Ancora il Direttore Musicale sul podio di Largo Mahler. E ancora con un concerto di quelli di una volta, e immerso nel più profondo romanticismo! Auditorium ancora preso d’assalto, con illustri presenze (cito solo lo scaligero Sovrintendente con signora…) e la diretta su Radio3 introdotta dal navigato Bossini.
L’antipasto che Tjeknavorian ci propone (se ne è vista un’anticipazione nella scorsa puntata di Splendida cornice su RAI3) è opera di Felix Mendelssohn, la sua Ouverture zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta a cavallo dei primi anni 30 dell’800 dopo un viaggio in Scozia. È in effetti un micro-poema-sinfonico (10’ sì e no) il cui soggetto è l’ambiente naturale di quelle isole scozzesi (che ispireranno poi la Terza Sinfonia) e in particolare di Staffa (con le sue imponenti colonne basaltiche che incorniciano la grotta marina) sul quale si innesta la spuria leggenda del guerriero Fingal (Fionn mac Cumhaill) preteso padre di Ossian e fiero nemico di invasori vichinghi e romani.
In Appendice qualche nota sulla struttura del brano, che il Tjek ci ha offerto con leggerezza proprio mendelssohniana, mettendone in risalto i contrasti, ma senza mai eccedere in facili eccessi enfatici.
Ci
suona il tormentato Concerto per violino di Robert Schumann,
opera composta quasi allo scadere dell’avventura terrena del genio di Zwickau, definita
da molti un concerto maledetto, anche a causa dell’eccesso di circostanze
reali (il sequestro dei manoscritti da parte del deluso e scettico dedicatario Joachim) e
di invenzioni romanzate (apparizioni di Schumann in sedute spiritiche) che si
sono diffuse relativamente alla sua composizione e poi alla sua riscoperta,
come avevo
succintamente ricordato anni fa in occasione della precedente esecuzione
qui all’Audtorium.
Certo, che il lavoro sia partorito da una mente disturbata è cosa difficile da negare: se si esclude il centrale Langsam, basta osservare la ossessiva riproposizione di frasi musicali lasciate a metà, o di cadenze che… non cadono mai (specie nel finale). Ma, se eseguita con la giusta ispirazione, è un’opera che merita di essere rispettata ed apprezzata.
E devo dire che il giovanissimo Daniel, che con il giovane Emmanuel ha un solido legame di amicizia, ha proprio raggiunto l’obiettivo, distillando il meglio da questo Schumann tanto bistrattato. Proprio nella polacca conclusiva (mi) ha convinto del tutto, a partire dal tempo tenuto, che molti suoi colleghi snobbano come insopportabilmente lento e trasformano in… Ciajkovski!
E ovviamente le sue eccezionali doti tecniche hanno poi fatto il resto, garantendogli un urgano di applausi che lui ha ricambiato, osservato e ammirato dal Direttore sedutosi fra le viole, con una sensazionale Ballade di Ysaÿe.
Schubert, sommo liederista e camerista, difficilmente sarebbe passato alla storia solo grazie alle sue sinfonie. La cui debolezza principale – oltre al fatto di essere, come minimo le prime tre (ma possiamo arrivare anche a questa…) lavoretti scolastici di uno che era poco più che un ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello che, da Haydn in poi, e massimamente con Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro.
E il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata richiede tassativamente la presenza di (come minimo) due temi: il primo di carattere maschio (eroico, imperioso) e l’altro (femmina, contemplativo, elegiaco) che devono prima presentarsi, poi provare - se ci riescono - a convivere, ma in ogni caso devono confrontarsi e magari addirittura affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere miracolosamente la pace con la quale il secondo tema entra nella casa del primo (proprio come una moglie entra, patriarcalmente, in quella del marito).
Ebbene, al giovane Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei piacevoli temi (e ci mancherebbe!) ma di trovarli ed accoppiarli con le caratteristiche richieste da quelle regole del gioco. Nei primi tempi delle sue sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente eroici, né completamente elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente insinuare) e quindi il compositore fatica assai a creare le condizioni per farli muovere e vivere all’interno della forma canonica.
Questo limite si manifesta puntualmente anche nella sesta sinfonia, che si apre con ben 30 battute di un solenne Adagio (proprio à la Haydn) che serve ad introdurre l’immancabile Allegro. Il quale però soffre della mancanza di stacco, di conflittualità (potremmo dire) fra i due temi, cui non basta certo differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per creare quell’atmosfera particolare che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia:
La scarsa distanza fra le personalità dei due temi (il secondo pare più un controsoggetto del primo) ha come conseguenza l’atrofizzazione dello sviluppo, poi compensata da una corposa ricapitolazione seguita infine da una coda pretenziosamente enfatica.
Nei
movimenti centrali (Andante e Scherzo-Trio) la vena
melodica di Schubert va a nozze; poi il Finale è ancora una
volta assai ricco (pur se monotono la sua parte) con una coda in cui compare
anche un protervo Beethoven: un chiaro preludio a quello della
futura grande.
Il
riservato Tjek, che deve avere tutta la biblioteca di partiture ben ordinata nella
sua folta… capigliatura, con questo Schubert non ha lesinato nemmeno la
retorica e l’enfasi che aveva controllato assai nei primi due brani.
Ne è uscita un’esecuzione che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo, sfociato in applausi ritmati che il Direttore ha trasferito ai suoi ragazzi, davvero in stato di grazia.
E domenica mattina, come sgambatura di preparazione in vista della replica del concerto del pomeriggio, il Tjek e sette magnifici archi dell’orchestra saranno al Teatro Gerolamo per deliziarci ancora con Mendelssohn e Schönberg!
Il breve brano è in Allegro moderato, in forma-sonata e vi campeggiano due temi principali: il primo in SI minore, piuttosto mosso, quasi agitato, è subito esposto da fagotto, viole e celli in tre ondate successive dell’alzarsi della marea, con armonizzazione di Si minore, poi RE maggiore, poi FA# minore (come a scalare la triade di SI minore) creata da violini, clarinetti e flauti:
Appare una seconda idea, derivata dal tema, che viene ripreso dai violini, ancora seguito dalla seconda idea. Ora abbiamo un corposo ponte basato su varianti del primo tema, che ci porta ad una distensione dell’atmosfera, culminante nell’esposizione del secondo, più calmo e sereno, quasi uno squarcio di mare in bonaccia… affidato a celli e fagotto, canonicamente nella tonalità di RE maggiore:
Lo riprendono tosto i violini, poi una cadenza chiude l’esposizione e il primo tema ricompare per dare inizio ad un grandioso sviluppo, caratterizzato dal risuonare di fanfare e poi da un ripetuto e stentoreo richiamo dei fiati (che siano il ricordo delle eroiche imprese di Fingal in quelle acque?) Il secondo tema e poi il primo (questo portato in tonalità maggiore) sembrano preparare un’apparente calma che però presto si trasforma in un’atmosfera agitata, caratterizzata dall’irruzione (sul primo tema esposto con ritmo marziale) che progressivamente porta ad un climax che ricorda epici scontri e battaglie marine.
Ma anche il trambusto si attenua rapidamente. Siamo quindi alla ricapitolazione: il primo tema torna portandosi dietro reminiscenze guerresche, poi si calma lasciando spazio al secondo, che riappare, canonicamente in SI maggiore e romanticamente ampliato.
Ma ancora c’è tempo (…Animato) per un ultimo e trionfale sfogo del primo tema, in mezzo a folate di vento e squilli di tromba. Poi tutto si chiude in pianissimo, con i due temi che si riuniscono, proprio in una stessa battuta, la terz’ultima: il primo nel clarinetto, sul FA#, il secondo nel flauto, sul SI, la quinta vuota che oboi e archi ripetono in pizzicato.
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