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06 ottobre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°3


Torna a calcare il podio dell’Auditorium il texano, ormai trapiantato in Europa (ora factotum alla ROSS di Siviglia) John Axelrod, che propone opere giovanili dei due giganti del tardoromanticismo, precedute da un’opera matura che viene dal sollevante ma che con le altre due (e i relativi autori) ha parecchio in comune, compresi – per la seconda - i drammatici eventi che funestarono gli anni precedenti la metà del secolo scorso.

Il filo conduttore del concerto, che è anche quello di ciascuno dei tre brani in programma, si può individuare come il cammino che porta dalla vita alla morte, e da qui alla resurrezione, o trasfigurazione. Programma che non pare abbia avuto particolare attrattiva sul pubblico, a giudicare dalle molte poltrone vuote (ma gli scettici hanno ancora due chance per rimediare...)

Per Mahler questo fu il programma interno di quasi tutte le sue sinfonie: nella prima si passa dai sogni di gioventù alla marcia funebre e da qui al trionfo finale; nella seconda è la marcia funebre che si presenta subito per poi lasciar spazio a ricordi, sereni o grotteschi, e sfociare precisamente nell’Auferstehung; nella terza c’è tutto un lunghissimo percorso che parte dalla materia inanimata e arriva all’uomo, peccati compresi, per raggiungere infine l’estatica contemplazione divina; la quarta apre su scorci agrodolci di vita, poi incontra per strada la morte (con tanto di violino scordato) e quindi si trasfigura fino a salire in un fanciullesco paradiso; la quinta attacca con non una, ma due marce funebri (o giù di lì) quindi con un poco raccomandabile scherzo, per poi ritrovare serenità, in vista di un trionfalistico epilogo; la settima ne segue le orme, passando da atmosfere sinistre a notturni incantamenti, inframmezzati da danze di streghe, prima di chiudere con esilarante gaiezza; la sesta e l’ottava fanno dovuta eccezione alla regola, collocandosi ai due antipodi, un quasi-nichilismo e una messa cantata; la nona ripercorre il ciclo dei ricordi, della vita con alti-e-bassi, con squarci di gaiezza e spettrali intermezzi, fino al raggiungimento di una serena rassegnazione e al perdersi in un silenzio eterno ed infinito.

Per Strauss siamo di fronte ad un autentico testa-coda: a 25 anni compone il suo terzo Tondichtung evocando immagini di sofferenza preagonica, ma con irruzione di un ideale rincorso vanamente per un’intera vita, ideale che si completa e si raggiunge finalmente solo dopo che il corpo ha esalato l’ultimo respiro; praticamente 60 anni dopo, sulle soglie dell’estremo trapasso, Strauss se ne ricorderà nell’ultimo dei suoi 4 ultimi Lieder, il cui titolo (Al tramonto) e il cui ultimo verso (É questa forse la morte?) mirabilmente dipingono l’attesa, ma anche la serena preparazione del momento a cui nessun essere vivente può sfuggire; e pochi mesi prima, giusto al termine di quella guerra che ne aveva distrutto gli ideali perseguiti per tutta una vita (ideali guglielmini, certo, ma sequestrati poi dal nazismo) Strauss aveva composto una specie di De-profundis per 23 archi solisti.

Ad eventi di quella stessa tragica guerra ci rimanda il primo brano in programma, del nipponico Tōru Takemitsu (del quale avevamo ascoltato anni fa un’altra opera non disprezzabile, Marginalia) che nel 1989 compose la colonna sonora del film Kuroi ame (qui la breve introduzione) letteralmente Pioggia nera (quella del fungo atomico di Hiroshima, soggetto del film): musica per soli archi, poi riarrangiata nel 1996, poco prima della scomparsa dell’Autore, e pubblicata con il titolo Morte e Resurrezione.     

Per la verità, a differenza di quanto si ascolta in Strauss e Mahler, dove il contrasto tra morte e trionfo (o trasfigurazione) è netto e inconfondibile, qui siamo in presenza di una reiterazione di momenti che evocano dolori lancinanti (esasperato cromatismo e atmosfere decisamente dissonanti) e di momenti di relativo sollievo, come quello che appare per la prima volta a 3’02” e che ricorda proprio il Mahler della Quinta (primo tema della Trauermarsch, che rimanda a sua volta allo Schumann della Romanza della Quarta...) La Resurrezione – almeno come la si intende qui da noi, con pompa ed enfasi - si fatica assai a decifrarla: l’opera si chiude con un semplice e scarno passaggio diatonico, SOL-LA-FA# e l’ultimo suono che udiamo è un flebile accordo FA#-RE (tonica di RE maggiore o settima di dominante di SOL?) che si spegne nel silenzio eterno.

Brano comunque di ottima fattura che gli archi de laVerdi, guidati per l’occasione dalla seconda spalla, Dellingshausen, hanno proposto con grande efficacia e sensibilità.
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Ecco poi lo straussiano Tod und Verklärung, sui cui contenuti mi ero dilungato tempo fa, in occasione di un concerto diretto – guarda caso - proprio da Axelrod. Come ha acutamente osservato il sommo Quirino Principe, fra tutti i poemi sinfonici di Strauss è quello più scopertamente descrittivo, quello dove la musica aderisce con accuratezza quasi fotografica al soggetto ispiratore - sintetizzato da Strauss in poche righe - più ancora che nella smaccatamente descrittiva Alpensinfonie.

Axelrod evidentemente non ha cambiato idea interpretativa rispetto a 4 anni fa: la sua mi è parsa anche questa volta una lettura assai severa - con tempi mediamente sostenuti - anche se tutt’altro che noiosa o inefficace, anzi. E il pubblico ha apprezzato moltissimo, a giudicare dal livello raggiunto dall’applausometro.
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Si chiude con il (cosiddetto) Titano, in origine Poema sinfonico in 5 movimenti e poi – espunto il Blumine - innalzato da Mahler al rango di Sinfonia in RE maggiore. Pezzo fra i più inflazionati, ma che – se assunto in modiche dosi – fa comunque sempre il suo bell’effetto. Axelrod, da buon allievo di tale Lenny Bernstein, ci mette parecchio di suo, ma senza mai scadere – pericolo sempre in agguato con questa partitura - in gigionerie assortite.  

In un insieme più che apprezzabile mi sentirei di segnalare lo sviluppo del primo movimento, per la delicatezza delle sonorità esibite; poi la marcia funebre, tenuta sempre su un piano lontano da volgarità da strada. Va da sè che il finale abbia incendiato gli animi, se lo stesso direttore ha sentito il bisogno di fare uno slalom fra i leggìi per complimentarsi e/o abbracciare rappresentanti di tutte le sezioni dell’orchestra.   

12 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°4

 

Il quarto concerto della stagione de laVerdi nasce da una collaborazione con MilanoMusica. Ergo non può non proporre brani di compositori contemporanei (o almeno che tali sono stati per molti di noi…)

Si tratta di Morton Feldman (cui è intitolata la rassegna milanese di quest'anno) e di Tōru Takemitsu, due compositori vissuti in pieno ‘900 e accomunati dall’aver subito – in modi e tempi diversi – l’influenza di un tale che (per me, qui lo dico e qui lo confermo) avrebbe fatto meglio ad occuparsi esclusivamente di funghi e non di suoni (smile!): John Cage.

Di Feldman (1926-1987) la bella Geneviève Strosser ci propina The viola in my life IV. Nel 1970 Feldman aveva composto una prima versione del brano per viola e piccolo complesso (flauto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte) su commissione dei Pierrot Players (poi rinominatisi The London Fires) e per la famosa violista Karen Phillips; nei mesi successivi ne compose due nuove varianti: una (la II) con accompagnamento di altro complesso cameristico (flauto, clarinetto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte, il famoso ensemble schönberghiano del Pierrot) e l’altra (la III) per viola e solo pianoforte. Nel 1971 poi compose - su commissione della Biennale di Venezia, che ne ospitò la prima esecuzione il 16 settembre, sempre con la Phillips - la variante IV che prevede per accompagnare il solista un’orchestra di organico quasi normale, ed è una specie di compendio delle precedenti tre. (Tutte sono ascoltabili qui ).

Musica da sessioni di terapia zen (smile! vi assicuro che ascoltare in cuffia e al buio tutti i 4 pezzi, quasi tre quarti d’ora, è un’esperienza davvero unica…) dove i suoni della viola, spesso isolati e lunghi (con qualche breve sussulto) appaiono come una specie di melopea spezzata e si alternano ad interventi degli strumenti accompagnatori, che creano di volta in volta brevi tappeti sonori o ruvide risposte all’imperturbabile e monotono incedere dello strumento solista. Il rischio di dormita generale – e di bruschi risvegli in corrispondenza di qualche entrata improvvisa delle percussioni - è quindi assai alto.

Questa quarta variante dura fra i 15 e i 20 minuti (a seconda che il terapista sia più o meno carogna, stra-smile!) e si chiude, dopo tanta lagna, con un brusco accordo dissonante del pianoforte che precede le ultime note della viola, per assicurarsi che nessuno fra il pubblico faccia brutte figure, rimanendosene lì appisolato per il resto della serata. 

Geneviève Strosser e Tetsuji Honna evidentemente in questa musica ci credono e fanno del loro meglio per convincere anche il pubblico: che non fa mancare gli applausi, ma in questi casi non sai mai se sia per intima convinzione o semplicemente per buona educazione e riconoscimento dell’abnegazione degli esecutori…
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Poi è la volta di Marginalia di Tōru Takemitsu (1930-1996) composta pochi anni dopo la viola di Feldman. L’ispirazione per questo brano (il cui titolo letteralmente viene dall’espressione note a margine) venne a Takemitsu, come lui stesso scrisse, da alcune opere letterarie (E.A.Poe, S.Takiguchi) e pittoriche (P.Klee e S.Francis) che colpirono la sua immaginazione. Quindi il pezzo sarebbe costituito da un’ossatura tematica principale e da liberi approfondimenti sul tema (i marginalia, appunto).

Il compositore giapponese, pur sperimentando molte delle diavolerie che nel secondo dopoguerra venivano inventate a più non posso dai vari Cage (per dire: anche qui c’è il solito secchio d’acqua in cui un percussionista immerge un mini-gong per ottenere evidentemente suoni… liquidi) mi pare assai ancorato a sani principi compositivi, non facendo mancare alle sue opere un minimo di narrativa, che scarseggia o manca del tutto in brani come quello di Feldman.

Personalmente – e del tutto arbitrariamente, riferendomi soltanto a sensazioni di prima mano – potrei di individuare nel brano una serie di atmosfere che elencherei così: un mondo inanimato; qualcosa sembra risvegliarsi; ritorna il caos indistinto; altro segno di vita, e arriva… la Valse (!); ritorno di tenebre abissali; angosciante instabilità; climax; leggero rasserenamento; nuova agitazione e acquietamento; insorgere di un anelito; progressiva eccitazione; frustrazione; eroismo e climax; drammatica sospensione; elegia finale.

Insomma, qui qualcosa viene raccontato: non è ciò che deve fare (anche) la Musica? Strano a dirsi, un esperto come Alex Ross, nel suo ormai celebre The rest is noise, dedica pagine e pagine a Feldman, per poi liquidare in poche righe Takemitsu… mah.
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Chiude il concerto lo stravinskiano Petrushka, edizione originale del 1911. E a proposito di raccontare in musica, Stravinski ci fa qui una mirabile evocazione della storia di una marionetta, che si dipana all’interno della kermesse della settimana grassa di SanPietroburgo.

Chi desideri approfondire i contenuti dell’opera e la tecnica compositiva che Stravinski impiegò troverà pane per i suoi denti in questo benemerito sito tedesco (diciamo la verità, i crucchi non ci danno lezioni solo di buona economia…) Ogni aspetto (ambientale e soprattutto musicale) dell’opera vi viene sviscerato in modo straordinario, con dovizia di informazioni e con l’aggiunta di autorevoli commenti (ad esempio: Boulez).

Smagliante la prova dei ragazzi, in tutte le sezioni dell’orchestra, ugualmente impegnate allo stremo da questa incredibile partitura, un vero preludio per Le sacre, che ascolteremo fra una settimana.