Il quarto concerto della stagione de laVerdi
nasce da una collaborazione con MilanoMusica. Ergo non può non proporre brani di compositori contemporanei (o almeno
che tali sono stati per molti di noi…)
Si tratta di Morton Feldman (cui è intitolata la rassegna milanese di quest'anno) e di Tōru Takemitsu, due compositori
vissuti in pieno ‘900 e accomunati dall’aver subito – in modi e tempi diversi –
l’influenza di un tale che (per me, qui lo dico e qui lo confermo) avrebbe
fatto meglio ad occuparsi esclusivamente di funghi e non di suoni (smile!): John Cage.
Di Feldman (1926-1987) la bella Geneviève Strosser ci propina The viola in my life IV. Nel 1970
Feldman aveva composto una prima versione del brano per viola e piccolo
complesso (flauto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte) su
commissione dei Pierrot Players (poi
rinominatisi The London Fires) e per
la famosa violista Karen Phillips; nei mesi successivi ne compose due nuove varianti: una (la II) con
accompagnamento di altro complesso cameristico (flauto,
clarinetto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte, il famoso ensemble schönberghiano del Pierrot) e
l’altra (la III) per viola e solo pianoforte. Nel 1971 poi compose - su
commissione della Biennale di Venezia,
che ne ospitò la prima esecuzione il 16 settembre, sempre con la Phillips - la
variante IV che prevede per accompagnare il solista un’orchestra di organico
quasi normale, ed è una specie di compendio delle precedenti tre. (Tutte sono ascoltabili
qui ).
Musica da
sessioni di terapia zen (smile! vi
assicuro che ascoltare in cuffia e al buio tutti i 4 pezzi, quasi tre quarti d’ora, è un’esperienza
davvero unica…) dove i suoni della viola, spesso isolati e lunghi (con qualche
breve sussulto) appaiono come una specie di melopea spezzata e si alternano ad
interventi degli strumenti accompagnatori, che creano di volta in volta brevi
tappeti sonori o ruvide risposte all’imperturbabile e monotono incedere dello
strumento solista. Il rischio di dormita generale – e di bruschi risvegli in
corrispondenza di qualche entrata improvvisa delle percussioni - è quindi assai
alto.
Questa quarta variante
dura fra i 15 e i 20 minuti (a seconda che il terapista sia più o meno carogna,
stra-smile!) e si chiude, dopo tanta
lagna, con un brusco accordo dissonante del pianoforte che precede le ultime note
della viola, per assicurarsi che nessuno fra il pubblico faccia brutte figure,
rimanendosene lì appisolato per il resto della serata.
Geneviève Strosser e Tetsuji
Honna evidentemente in questa musica ci
credono e fanno del loro meglio per convincere anche il pubblico: che non fa
mancare gli applausi, ma in questi casi non sai mai se sia per intima convinzione
o semplicemente per buona educazione e riconoscimento dell’abnegazione degli esecutori…
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Poi è la volta di Marginalia di Tōru Takemitsu (1930-1996) composta
pochi anni dopo la viola di Feldman. L’ispirazione
per questo brano (il cui titolo letteralmente viene dall’espressione note a margine) venne a Takemitsu, come
lui stesso scrisse, da alcune opere letterarie (E.A.Poe, S.Takiguchi) e
pittoriche (P.Klee e S.Francis) che colpirono la sua immaginazione. Quindi il
pezzo sarebbe costituito da un’ossatura tematica principale e da liberi approfondimenti
sul tema (i marginalia, appunto).
Il compositore giapponese, pur
sperimentando molte delle diavolerie che nel secondo dopoguerra venivano
inventate a più non posso dai vari Cage
(per dire: anche qui c’è il solito secchio d’acqua in cui un percussionista immerge
un mini-gong per ottenere evidentemente suoni… liquidi) mi pare assai ancorato
a sani principi compositivi, non facendo mancare alle sue opere un minimo di narrativa, che scarseggia o manca del
tutto in brani come quello di Feldman.
Personalmente – e del tutto
arbitrariamente, riferendomi soltanto a sensazioni di prima mano – potrei di
individuare nel brano una serie di atmosfere che elencherei così: un mondo
inanimato; qualcosa sembra risvegliarsi; ritorna il caos indistinto; altro segno
di vita, e arriva… la Valse (!);
ritorno di tenebre abissali; angosciante instabilità; climax; leggero rasserenamento; nuova agitazione e acquietamento;
insorgere di un anelito; progressiva eccitazione; frustrazione; eroismo e climax; drammatica sospensione; elegia
finale.
Insomma, qui qualcosa viene raccontato: non è ciò che deve fare
(anche) la Musica? Strano a dirsi, un
esperto come Alex Ross, nel suo ormai celebre The rest is noise, dedica pagine e
pagine a Feldman, per poi liquidare in poche righe Takemitsu… mah.
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Chiude il
concerto lo stravinskiano Petrushka, edizione originale del 1911. E a proposito di raccontare in
musica, Stravinski ci fa qui una mirabile evocazione della storia di una
marionetta, che si dipana all’interno della kermesse
della settimana grassa di SanPietroburgo.
Chi desideri
approfondire i contenuti dell’opera e la tecnica compositiva che Stravinski
impiegò troverà pane per i suoi denti in questo benemerito sito tedesco (diciamo la verità, i crucchi non ci danno lezioni solo
di buona economia…) Ogni aspetto (ambientale e soprattutto musicale) dell’opera
vi viene sviscerato in modo straordinario, con dovizia di informazioni e con l’aggiunta
di autorevoli commenti (ad esempio: Boulez).
Smagliante la prova
dei ragazzi, in tutte le sezioni dell’orchestra, ugualmente impegnate allo stremo
da questa incredibile partitura, un vero preludio per Le sacre, che ascolteremo fra una settimana.
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