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21 agosto, 2023

ROF-44 live - Eduardo&Cristina

Il mio personale percorso a ritroso nella presenza alle tre opere del cartellone ha riservato l’ultimo posto (dulcis-in-fundo?, haha) al titolo principale di questa edizione del ROF: Eduardo&Cristina, già visto e udito – via etere/RAI - alla prima dell’11 e sul quale avevo anticipato qualche mia peregrina osservazione alla vigilia, e senza aver ancora potuto leggere il programma di sala. Il quale reca altre preziose e fondamentali considerazioni dei due curatori dell’edizione critica, Malnati e Tavilla.

Per affinità di… origini etniche (copyright Francesco Lollobrigida) segnalo subito il commento scritto a caldo dopo la prima dalla mia conterranea Roberta Pedrotti, della quale condivido ampiamente i giudizi del tutto positivi sul piano musicale; e, diciamo, ehm, politically correct, quelli meno entusiastici (o almeno dubitativi) sull’allestimento.  

Do quindi spazio in primo luogo alla messinscena, o meglio, all’idea di base di Stefano Poda, che pare farsi scudo dell’esempio rossiniano (dove una stessa musica può supportare indifferentemente il diavolo e l’acqua santa…) per proporci un approccio registico che si dovrebbe adattare – parole di Poda medesimo, riportate sul programma di sala - a questo Rossini così come a Tristan&Isolde, o a Romeo&Giulietta oppure anche ad Orfeo&Euridice(Osservo però che trattasi di drammi finiti in tragedia, a differenza del centone rossiniano, che chiude in gloria.)   

Tradotto in termini Pod-iani, in scena non va in onda il soggetto originale, ma una libera interpretazione delle mille materializzazioni del concetto amore-morte. Che artisticamente, secondo il regista, si traducono in immagini di corpi umani mostrati (staticamente/sculturalmente o dinamicamente/carnalmente) nelle più diverse posture associabili a pulsioni erotico-spirituali dell’insieme anima-corpo di ogni essere umano.

La componente freddamente materiale di ciò è il fondo-scena occupato da un gigantesco bassorilievo in cui appare un’accozzaglia di sezioni di corpi umani (teste, petti, cosce e glutei alla rinfusa, tipo deposito di macelleria) e dalle quinte laterali costituite da enormi scaffali occupati da manichini di gesso raffiguranti corpi ignudi. Quella dotata di anima e corpo è invece rappresentata da mimi (quasi sempre completamente nudi, salvo minuscoli cache-sexe) che si muovono ieraticamente sul palcoscenico ad esternare (per noi poveri pirla che non saremmo in grado di raffigurarcele) le segrete pulsioni che animano la psiche dei personaggi del dramma.

Naturalmente Poda ci notifica quando in scena arrivano personaggi del soggetto reale (i protagonisti e i componenti dei cori) che, per ragioni forse anche di… ehm… indisponibilità alla nudità in pubblico, sono ricoperti di costumi che ne identificano lo status e la fazione.

Insomma, un’idea come tante altre che serve al regista per scaricarsi della responsabilità di mostrarci qualcosa che abbia una sia pur minima attinenza con il soggetto dell’opera. Evabbè, uno potrebbe obiettare che per questo ci sono già le esecuzioni in forma di concerto, senza scomodare (con relativi costi) scenografi, coreografi, costumisti, addetti alle luci (tutti qui distillati, e retribuiti, nel solo… Poda!) e figuranti assortiti e per di più correndo il rischio che lo spettatore, tutto preso a decifrare quegli alati simboli, finisca o per annoiarsi o per perdersi anche quanto di buono c’è nella musica…

Ma, si sa, ai festival tutto è concesso, dalle più grandi trasgressioni alle più comode e ammiccanti paraculate, e qui abbiamo un esempio cumulato dei due approcci (!?)
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Confermata invece l’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico. 

Daniela Barcellona è tornata qui con una prestazione di grande classe, che il pubblico (anche ieri parecchi vuoti in sala…) ha accolto trionfalmente. Forse la voce non ha più la penetrazione di un tempo, ma la nobiltà dell’emissione, il portamento e la sensibilità interpretativa sono sempre da incorniciare.

Anastasia Bartoli non è stata da meno, confermando l’ottima impressione suscitata alla prima. La voce è adamantina, senza sbavature o vetrosità, gli acuti sempre squillanti e gli abbellimenti virtuosistici e le colorature impeccabili. Le due hanno poi strappato applausi a scena aperta nei duetti e nei concertati.

Enea Scala dal vivo mi è parso meno efficace rispetto alla ripresa tecnologica: la voce non sempre passa adeguatamente, gli acuti a volte sono staccati con fatica e gli abbellimenti non proprio impeccabili. Comunque ha ricevuto un interminabile applauso dopo la sua grande aria del primo atto.

Matteo Roma si è pure ben comportato in tutti i suoi interventi, e in particolare nella sua aria (che nell’edizione critica viene escluso sia di Pavesi, ma sospettato possa essere proprio di Rossini…) meritandosi calorosi applausi. Così come Grigory Shkarupa, voce davvero imponente, come la presenza scenica. Applaudi a scena aperta anche per lui dopo l’aria di Pavesi del second’atto.

Applausi e ovazioni anche per il Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, che ha una corposa presenza in quest’opera, nobilitata da una prestazione di alto livello, sia nel complesso, che nelle due sezioni chiamate a sostenere le scene più drammatiche.

Di Jader Bignamini non posso che ripetere tutto il bene possibile. Lui è arrivato più tardi di altri alla ribalta della Direzione, dopo lunga gavetta in orchestra (clarinetto in MIb a laVerdi) ma ormai è lanciatissimo sulla scena internazionale: da Detroit (dove è di casa) al resto del mondo. Anche per lui grande successo, insieme a qfello della prestigiosa OSN-RAI, inclusi i due continuisti Giulio Zappa e Jacopo Muratori (fortepiano e cello).

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Ecco, chiudo così i miei commenti sul cartellone principale di questo ROF. Che però deve ancora terminare: a parte le due ultime recite, ci sarà il gran finale della Petite Messe Solennelle, che ho deciso di seguire da… (non troppo) lontano. 

12 agosto, 2023

Apertura del ROF-44 via radio(-TV)

Partito ieri il clou del 44° Rossini Opera Festival con la prima assoluta (a Pesaro) di Eduardo&Cristina nella nuova (ancora da pubblicare) edizione critica della Fondazione. Lo spettacolo inaugurale è stato trasmesso in diretta da Radio3 e in differita di 75 minuti da RAI5.

L’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico (spero verrà confermata dal vivo…) è decisamente positiva, grazie alla direzione dell’ormai navigatissimo Jader Bignamini, coadiuvato al meglio dalla prestigiosa OSN-RAI e dal Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, da anni compagini stabili del ROF.

Ottima nel suo complesso la compagnia di canto: Daniela Barcellona, davvero una veterana del ROF (vi debuttò nell’ormai lontano 1996!) ha messo tutta la sua esperienza, oltre che la voce sempre solida, al servizio di Eduardo.

Al suo livello Enea Scala (anche lui da quasi tre lustri ospite a Pesaro) che ha ben meritato come Re Carlo: voce sempre ben impostata e squillante e acuti sicuri.

Una piacevole sorpresa (per chi non la conosceva) è venuta da Anastasia Bartoli (figlia d’arte, di mamma Cecilia Gasdia, soprano di valore prima di assumere incarichi… gestionali all’ArenaVR) debuttante al ROF. Voce dal timbro caldo e corposo, in tutta l’estensione, è stata una Cristina quasi perfetta, anche sotto l'aspetto attoriale.

Bene Matteo Roma (dal 2019 ospite al Festival) come Atlei, per il quale l’edizione critica ha scovato un’aria (Da nume sì benefico i miseri mortali) per la scena 5 del primo atto.

Altrettanto dicasi per Grigory Shkarupa (34enne di SanPietroburgo, esordiente al ROF in un cartellone principale) che ha prestato a Giacomo una voce ben tornita e profonda.


Per tutti ampi consensi, a scena aperta e alle uscite finali. 
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Lo spettacolo di Stefano Poda? Aspetto di ragionarci sopra un po’… e poi di vederlo dal vivo prima di esprimere un giudizio più equilibrato. Così d’acchito dovrei coinvolgere uno psichiatra con specializzazione in ossessioni sessuali e disturbi dell’io profondo (!?!)  


08 giugno, 2022

Una Gioconda discreta (ma non più) è tornata al Piermarini

In un teatro non propriamente esaurito ha fatto ieri ritorno dopo 25 anni La Gioconda nella nuova produzione targata Chaslin-Livermore. Dirò subito che ha avuto un’accoglienza tutto sommato positiva (unica vittima dell’unico e isolato buh piovuto dalla seconda galleria il malcapitato Direttore) pur non essendo(mi) parsa di livello eccelso, ecco.

Parto dalla... polpa, cioè da suoni e voci. Intanto segnalando, dopo quella della Yoncheva, anche la defezione del tenore titolare (Sartori) rimpiazzato all’ultimo da Stefano La Colla, che per la verità ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, sul quale però il corpo (cioè la voce...) è incorso in qualche inciampo, soprattutto all’esordio, magari causato dalla comprensibile emozione (anche se per lui non era proprio un esordio in Scala, essendo stato già stato un discreto Ismaele e prima ancora Calaf). Via via si è però rinfrancato ed ha portato a casa la pagnotta.

Saioa Hernandez è stata la trionfatrice della serata. Col tempo meritoriamente migliora (la ricordavo nel ruolo 4 anni fa, con qualche pecca) e la sua vociona è oggi meglio... disciplinata, ecco: per lei lunghi applausi dopo l’aria che apre l’atto conclusivo. Le han dato man forte (nei duetti) le altre due donne del cast: Daniela Barcellona, impeccabile Laura per emissione e portamento; e Anna Maria Chiuri, una Cieca efficace e commovente (cui Livermore ha dato anche più spazio del prescritto, come vedremo).

Degli altri due protagonisti maschi dirò benissimo (e il pubblico ha confermato il giudizio) di Erwin Schrott, praticamente perfetto come Alvise e lungamente applaudito a scena aperta dopo l’aria che apre l’Atto terzo; un filino sotto metterei il navigato Roberto Frontali, che ha forse ecceduto nel caricare negativamente la figura dello spione, con qualche acuto un po’ troppo... ringhiante.  

Tutti onestamente all’altezza del compito i quattro comprimari (Reggi, Valerio, Pittari e Bussolini). Cori (di Alberto Malazzi i grandi e del venerabile Mario Casoni i piccoli) in gran spolvero, meritatamente applauditi a lungo.

Che dire del Kapellmeister? Frédérick Chaslin era (così pare) al suo primo incontro con Gioconda e devo dire che (a parte qualche eccesso bandistico qua e là) ha cercato di scavare - come evidentemente comporta la sua attitudine alla composizione - nei dettagli della partitura per metterne in risalto le tante sfumature e gli aspetti innovativi (che daranno spunti anche a sinfonisti come Mahler). Ne è uscita un’interpretazione (apparentemente?) dimessa e priva di smalto e brillantezza, tanto che il pubblico (a parte l’isolata contestazione) non pare avere apprezzato più di tanto.
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Davide Livermore perde il pelo ma non il vizio (in senso buono, dico) della celluloide: nella breve presentazione del suo Konzept sul programma di sala tira in ballo il Fellini di Casanova e i fumetti veneziani di Moebius. Poi però all’atto pratico il tutto si materializza in... effetti senza cause.

La scenografia (di Giò Forma) prevede nei due atti dispari una struttura cubiforme che racchiude rispettivamente il ponte di Rialto, il Palazzo ducale e la Ca’ d’Oro: struttura che viene fatta via via ruotare di 360° per presentare prospettive diverse (a teatro, a differenza del cinema, la macchina da presa, che è l’occhio dello spettatore, è forzatamente in posizione fissa, così per esplorare il mondo, si fa... girare il mondo). Nei due atti pari abbiamo rispettivamente un onirico brigantino, con stiva trasparente, e... il vuoto desolato del Canal Orfano. Saltuariamente un gigantesca cornice (Venezia è la patria dei dipinti) scende ad incorniciare (appunto) un panorama o più spesso dei tableau vivant o ancora dei video astratti (D-WOK) più o meno appropriati.  

I costumi di Mariana Fracasso sono plausibilmente seicenteschi, con maschere veneziane che toccano l’apice in quella di Laura, recante ai due lati un paio di... corna di bufalo indiano (!) Le luci (Antonio Castro) sono intelligentemente sfruttate per esaltare le scene di festa (Ore incluse) o per incupire quelle di dramma.

Dignitosa la coreografia di Frédéric Olivieri e lodevoli gli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia, protagonisti di un’apprezzabile Danza delle Ore.

Per il resto, movimenti delle masse abbastanza stucchevoli e qualche tocco più o meno gratuito che Livermore si è permesso di inventare, come il fugace incontro fra Enzo e Laura in mezzo alla folla festante a fine del primo atto, o come la presenza di una controfigura della medesima Laura (ufficialmente morta) sdraiata su un lampadario durante il balletto.

Ma è proprio il finale a venire dal regista re-interpretato in modo piuttosto discutibile: la Cieca torna in scena accanto alla figlia e insieme cantano la profezia del rosario; poi, al posto della conclusione dura e verista di Boito (Gioconda che si trafigge e Barnaba che si accusa dell’omicidio della Cieca e fugge imbufalito e imprecante) ecco che allo spione viene recapitata una controfigura rappresentante la salma della cantatrice, mentre la Gioconda in carne ed ossa si riunisce con la madre in... paradiso (?) Insomma, una chiusura consolante che contraddice - pare a me - quella originale.
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In conclusione: uno spettacolo non più che discreto, certamente al di sotto del livello di altre produzioni della stagione in corso. 
 

24 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Petite Messe Solennelle


L’onore di chiudere il ROF-39 è quest’anno toccato alla grandiosa (!) Petite Messe Solennelle. Piazza del Popolo (ci ripasso dopo aver circumnavigato, laggiù in riva al mare, il fontanone - acqua dolce - con la sfera sventrata di Gio’ Pomodoro) alle 20 è già gremita di pubblico in attesa (per nulla religiosa, hahaha) della diffusione su maxi-schermo del concerto conclusivo del Festival, il cui inizio è stato spostato quest’anno dalle 20:30 alle 21. La piccola bomboniera del Teatro Rossini ribolle invece di preziose toilette e rumoreggia negli idiomi più svariati, compreso (ma è quasi un’eccezione) quello italico. Nal palco del sovrintendente prende posto anche un JDF con anulare e mignolo della mano sinistra strettamente imprigionati in una fasciatura rigida: forse un postumo dell’ultimo duello con Ircano (?!)  

La Messa è tornata al ROF dopo l’ultima comparsa nel 2014, allorquando fu diretta dal compianto Alberto Zedda, che con l’occasione presentò anche la sua orchestrazione del Preludio Religioso, che Rossini ha affidato al solo organo. Commentando quell’evento, mi ero permesso di avanzare seri dubbi sull’opportumità di presentare tale orchestrazione: non certo dal punto di vista della fattura, davvero eccellente, ma innanzitutto da quello del rispetto della volontà dell’Autore (visto che qui siamo nella fabbrica delle edizioni critiche...) ma anche da quello della concezione estetica. Per non parlare poi delle stesse argomentazioni addotte dal Maestro per la sua iniziativa, che reputavo e continuo a reputare del tutto inconsistenti e pretestuose. In qualche modo accettabile (secondo me) era stata la proposta di allora, un evento eccezionale nell’ambito di un festival, ma la ritenevo da escludersi come prassi da seguire. 

Orbene, la locandina dell’odierna esecuzione si è premurata di annunciare che il Preludio Religioso sarebbe stato eseguito anche questa volta proprio nella versione orchestrata da Zedda (il che esclude anche l’impiego dell’organo tout-court). Ecco quindi un bell’esempio di perseveranza nell’errore: errore che si può scusare una volta, come omaggio al grande paladino rossiniano, ma che rischia di diventare una colpa (diabolicum, come dice il vecchio adagio...) se reiterato.
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Esecuzione pregevole da parte dell’OSN-RAI, che Giacomo Sagripanti ritovava dopo il Ricciardo&Zoraide, e del Coro del Teatro della Fortuna (Mirca Rosciani) che replicava qui la Petite Messe dopo averla cantata a Roma poco tempo fa: picchi di merito per le colossali fughe di Gloria e Credo.

Alti e bassi per le quattro voci soliste. Sulle quali è spiccata ancora una volta quella di Daniela Barcellona, 22 anni di ROF e alla terza Messa (dopo 2004 e 2007): l’imponente contralto triestino si è presentata sfoggiando un décolleté alla... Jane Mansfield (!) forse come contrappasso a tutti i petti appiattiti cui l’hanno costretta negli anni i suoi personaggi en-travesti. Ma la voce è sempre solidissima e l’espressione (vedasi l’accorato Agnus Dei conclusivo) è davvero impeccabile.

Carmela Remigio, che tornava qui dopo 20 anni e 21 dal suo esordio al ROF proprio nella Messa, ha un po’ stentato all’inizio (non proprio da incorniciare i suoi acuti nel Qui Tollis e nel Crucifixus). Si è però riscattata ampiamente con un O salutaris hostia davvero convincente per purezza di canto ed espressività.

Celso Albelo non ha (alle mie orecchie, perlomeno) particolarmente brillato: il suo Domine Deus ha un po’ mancato di slancio e di profondità.

Senza infamia e senza lode l’esordiente al ROF Nicolas Courjal, forse ancora freddo nell’iniziale Et in terra, ma che ha fatto meglio nell’impegnativo Quoniam tu solus sanctus.
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Alla fine gran trionfo per tutti, con ripetute chiamate per i quattro solisti e i due direttori. Fuori, Piazza del Popolo è ormai... spopolata, e sul grande schermo campeggia già l’arrivederci al ROF-XL (il cui piatto forte sarà una nuova Semiramide della premiata coppia Mariotti-Vick).

21 novembre, 2016

A Torino muore Sansone con tutti i Filistei


Il Regio torinese sta ospitando dal 15/11 una nuova produzione di Samson et Dalila, che arriva a quasi 20 anni di distanza da quella del 1997 del compianto Luca Ronconi. Questa messinscena, collaudata nel 2015 a Pechino (CNCPA) che l’ha co-prodotta insieme al nostro teatro, è firmata da Hugo de Ana, già cimentatosi nell’impresa almeno altre 5 volte (ricordo quella del 2001 al CarloFelice, poi ripresa nel 2002 alla Scala-Arcimboldi).

La coppia protagonista (Daniela BarcellonaGregory Kunde) si ritrova insieme in un’opera francese ambientata sulle rive meridionali del Mediterraneo a più di 4 anni di distanza dall’applaudita apparizione nei berlioz-iani Troyens alla Scala.

E i rapporti fra i due protagonisti del racconto a sfondo biblico qualche vago punto di contatto con quelli del soggetto derivato da Virgilio ce l’hanno: un amore pericoloso, con lui che ne è preso a tenaglia, dilaniato fra il desiderio carnale che lo porta a cercarlo rischiando la pelle i capelli, e il dovere che gli imporrebbe di negarselo; lei (là sinceramente innamorata, qui cinica quanto improbabile ingannatrice: dico, se non ce la fai alla prima, alla seconda e alla terza, come speri di farcela alla quarta? ma lei ce la fa!) che sfodera tutte le sue arti di seduzione per conquistarlo (e qui distruggerlo). E attorno ai due amanti la Natura che si scatena con temporali, uragani, tuoni e lampi!

Tutto ciò avviene nel second’atto, l’unico che rispetti i canoni dell’opera, presentando un paio di duetti (politico: Dalila-Sacerdote e amoroso: Dalila-Samson), chè per il resto abbiamo a che fare con quello che doveva essere in origine un oratorio, zeppo di cori mistici di stampo bachiano se non gregoriano. 

Dei due protagonisti, chi mi ha convinto di più è stato Samson: Kunde (forse perchè non proprio esordiente nel ruolo) ha tenuto botta egregiamente ad una parte ostica, senza mostrare affaticamenti o incertezze. Fin dall’iniziale Arretez! (che sembra anticipare, in sedicesimo, il verdiano Esultate!) ha mostrato la sua proverbiale sicurezza, mantenuta per il resto dell’opera fino al conclusivo SIb acuto che ha fatto tremare e cascare il tempio! La Barcellona mi è parsa un filino contratta, quasi timida, ecco, come una che ancora deve immedesimarsi al meglio in una parte per lei del tutto nuova. Intendiamoci, una prestazione comunque di rispetto, ma senza esaltare.

L’altro co-protagonista, Claudio Sgura (il Gran Sacerdote) ha sfoggiato il suo gran vocione, ma spesso e volentieri lo ha usato per far schiamazzi invece che bel canto: una sufficienza risicata, al mio personalissimo cartellino. Gli altri hanno da cantare poco, ma quel poco lo hanno cantato dignitosamente, in specie Sulkhan Jaiani, nobile figura di vecchio ebreo.

Chi si merita la lode è invece il coro di Claudio Fenoglio, che ha saputo magistralmente sdoppiarsi fra ebrei e filistei, splendido nei corali in pianissimo dei primi e travolgente nelle smaccate esternazioni dei secondi.

Pinchas Steinberg ha condotto egregiamente la collaudatissima compagine orchestrale del Regio, svelando ogni particolare di questa partitura davvero degna di stare alla pari di quelle più famose della produzione francese del secondo ottocento. (Vedi più sotto una sommaria analisi dei contenuti musicali.)
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Vengo all’allestimento di Hugo de Ana. Come al solito sovrabbondante, quasi esagerato nelle scene, non per niente qualcuno lo apostrofa come tardo-zeffirelliano... Enormi portoni di tempio, grandi strutture grigio-argentee (primo atto); due giganteschi lampadari appoggiati al pavimento ed altrettanto enormi velari (la casa di Dalila) e ancora opprimenti strutture con pesanti decorazioni (atto terzo). In ogni caso, una lettura assolutamente rigorosa (questo è sempre un suo merito) che non ha preteso di proporre chissà quali significati reconditi o improbabili ambientazioni nell’attualità.

Un esempio concreto ne è la presentazione del baccanale, dove nulla è stato lasciato all’immaginazione, senza peraltro mai scadere nel volgare o nel disturbante. È vero, c’erano in scena frotte di ragazzi e ragazze completamente (e apparentemente) nudi in atteggiamenti piuttosto espliciti, ma un baccanale non è il balletto dei piccoli cigni di Ciajkovski, nè un happening di smidollati in discoteca, ecco...  A proposito di nudi maschili, si notava chiaramente (dall’elastico che gli cingeva i fianchi, entrando tra le... ehm... chiappe) come avessero comunque addosso un capo di abbigliamento, che però lasciava chiaramente in mostra proprio le forme dell’organo genitale, e che forme, accipicchia! Ora, mi par difficile pensare che de Ana (che qui è pure costumista) abbia fatto confezionare degli appositi baccelli per pisello... sono portato invece ad immaginare che abbia voluto intelligentemente mettere in evidenza che in quella scena si celebra un rito della fertilità e allora – avete presente Priapo e il suo... coso? – si sia procurato appositamente delle protesi di robuste dimensioni da far indossare ai danzatori! Sufficientemente sobria e senza esagerazioni cruente anche la successiva scena del sacrificio umano.

Curata anche la parte attoriale e i movimenti dei cori, così come i costumi (tetri per gli ebrei e sgargianti per i filistei). Efficaci le luci di Vinicio Cheli, a sottolineare le scene cupe e poi quella solare dell’ultimo atto. Meno apprezzabili le immagini di Sergio Metalli proiettate sulla zanzariera.

Ma in complesso uno spettacolo godibilissimo, accolto come sempre con calore dal come sempre foltissimo pubblico.             
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Ora propongo una specie di bigino della componente musicale, più che altro per sottolinearne alcune caratteristiche di fondo, a partire dall’impiego piuttosto esteso dei Leit-motive. Non siamo proprio al Wagner più spinto, ma la tecnica dei motivi ricorrenti viene usata con grande cura e con la massima efficacia: nella scelta del loro contenuto musicale, come nell’appropriatezza delle loro riapparizioni.
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Come detto, un ruolo fondamentale nell’opera lo ha il coro, rigorosamente diviso (la par-condicio!) fra gli sbifidi filistei e gli ebrei, vessati da costoro, ma anche abbandonati dal loro Dio un filino... arrabbiato per la loro fede non proprio incrollabile. Sono questi ultimi ad occupare la prima parte dell’atto iniziale, facendo udire la loro lunga implorazione (Dieu! Dieu d’Israël!) di lontano, dopo 31 battute di lamentoso preludio in SI minore, quando ancora il sipario dovrebbe restare chiuso. Poco prima dell’alzarsi della tela (Un jour, de nous tu détournas ta face) le donne espongono un tema che tornerà spesso a farsi udire, a mo’ di Leit-motiv: esprime lo stato di prostrazione del popolo di Israele, cui Dio ha voltato le spalle:


Il sipario si alza e il motivo viene poco dopo ripreso con energia, a canone largo da tutto il coro (nell’ordine bassi, tenori, contralti e soprani) per tornare ancora a spegnersi, determinando la reazione di Samson, che dopo una prima modulazione dell’orchestra a SOL maggiore, con un’altra brusca sterzata a MIb sferza i suoi (Arrêtez, ô mes frères!) invitandoli ad onorare il Dio che saprà perdonarli e liberarli. Il corno espone qui un nuovo, fondamentale motivo, che rappresenta la speranza di Israele:

Ma gli ebrei sono sfiduciati e il SI minore torna insieme alla loro prostrazione e rassegnazione (Hélas! paroles vaines!) Samson però non si dà per vinto, e dopo un battagliero passaggio in SIb maggiore (L’as-tu donc oublié) cui risponde un ennesimo scetticismo del popolo, torna al MIb, introdotto grandiosamente in orchestra dal tema della speranza, con un accorato cantabile (Implorons à genoux) dal piglio davvero eroico:


L’appello (C’est le Dieu des combats!) sul tema della speranza ottiene il miracoloso effetto di scuotere i suoi, facendo rinascere in loro la fiducia in Dio e in se stessi, e così la speranza si alza adesso (Ah! le souffle du Seigneur) a piena voce nel coro. Un fugace passaggio in REb, poi il ritorno al MIb maggiore chiude questa prima scena con il tripudio degli ebrei, pronti a riprendersi la perduta libertà.

Tocca ora all’aguzzino filisteo aprire la seconda scena, su un brusco accordo orchestrale che ci porta dal MIb alla relativa DO minore, che sostiene un nuovo motivo, nei contrabbassi, evocante la brutalità dei filistei:

É il satrapo Abimelech che si fa avanti per spegnere gli ardori degli schiavi ebrei, e prima delle sue parole sprezzanti (Qui donc élève ici la voix?) si ode negli strumentini, sfociante anche nei corni, il tema - subdolamente melenso - della perfidia dei filistei:



Dunque, Abimelech si imbarca in un vero e proprio predicozzo offensivo verso gli ebrei e il loro Dio che non sa nemmeno aiutarli. La sua noiosa cantilena (Ce Dieu que votre voix implore) in MIb minore, è inframmezzata da spiritati interventi degli strumentini dal sapore orientaleggiante e si conclude con un panegirico a Dagon, la divinità adorata dai filistei, di fronte alla quale il Dio di Israele fugge come una colomba inseguita da un avvoltoio! 

Il che provoca la reazione di Samson (C’est toi que sa bouche invective) introdotta dalla comparsa di un nuovo tema principale, quello della rivolta, evocante la decisione degli ebrei di ribellarsi alle angherie dei filistei:


E un altro tema (la vittoria) compare nei tromboni, in quattro ondate successive, a sostenere la fede incrollabile di Samson (Je vois aux mains des anges):

Quindi è la rivolta ad accompagnare (Enfin l’heure est venue) la certezza di Samson e del suo popolo nella liberazione dalla schiavitù. La tonalità vira a SIb maggiore quando Samson (Israël! romps ta chaîne!) lancia i suoi in una specie di marcia trionfale, che sviluppa ulteriormente il tema della rivolta, sottolineato da inebrianti cascate di semicrome di fiati e violini. Su un richiamo di Samson (Oui, devant sa colère) compare nelle viole il tema della collera divina:


Al culmine del coro ebraico (Israël, lève toi!) Abimelech perde la pazienza e si slancia su Samson per toglierlo di mezzo, ma l’eroe ebreo gli strappa la spada e lo fa secco all’istante! L’orchestra ne accompagna la morte con una specie di sberleffo (semicrome in staccato) di tono orientaleggiante, una discesa che sfocia in un SIb grave degli archi.  

La terza scena si apre con il tema della rivolta che lentamente se ne va, nei fiati, accompagnando gli ebrei che si allontanano (per prendersi la meritata vendetta) mentre è il Gran Sacerdote che esce dal tempio e constata esterrefatto la morte del satrapo (gli archi bassi reiterano una variante beffarda del tema della vittoria). Alcuni filistei si mostrano terrorizzati dalla inaspettata reazione degli schiavi, altri (quarta scena, modulazione a FA minore) arrivano con notizie disastrose riguardo le razzie che gli ebrei stanno compiendo e propongono di fuggire dalle loro stesse terre. A questo punto il Gran Sacerdote lancia la sua tremenda maledizione (Maudite à jamais soit la race) contro il popolo ebraico:

É una specie di aria in due strofe, cui segue il coro dei filistei che decidono di andarsene sui monti per sfuggire la vendetta degli ebrei. Al Gran sacerdote non rimane che lanciare un’ultima maledizione.

La quinta scena vede il ritorno degli ebrei guidati da Samson e la tonalità trascolora dal cupo FA minore della scena precedente ad un pastorale FA maggiore: archi e fiati si danno il cambio nell’esporre un motivo che sale lentamente da tonica a mediante all’ottava superiore, poi dalla mediante alla dominante dell’ottava sopra. Sono i vecchi che ringraziano Dio (Hymne de joie, hymne de délivrance) per averli liberati. Uno di loro confessa come il popolo ebreo abbia sfidato la legge di Dio, e perciò fu punito. Ma adesso - ed ecco il tema della speranza (in un momentaneo SIb) accompagnare la sua perorazione (Je suis le Seigneur des armées) – egli proclama che Dio alla fine è venuto in soccorso del suo popolo. Il canto degli ebrei si perde in lontananza, e il FA che lo aveva sostenuto degrada negli archi di un semitono, mutando nella dominante di LA maggiore.

In questa tonalità luminosa e danzante (così Wagner definì la settima di Beethoven, incardinata appunto sul LA) ecco arrivare le donne filistee, Dalila inclusa, per festeggiare la primavera che ispira amore e – questo vale però solo per Dalila – per adulare il prode Samson (che dovremmo sapere dalla Bibbia che già aveva conosciuto - in senso appunto biblico! - quella gran gnocca della sacerdotessa filistea). Qui sarebbe da aprire una... parente (Totò) sui trascorsi dei due protagonisti, che pare fossero amanti ormai incalliti, il che confermerebbe la scarsa plausibilità dei tentativi della donna di strappare all’energumeno ebreo, dopo tanti infruttuosi tentativi, il segreto della sua forza; ma... soprassediamo.

Per goderci questa mirabile oasi di lirismo che pervade l’ultima scena dell’atto primo, con le giovani filistee che intonano una melodia serena e... afrodisiaca:


Viene ripetuta su una seconda strofa, mentre i primi violini, successivamente a più riprese i flauti, la imitano velocizzandola con scorrevoli semicrome, finchè canta Dalila: mentre pochi dubbi esistevano sulla sincerità del canto delle ragazze, subito qui ci si domanda (conoscendo i precedenti) quanto ci sia di spontaneo e quanto invece di carognesco in quello della Sacerdotessa (Je viens célébrer la victoire) che in effetti manipola subdolamente (e cromaticamente) la melodia. E non a caso Samson, rimasto nei pressi, ne rimane ammaliato e disturbato allo stesso tempo (O, Dieu! toi qui vois ma faiblesse) presentendo tutto il pericolo potenzialmente insito nelle lusinghe della filistea.

Qui abbiamo l’intervento di un vecchio ebreo, che si può lontanamente assimilare alla Brangäne che nel second’atto del Tristan ammonisce Isolde sul pericolo della sua infatuazione per l’eroe di Kareol: assistiamo quindi ad una specie di terzetto, chiuso dagli svolazzi del flauto sul tema delle filistee

Siamo ancora nel primo atto, ma Saint-Saëns non esita a infilare già qui un balletto. (Naturalmente ne sarà previsto un altro, ben più corposo e... peccaminoso, da eseguirsi all’ora di arrivo dei ragazzacci del Jockey-Club! Qui siamo ancora in un collegio di educande... poi invece ci sarà, per gli intenditori, un sapido baccanale.) Ma andiamo con ordine: le fanciulle filistee danzano su un innocente motivo (in LA minore) che presenta solo qualche sfumatura di carattere orientaleggiante:


Dopodichè Dalila porta il suo affondo: intonando l’aria, o la canzone in effetti, della primavera:


E naturalmente la tonalità modula con gentilezza da LA a MI maggiore, scolastica ambientazione di scenari celestiali: quel salto di nona all’insù su espérance è poi un chiaro contraltare, languido ed insinuante, alla speranza degli ebrei e quindi di Samson, tutta intrisa di battagliero furore... Il vegliardo ebreo (L’esprit du mal a conduit cette femme) mette ancora in guardia Samson (e in orchestra serpeggia il tema della perfidia dei filistei) da quella donna falsa e ammaliatrice, ma Dalila gioca tutte le sue carte, e subito intona (Chassant ma tristesse) un tema irresistibile, della sua seduzione, anticipato dai violini:
Ancora il tema della primavera e quello del canto delle filistee accompagnano Dalila che si allontana verso il tempio, ormai certa che Samson la seguirà alla sua dimora: non per nulla è il motivo della perfidia, ammantato di beatitudine, che chiude l’atto.
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Il secondo atto (che vagamente richiama quello del Tristan) ci presenta la classica scena d’amore, preceduta dall’incontro di Dalila con il Gran Sacerdote, che serve soprattutto a chiarirci i precedenti rapporti intercorsi fra Dalila e Samson e toglierci ogni residuo dubbio sul cinismo che anima la sacerdotessa riguardo al suo legame con l’ebreo.

Il breve Preludio si apre con il tema della collera divina che serpeggia negli archi, con i fiati a proporre accordi che portano alla tonalità di FA maggiore sulla quale, preceduto da svolazzi di clarinetti, si ode nei flauti un nuovo motivo, che tornerà più avanti, e che evoca un temporale:

L’atmosfera è in effetti piuttosto agitata, come l’animo di Dalila, in ansiosa attesa dell’arrivo di Samson, vittima predestinata della sua vendetta. Ancora il tema della collera negli archi e poi quello della perfidia nella viola accompagnano il recitativo in cui manifesta le sue intenzioni. Modulando a LAb, violini e viole espongono un motivo che rappresenta l’invocazione all’amore:

Ed è invocando l’amore (Amour! viens aider ma faiblesse!) che Dalila intona la sua aria bipartita, che nasconde sotto una superficie di dolcezza e sentimento il disegno carognesco della donna: distruggere Samson:

E prima della ripresa, sulle parole di sfida (je le brave) ecco una repentina discesa dal SOL sopra il rigo al SIb sotto, proprio a sottolineare la cinica determinazione della donna. Al termine dell’aria riecco negli archi la collera divina e poi un nuovo motivo nell’ottavino e nel flauto che evoca lampi lontani (lo risentiremo al momento dello scatenarsi del temporale):



Per ora ciò che sta arrivando è un personaggio conosciuto: il Gran Sacerdote, preceduto negli archi bassi dall’inconfondibile tema della sua maledizione. Dopo brevi convenevoli di rito, ecco il duetto (in DO minore) fra i due, aperto dal religioso che non fa che ripetere (Notre sort t’est connu) a Dalila notizie arcinote riguardo la pessima piega che le cose hanno preso per i filistei, schiacciati dagli ebrei aizzati da Samson, il quale sembra inossidabile alle lusinghe amorose della sacerdotessa. La tonalità vira bruscamente a SI maggiore e lei risponde convinta delle sue capacità di plagio, e sulle parole Samson, malgré lui-même, combat et lutte en vain, si ode reiteratamente nei violini il tema della seduzione, con la quale Didone è sicura di poter finalmente buggerare l’ebreo.

Il Gran Sacerdote (ah, le chiese secolari!) la mette subito sul monetario (intanto degradando la tonalità dal severo SI al prosaico LAb) e promette a Dalila metà delle sue ricchezze in cambio di Samson! Ma lei è al di sopra di certe... bassezze e così (Qu’importe à Dalila ton or!) gli chiarisce seduta stante il movente delle sue azioni: la vendetta

Il Gran Sacerdote resta scettico, e ricorda che lei già in passato aveva tentato di carpire a Samson il suo segreto, ma sempre lui l’aveva giocata. Dalila (Oui, déjà, par trois fois déguisant mon projet) ammette di aver effettivamente fatto ben tre tentativi per plagiare l’ebreo, ma questa – lei ne è certa – sarà la volta buona! Tutta la sua successiva esternazione è caratterizzata da continue ricomparse del tema della vendetta, e ciò convince il Gran Sacerdote (Tu combats pour sa gloire et par lui tu vaincras!) delle buone ragioni di Dalila.

Ora inizia la parte finale del duetto (la tonalità è la relativa di LAb, FA minore) e i due pregustano la caduta di Samson come mezzo per placare il loro odio e avere finalmente la loro rivincita su di lui (Il faut, pour assouvir ma haine):


È un passaggio truculento, nel quale Dalila non si nega persino una coloratura rossiniana (Ah! Il courbe le front à son tour!) e che chiude con l’invocazione alla morte dell’ebreo. Il Gran Sacerdote si allontana, ma promette – in un recitativo - di restare con i suoi lì nei pressi, pronto ad intervenire al momento opportuno. Modulando a FA maggiore, sono i temi dell’invocazione all’amore (violini II e violoncelli) poi della vendetta (contrabbassi) della maledizione (violoncelli) e della collera divina (archi) ad accompagnarne l’uscita di scena, mentre Dalila ancora è incerta sull’arrivo di Samson, appoggiata ad una colonna della sua abitazione, con il temporale che si fa sentire in lontananza.

E Samson, puntuale come un orologio... francese arriva in quei paraggi, preceduto da un motivo (il desiderio peccaminoso) che ne evoca perfettamente lo stato d’animo turbato:


Samson desidera Dalila, ma è ben conscio di tradire con ciò la sua fede: forse pensa di poter ancora sfidare il destino, di poter soddisfare gli istinti della carne senza pagare un prezzo eccessivo, come gli era riuscito in passato, ma di sicuro il suo subconscio avverte il pericolo rappresentato da quella donna dalla quale era stato pur messo in guardia dagli anziani del suo popolo. E i temi dei lampi (strumentini) e della collera divina (archi) nulla di buono fanno in effetti presagire.   

Ai dubbi e ai rimorsi che Samson esprime nel suo recitativo d’esordio, culminante in un’autentica imprecazione (Fuyons, fuyons ces lieux que ma faiblesse adore!) risponde Dalila accogliendolo (C’est toi! C’est toi, mon bien aimé!) in un’atmosfera che si è fatta immediatamente idilliaca (modulazione a LA maggiore).

Inizia qui il grande duetto che caratterizza questo second’atto. Samson cerca di bloccare Dalila (Arrêtes ces transports!): è il desiderio peccaminoso (prima sezione nelle viole, poi seconda nei violini) che lo riempie di rimorsi; ma lei, mentre si modula a SIb maggiore, comincia a tessere la sua tela (Samson! ô toi! mon bien aimé) con una melodia accattivante, dal sapore dolciastro, che introduce poco dopo (Pourquoi, de mon front parfumé) un nuovo motivo (della persuasione) che si sviluppa in pieno quando lei risponde ai dubbi di Samson (Près de moi pourquoi ces alarmes?):


Samson (Hélas! esclave de mon Dieu) cerca ancora di resistere e qui si manifesta tutta la dissociazione che invade il suo animo, dilaniato fra l’attrazione amorosa e il dovere supremo:


La tonalità è passata in minore (SIb) ma ecco che, sull’invocazione D’Israël renaît l’espérance! è il tema della speranza che esplode in un grandioso corale degli ottoni, in MIb. Samson ora si esalta (tornando a SIb) ricordando il richiamo che il Signore gli ha rivolto: riporta il tuo popolo a me e poni fine alle sue miserie! E un poderoso accordo di MIb suggella questa accorata perorazione.

Dalila sembra per un attimo (o finge di essere) delusa e rassegnata a perdere il suo amore, e lo fa cantando (Qu’importe à mon coeur désolé) in modo minore (SI) il motivo della sua persuasione (!) Lei rinfaccia senza mezzi termini a Samson la sua infedeltà e, in sostanza, lo accusa di usare con lei un approccio usa&getta. E questo atteggiamento comincia ad ottenere l’effetto desiderato: Samson confessa il tremendo squilibrio che alberga nel suo animo, diviso fra amore e dovere, ed alla fine cede: Dalila! Dalila! Je t’aime! Ottavino e flauti fanno balenare lampi per ora lontani.

Dalila affonda il coltello nella piaga: c’è un dio più potente del tuo, è quello che muove i miei sentimenti, è l’amore! Lo fa cantando (Un dieu plus puissant que le tien) su una variante (in SI maggiore, un semitono sopra il normale!) del motivo della persuasione, mentre si odono anche i temi della primavera (strumentini) e poi dell’invocazione all’amore (oboe e violino) che introduce (Que tu devais aimer toujours) il tema della seduzione! Insomma, Dalila sta mettendo in campo tutto il suo armamentario... tematico per far crollare Samson. Il quale si sente offeso e le risponde (Quand pour toi tout parle à mon âme!) sul tema della sua dissociazione, mentre la collera divina e lampi sempre più vicini incombono sulla scena, che viene però rasserenata da dolci accordi degli archi, sui quali Samson ribadisce: Dalila! Dalila! Je t’aime!  

La tonalità vira a REb maggiore e Dalila ha ormai una prateria davanti a sè; così dispiega il suo canto ammaliatore (Mon coeur s’ouvre à ta voix):

Canto che raggiunge il suo culmine sull’esposizione dei due seducenti appelli: Ah! réponds à ma tendresse! e poi Verse-moi, verse-moi l’ivresse! sostenuti dalle due sezioni del tema dell’amore:
Al povero Samson non resta che esalare un nuovo Dalila! Dalila! Je t’aime! Ecco ora la ripetizione dell’ultima strofa, che presenta come principali varianti l’apparizione reiterata, nei legni, del tema del temporale (qui per la verità assai benigno) e l’intervento di Samson che è ormai cotto a puntino e chiude con l’ennesimo Dalila! Dalila! Je t’aime! dove va a toccare la sesta su un SIb acuto da cantarsi piano (pare Verdi...)

Adesso Dalila comincia la sua opera di demolizione: mentre l’atmosfera si arroventa con il tema della collera che invade gli archi e la tonalità vira a DO minore, lei spudoratamente (Mais! non! que dis-je, hélas!) accusa Samson di manifestarle sentimenti falsi e ipocriti, così lui è costretto (LAb maggiore) a difendersi (Quand pour toi j’ose oublier Dieu) affermando di aver rinunciato per lei ai suoi doveri verso il popolo (si ode, tracotante nei tromboni, il tema della vittoria): lui, che era stato scelto dalla potenza divina! Dalila, tornando al REb del suo amore introdotto però nei violini da quello della perfidia (!) chiede a Samson (Eh bien! connais donc mon amour!) la prova suprema del suo amore: rivelargli il segreto della sua forza. La seconda sezione del tema dell’amore pervade ormai tutto il suo canto, in un crescendo implacabile che porta Samson all’esasperazione.

Il duetto è ormai sfociato in uno scontro aperto, che va di pari passo con l’avvicinarsi sempre più minaccioso del temporale e il balenare continuo di lampi. Samson è letteralmente dilaniato dalla dissociazione della sua psiche che condiziona il suo agire. La perfidia invece serve a Dalila per cercare di raggiungere l’obiettivo, minacciando addirittura un suicidio. Samson cerca ancora di resistere, vede nella tempesta incombente il potere divino, ma Dalila quel potere lo sfida sfacciatamente e ora gioca la carta estrema: su un SIb acuto (Lâche!) lo sputtana come un essere senza amore, e gli volta le spalle, andandosene verso casa, accompagnata dall’esplosione del tema della perfidia, sul sottofondo della collera divina e dei lampi che guizzano da ogni parte.

Samson esita ancora, ma gli archi a noi raccontano inequivocabilmente che il suo desiderio peccaminoso alla fine trionfa: e lui si slancia sulle orme di Dalila. I filistei con il Gran Sacerdote sono lì in agguato e il tema della maledizione ce lo testimonia, comparendo pianissimo negli archi bassi, poi in viole e strumentini. Poco dopo lo contrappunta il tema dei filistei, e quindi, dopo un ennesimo lampo e un colossale tuono (tamtam e grancassa) il tremolo degli archi accompagna il richiamo di Dalila ai suoi ad intervenire: A Samson non resta che un urlo, sul SIb acuto: tradimento! E in SIb minore si chiude l’atto, con una sequenza che parte dal tema dell’amore, letteralmente incarognito, prosegue con quattro comparse del tema della perfidia e finalmente da una scarica di lampi che porta allo schianto finale.
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L’atto terzo si apre con una breve introduzione strumentale che richiama vagamente quella del corrispondente atto del Tristan (qui SOL minore, là FA minore). La cosa non è per nulla fuori luogo, considerando l’analogia di scenario psico-fisico dei due protagonisti: fisicamente malconci e psicologicamente distrutti:

 
Le ripetitive quartine di semicrome ascendenti e ondeggianti negli archi alti evocano il succedersi dei passi pesanti di Samson, rapato e pure cieco, imprigionato e costretto a spingere la ruota di una macina (e possiamo immaginare la sua fatica, datosi che il taglio di capelli cui è stato sottoposto gli deve aver azzerato ogni sua miracolosa forza...) I legni, con settime discendenti, sembrano evocare i lamenti di Samson, ma subito appare in orchestra (oboe e corno) anche il tema della prostrazione di Israele, concentrato qui sul suo eroe purtroppo decaduto! Particolarmente espressivo è l’intervento del corno inglese (anche qui Wagner ha fatto scuola) a sottolineare la miseria dello scenario.

La prima scena si trascina su un continuo botta-e-risposta fra Samson e gli altri ebrei che (nascosti dietro le quinte, all’esterno della prigione) gli chiedono conto delle sue azioni: è una specie di dialogo-fra sordi, con Samson che con le sue lamentazioni chiede perdono a Dio e lo implora di non abbandonare il suo popolo, e il popolo medesimo che se la prende con il suo ex-eroe, trasformatosi ai suoi occhi in traditore per un piatto di... filistee!

Dopo che oboe fagotto hanno riproposto la prostrazione, arrivano appunto i filistei e trascinano con loro Samson: scopriremo presto dove lo hanno portato. Un breve intermezzo strumentale (aggiunto in un secondo tempo dall’Autore) serve a dare qualche istante di più al cambio di scena, ma soprattutto ci ripropone alcuni temi già ascoltati: dapprima la primavera (in MIb, poi in MI) intrecciata con la perfidia (subdolamente addolcita) e seguita dalla seduzione.  

La seconda scena si apre nel tempio del dio Dagon dove – è l’alba - ritroviamo il Gran Sacerdote e Dalila, pronti ad officiare una celebrazione in suo onore, a cospetto del popolo. Qui viene riproposta, sempre nella tonalità di LA maggiore, come era apparsa nel primo atto, la canzone delle giovani filistee, ora cantata però anche dai maschi, le cui parole (L’aube qui blanchit déjà les coteaux) invitano tutti a prolungare gli amori notturni, mentre l’orizzonte si arrossa e la terra si indora ai raggi del sole. Chiuso il canto, un LA tenuto dell’oboe sfocia in un recitativo di sapore chiaramente orientaleggiante, che apre la strada al famoso baccanale (semplicemente e più pudicamente: una danza, reca la partitura definitiva). Un chiaro omaggio alla tradizione ed alle regole dei teatri parigini (Opéra, ma non solo) è strutturato su tre temi principali, due in tonalità (parlandone in termini di musica occidentale) di RE e LA minore, e uno (una specie di trio) in DO maggiore:


Chiusa la parentesi godereccia, si apre la terza scena con l’arrivo al tempio di Samson, guidato da un ragazzino. Perchè lo hanno trascinato lì? Solo e semplicemente per beffarsi di lui, umiliarlo e umiliare così quel Dio che gli aveva dato tutta quella forza di cui ora una donna filistea ha saputo privarlo. In modo strafottente, il Gran Sacerdote saluta Samson, mentre i violini lo accompagnano con il tema della sua maledizione, qui portato in modo maggiore, MIb (chè pare aver proprio funzionato!) Poi, mentre si alza il tema della perfidia, invita Dalila ad offrire da bere al nemico sconfitto, imitato dai filistei (Samson! nous buvons avec toi!) che bevono alla salute dell’ebreo. Samson, modulando alla relativa DO minore, non può che rimettersi al volere di Dio (L’âme triste jusqu’à la mort) accada ciò che lui decide.

Qui il DO minore diventa maggiore e udiamo, come un allegro sberleffo, il tema dell’amore saltabeccare negli strumentini, mentre su di esso Dalila si esibisce in una carognesca serenata (Laisse-moi prendre ta main) ricordando a Samson i bei momenti passati insieme, mentre si ode il tema dell’invocazione all’amore e poi, sul ricordo delle passeggiate fra i monti (Tu gravissais les montagnes) ecco il tema del desiderio peccaminoso affacciarsi in violini e viole, mentre i legni ricordano allegramente la primavera! Ancora l’amore si impadronisce della scena mentre Dalila invita Samson a ricordare ebbrezze e carezze... Quell’amore che a lei è servito però per consumare la sua vendetta. E il coro dei filistei si unisce alle parole di vendetta di dio, popolo e odio!

Samson è distrutto, incapace di reazione anche di fronte a simili carognate: modulando a FA minore, sa solo compiangersi (Quand tu parlais, je restais sourd) per la sua dabbenaggine e la sua debolezza. Il Gran Sacerdote gli sta però preparando una nuova provocazione: tornato a DO (e poi a FA) maggiore, sul tema trionfante della sua maledizione, gli chiede beffardo: caro Samson, prova ad invocare il tuo Dio per farti riavere la vista; dovesse succedere, sarò il primo a convertirmi... ma siccome tanto non succede, ecco: io lo posso tranquillamente oltraggiare e sbeffeggiare! E allora Samson comincia a... non vederci più (!) Sul ribollire negli archi della collera divina, chiede a Dio se permetta simili atrocità (Tu permets, ô Dieu d’Israël!) e poi (Que ne puis-je venger ta gloire) implora un’ultima grazia, riacquistare per un solo momento a forza per poter opporsi agli infedeli, mentre il tema della speranza si ode negli ottoni a contrappuntare quello della rivolta, nei violini, strumenti che subito si scambiano fra loro i due temi.

I filistei accolgono il suo appello con risa sguaiate e sbeffeggiano la sua collera cantando un contrappunto bestiale (proprio da oratorio) e irridendo alla sua cecità. Ora il Gran Sacerdote invita Dalila a compiere il rito di devozione a Dagon, una libagione con versamento di vino sul fuoco sacro, seguita da sacrifici umani. Passando da REb, per enarmonia a DO# si modula a LA maggiore (Versons pour lui le vin des sacrifices) e quindi a SI maggiore, dove assistiamo al rito del versamento del vino, accompagnato dal motivo del culto di Dagon:

Come si nota, un motivo spiritato, che ben si addice ad una divinità pagana alimentata con... vino! Dalila e il Gran Sacerdote (Gloire à Dagon vainqueur!) cantano a contrappunto l’inno al loro dio, su una melodia che pare addirittura ricordare il finale della nona beethoveniana! Poi il coro dei filistei (Marqué d’un signe nos longs troupeaux) prega per avere abbondanti messi e mandrie numerose, quindi c’è un susseguirsi piuttosto lungo (e francamente ripetitivo) di interventi alternati dei due officianti e del coro, fino all’invocazione Dagon se révèle!, che dà inizio alla danza pagana, che dovrebbe ottenere la discesa sulla terra del grande dio Dagon:


Nessun Dagon scende giù, così il Gran Sacerdote – mentre le danze sono momentaneamente sospese - si rivolge a Samson invitandolo alla libagione propiziatoria. Samson (modulazione a MIb maggiore) invoca ancora Dio (Seigneur, inspire-moi, ne m’abandonne pas!) e si fa condurre al centro del tempio, proprio fra le due colonne portanti. Una breve transizione in SOL maggiore sul culto di Dagon ci riporta al SI maggiore della danza pagana, che riprende in modo a dir poco forsennato con il ritorno del grido Dagon se révèle!, urlato dai filistei. Cui si aggiungono Dalila e il Gran Sacerdote per la perorazione finale (Que la victoire suive nos pas! Gloire à Dagon! Gloire! Gloire! Gloire!) che però non si chiude in gloria, ma sfuma bruscamente su... Samson, come ci testimonia la comparsa (in MIb) del tema della rivolta, nei violini, seguito da quello della vittoria, negli ottoni.  

Samson (Souviens-toi de ton serviteur!) esterna la sua ultima implorazione a Dio, sostenuta ancora da reiterate comparse dei temi della vittoria e della rivolta (questo adesso nella tromba). Sull’ultimo verso (En les écrasant en ce lieu!) Samson chiude su un SIb acuto, proprio mentre le colonne si aprono sulla spinta delle sue braccia e il tempio crolla travolgendo tutti.