due ottave e mezza, da un DO# ultra-grave al FA#: è qualcosa di simile, ma più evoluto dello Sprechgesang di schönberghiana memoria. Con essa interagiscono (nell’originale inglese) le voci cantanti (tutte 5 le tessiture). Ecco le due versioni del testo più la traduzione italiana:

What is the Word
Samuel Beckett
Cos’è la parola
trad. Ada Ferianis
Mi is a szó
trad. István Siklós
what is the word -
folly -
folly for to -
for to -
what is the word -
folly from this -
all this -
folly from all this -
given -
folly given all this -
seeing -
folly seeing all this -
this -
what is the word -
this this -
this this here -
all this this here -
folly given all this -
seeing -
folly seeing all this this here -
for to -
what is the word -
see -
glimpse -
seem to glimpse -
need to seem to glimpse -
folly for to need to seem to glimpse -
what -
what is the word -
and where -
folly for to need to seem to glimpse
   what where -
where -
what is the word -
there -
over there -
away over there -
afar -
afar away over there -
afaint -
afaint afar away over there what -
what -
what is the word -
seeing all this -
all this this -
all this this here -
folly for to see what -
glimpse -
seem to glimpse -
need to seem to glimpse -
afaint afar away over there what -
folly for to need to seem to glimpse
   afaint afar away over there what -
what -
what is the word -
what is the word
cos’è la parola -
follia -
follia per -
per -
cos’è la parola -
follia da questo -
tutto questo -
follia da tutto questo -
dato -
follia dato tutto questo -
vedendo -
follia vedendo tutto questo -
questo -
cos’è la parola -
questo questo -
questo questo qui -
tutto questo questo qui -
follia dato tutto questo -
vedendo -
follia vedendo tutto questo questo qui -
per -
cos’è la parola -
vedere -
scorgere -
sembrare scorgere -
avere bisogno sembrare scorgere -
follia per avere bisogno sembrare scorgere -
cosa -
cos’è la parola -
e dove -
follia per avere bisogno sembrare scorgere
     cosa dove -
dove -
cos’è la parola -
là -
laggiù -
via laggiù -
lontanamente -
lontanamente via laggiù -
languidamente -
languidamente lontanamente via laggiù cosa
cosa -
cos’è la parola -
vedendo tutto questo -
tutto questo questo -
tutto questo questo qui -
follia per vedere cosa -
scorgere -
sembrare scorgere -
avere bisogno sembrare scorgere -
languidamente lontanamente via laggiù cosa
follia per avere bisogno sembrare scorgere
 languidamente lontanamente via laggiù cosa
cosa -
cos’è la parola -
cos’è la parola
mi is a szó -
hiábavaló -
hiábavaló nak hoz -
nak hoz -
mi is a szó -
hiábavaló ettől -
mindettől -
hiábavaló mindettől -
adott -
hiábavaló adva mindettől -
látnivaló -
hiábavaló látni mindezt -
ezt -
mi is a szó -
ez ez -
ez ez itt -
mindez ez itt -
hiábavaló adva mindettől -
látva -
hiábavaló látni, mindezt itt -
nak hoz -
mi is a szó -
látni -
pillantani -
pillantani tűnni -
szükség pillantani tűnni -
hiábavaló szükség pillantani tűnni -
mi -
mi is a szó -
és hol -
hiábavalónak hoz szükség pillantani tűnni
   mi hol -
hol -
mi is a szó -
ott -
odaát -
odébb odaát -
távol -
távol odébb odaát -
eltűnő -
eltűnő távol odább odaát mi -
mi -
mi is a szó -
látni mindezt -
mind ezt ezt -
mind ezt ezt itt -
hiábavaló nak hoz látni mi
pillantani -
pillantani tűnni -
szükség pillantani tűnni -
eltűnő távol odább odaát mi -
hiábavaló nak hoz szükség pillantani tűnni
     eltűnő távol odább odaát mi -
mi -
mi is a szó -
mi is a szó

Gli strumenti sono quasi tutti dislocati remotamente, in ogni lato della galleria, mentre sul palco stazionano il violino (la spalla Dellingshausen), il pianino suonato da Csaba Kiraly, l’arpa di Elena Piva, la celesta (Carlotta Lusa), il cimbalom (Bruno De Souza Barbosa), oltre al direttore (che per evidenti ragioni è rivolto verso la sala) e la voce recitante di Gerrie de Vries, cantante-attrice, proprio come l’ispiratrice dell’opera. Le 5 voci che contrappuntano quella recitante (l’ensemble Il Canto di Orfeo guidato da Gianluca Capuano, ben noto in Auditorium per i suoi contributi alle esibizioni de laBarocca) dovrebbero disperdersi in mezzo al pubblico, ma qui sono invece concentrate sul fondo della platea, accanto ai timpani. 

Insomma, si tratta di un vero e proprio spettacolo di teatro integrale, dove i suoni arrivano da ogni dove, mentre ciò che si canta o si declama è un perenne domandarsi su cosa sia la parola, ma non solo: cosa sia il guardare, il cercare di vedere, di scorgere; insomma un continuo girare a vuoto in cerca di risposte a domande che risposte non trovano.

Di sicuro l’effetto è… interessante, quanto inconsueto (almeno per l’Auditorium) è lo scenario. E il pubblico mi pare mostrare almeno interesse, appunto, non lesinando applausi per tutti.  
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Dopo questi due piatti francamente un po' ostici da digerire, si chiude - meno male! - ancora con Schubert e la sua Incompiuta.

Cambreling qui mi sembra (correttamente) proporre uno Schubert più corposo e problematico, rispetto alla Quinta iniziale: mettendo in evidenza la profondità dei temi e non risparmiandosi di calcare la mano dove necessario. Quindi ripetute chiamate e gran successo per lui e i ragazzi. 
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PS. La prossima settimana vedrà compiersi uno degli eventi cardine in ricordo della fondazione dell’Orchestra: tre concerti in cui verrà eseguita l’integrale sinfonica di Ciajkovski, diretta da Flor.