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23 febbraio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.13

Modernità e tradizione caratterizzano il Concerto di questa settimana, che vede il ritorno sul podio del Direttore Residente Andrey Boreyko.  

La modernità è rappresentata da Mysterium času (Il mistero del tempo) Passacaglia per orchestra di Miloslav Kabeláč, compositore ceco rimasto piuttosto in ombra a causa di un ostracismo di fatto, impostogli a suo tempo dal regime instaurato in Cecoslovacchia dall’URSS alla fine della WWII, che non vedeva di buon occhio artisti non allineati ai dettami del realismo socialista. Le purghe di Stalin erano acqua passata, ma anche Brezhnev non andava tanto per il sottile (come dimostrò nel’68 soffocando con i carri armati la Primavera di Praga…) e così il compositore, forte dell’autorevolezza acquisita fin da prima della guerra, cercò in qualche modo di barcamenarsi (un po’ come Shostakovich in Russia, per dire) in un instabile equilibrio tra libertà di espressione artistica e vincoli imposti dal regime.
In questo video uno dei principali artefici della recente divulgazione delle opere di Kabeláč, Marko Ivanović, presenta – prima di dirigerlo - i tratti salienti del lavoro (inquadrandoli anche nel difficile periodo storico della composizione, 1957) che mutua dalla classica forma di Passacaglia soprattutto il ritmo incalzante e inesorabile (il Tempo, appunto).

È una specie di viaggio dalla notte dei tempi, con l’inizio in pianissimo. Qualcosa si muove in orchestra, ancora quasi indistinto (clarinetto basso, pizzicato del contrabbasso, arpa, clarinetto, rintocchi di timpano, tappeto di archi) poi flauto e violini fanno emergere una melodia, a lungo reiterata:

…e da qui si snoda il lungo, mirabile e continuo peregrinare nel tempo – con l’ingresso progressivo di tutti gli strumenti, il caricarsi del volume di suono, le numerose modulazioni e il sovrapporsi di ritmi diversi ma sempre sulla base stabile della Passacaglia – caratterizzato da successive ondate sonore, a sfondo ora lirico, ora marziale, ora persino guerresco (le ere geologiche? o l’attitudine dell’Uomo nel tempo?) culminanti in altrettanti climax (l'ultimo dei quali rappresenta forse il nostro presente?) per poi spegnersi lentamente, spostando il nostro sguardo verso il più remoto futuro (chissà, forse l’eternità?) con il ritorno all’iniziale motivo in pianissimo

Insomma, una narrativa coinvolgente, che ci guida in un viaggio davvero straordinario… almeno così mi piace immaginarlo e viverlo. E Boreyko e l’Orchestra ce lo hanno trasmesso in tutta la sua accattivante ballezza.

Poi il Direttore, per salutare e ringraziare l’Orchestra al termine della sua residenza qui (ma speriamo sia un arrivederci e non un addio) ci ha proposto un’autentica primizia: la trascrizione per orchestra di una paginetta di poche battute che Wagner scrisse a Palermo come dedica del Parsifal alla sua Cosima: L’Ultima Composizione.
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Ha chiuso la serata il Secondo Concerto per pianoforte di Brahms, interpretato dal 38enne ukraino Vadym Kholodenko.

[Fra meno di un mese saranno trascorsi 8 anni da quel terribile 17 marzo del 2016 quando il trentenne Vadym, a Benbrook (Fort Worth, Texas) passando da casa della moglie divorziata per prendere le due figliolette di 1 e 5 anni, le trovò prive di vita, con la madre in stato di palese shock e ferite da arma da taglio. La madre fu poi formalmente incriminata per la morte delle piccole (per soffocamento) ma tornò libera in quanto dichiarata inferma di mente al momento del delitto. Una storia davvero emblematica dei rapporti fra russi e ukraini: Vadym nasce a Kiev nell’86, fa gli studi a Mosca dove ottiene i primi successi, sposa una russa (Sofya) e con lei si sposta in USA, dove vince premi (2013 a Fort Worth, appunto) e diventa famoso; ha due figlie, ma il matrimonio va a rotoli e finisce in catastrofe; torna in Europa, sposa un’altra russa (Alena, violinista) e si stabilisce con lei in Lussemburgo, dove risiede tuttora. Poi l’altra tragedia, l’invasione di Putin, che non può non aver turbato il rapporto fra i due, legati alla Russia per nascita (lei) e per… carriera (lui). Ma chissà, forse sono proprio l’arte e la musica a fornire ai due un rifugio da queste miserie.]

Dunque, Brahms al culmine dell’epopea classico-romantica e come propulsore del tardo-romanticismo: ne sono testimonianza le primissime battute del Concerto: l’attacco dei corni (salita tonica-sopratonica-mediante) che richiama quello del weberiano Oberon; e poi il controsoggetto del primo tema, che Mahler (vicino anche materialmente a Brahms negli anni di Hamburg) mutuò nel finale della sua Auferstehung… (Qui una mia sommaria esegesi dell’opera).

Kholodenko ha ormai questo Concerto stabilmente in repertorio (lo ha eseguito in passato anche recente con Currentzis e da pochissimo a Baden-Baden con Ivan Fischer) e anche qui ha fatto valere la sua tecnica sopraffina, coniugata col rigore esecutivo dovuto a questo Brahms, il che non significa pesantezza, magniloquenza e pura cerebralità, anzi: ne esce un Brahms pienamente cosciente del suo magistero, nell’arte pianistica come nell’impiego sapiente dell’orchestra, che Boreyko ha mantenuto sempre in piena sintonia con il solista.

Il pubblico dell’Auditoriium (pur scarseggiante, stante il tempo da lupi calato su Milano) lo ha accolto con grandissimo calore. E lui ci ha così premiato con Beethoven: la terza delle Bagatelle op,33, in FA maggiore.

26 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#1

Ieri sera in Auditorium ha preso il via il tanto atteso Mahler Festival. Un’impresa non da poco, un record per l’Italia: tutta la produzione di Mahler interpretata, oltre che dall’Orchestra di casa, anche dalle principali Orchestre italiane.

Ogni concerto è preceduto da un’introduzione di Gaston Fournier-Facio, che ieri ha anche presentato il nuovo libro (di cui è curatore) uscito proprio per festeggiare questo avvenimento unico in Italia: opera cui hanno collaborato con speciali contributi i principali musicologi italiani (16 studiosi - viventi e non - che hanno al loro attivo almeno un volume dedicato a Mahler, più Riccardo Chailly che oggi è un’autorità in campo interpretativo, oltre ad aver tenuto la guida de laVerdi per un lustro).    

Prima del concerto la Presidente Ambra Redaelli ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa (fortemente voluta e realizzata dal Direttore Generale e Artistico Ruben Jais per festeggiare i 30 anni dell’Orchestra e i 25 del Coro Sinfonico) e ha presentato Marina Fistoulari Mahler, nipote del compositore, che ha voluto simbolicamente dedicare il concerto a tutti i bambini vittime di guerre e violenza.

L’onore dell’apertura è spettato al Direttore Residente Andrey Boreyko - coadiuvato da Massimo Fiocchi Malaspina (Direttore del Coro) e dalle due voci di Valentina Farcas (soprano) e Bettina Ranch (mezzosoprano) - che è tornato sul podio per dirigere la Seconda Sinfonia, opera emblematica nella produzione mahleriana come nella vita dell’Orchestra, se è vero che lo stesso compositore usava dirigerla in tutte le occasioni… promozionali e che laVerdi eseguì (con Chailly) nel 1999 ad inaugurare l’Auditorium appena ristrutturato, e poi nel 2022 (con Flor) per festeggiare il ritorno in vita del Teatro Lirico milanese. 

Esecuzione di alto livello sotto tutti gli aspetti: la direzione di Boreyko ha appropriatamente sottolineato i caratteri magniloquenti dei due movimenti estremi (Morte-Resurrezione) e quelli più lirici e religiosi dei tre movimenti interni.

Serata davvero emozionante, chiusa dal gran trionfo che il foltissimo pubblico ha tributato a tutti i protagonisti. 

11 settembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Trionfale apertura di stagione 23-24 alla Scala

Come ormai da lunga tradizione, l’Orchestra Sinfonica di Milano è stata ospite alla Scala – non proprio al completo… - per l’inaugurazione della nuova stagione 23-24, che ricorre nel 30° anniversario dalla nascita de laVerdi, come ancora i suoi simpatizzanti continuano a chiamarla. La Presidente della Fondazione, Ambra Redaelli, e il Direttore generale-musicale Ruben Jais hanno significativamente deciso di dedicare il concerto alla memoria del giovane cornista Giovanbattista Cutolo, barbaramente ammazzato pochi giorni orsono a Napoli.

È stato il Direttore in Residenza - Andrey Boreyko - a salire sul podio per il secondo anno consecutivo, presentando un programma assai impegnativo, che affiancava uno degli ultimi lavori di Gustav Mahler alla più rivoluzionaria delle Sinfonie beethoveniane.

Programma aperto con una (mezza) novità: Das Lied von der Erde interpretato da due voci maschili, contrariamente alla tradizione (e in parte anche alle preferenze dell’Autore) che alterna al tenore (canti 1-3-5) il contralto (2-4-6) e non il baritono. Ma devo dire che la coppia formata da Tuomas Katajala e Georg Nigl ha brillantemente superato la prova. Katajala lo avevamo apprezzato in Auditorium lo scorso dicembre in Parsifal e recentemente come protagonista di Oedipus Rex di Stravinski; Nigl lo ricordo alla Scala quando era giovanissimo e interpretò con successo Wozzeck nel 2008 con Gatti e Orfeo nel 2009 con Alessandrini.

Pienamente meritati quindi i lunghi applausi e le diverse chiamate, così come da elogiare è l’Orchestra che Boreyko ha guidato con grande sensibilità e minuzioso scavo nei dettagli di questa partitura tanto complessa quanto affascinante.

Poi chiusura alla grandissima con la Quinta per antonomasia, accolta con un uragano di ovazioni e applausi ritmati. Insomma, un eccellente e promettente inizio di stagione!

08 settembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Domenica alla Scala apre la stagione 23-24.

Come ormai da lunga tradizione, l’Orchestra Sinfonica di Milano sarà ospite alla Scala per l’inaugurazione della nuova stagione 23-24.

Sarà il Direttore in Residenza - Andrey Boreyko - a salire sul podio per il secondo anno consecutivo, presentando un programma assai impegnativo, che affianca uno degli ultimi lavori di Gustav Mahler alla più rivoluzionaria delle Sinfonie beethoveniane
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Ecco quindi dapprima la cosiddetta Sinfonia-di-LiederDas Lied von der Erde – interpretato qui da due voci maschili, cosa piuttosto insolita, chè tradizionalmente al tenore (Tuomas Katajala) si affianca un contralto/mezzosoprano, anziché un baritono (Georg Nigl). L’esempio più famoso di esecuzione con due voci maschili riporta a Lenny Bernstein che incise il Lied con James King e Dietrich Fischer-Dieskau.  

Sul Lied si sono scritti fiumi d’inchiostro, ma forse la cosa più curiosa è quanto raccontò – in un’intervista radiofonica nel 1970 – William Steinberg, direttore d’orchestra americano che era stato assistente di Toscanini. Di quest’ultimo è ben nota l’avversione rispetto alla musica di Mahler (la cui Quinta fu da lui definita una boiata pazzesca!) Ma un giorno, proprio a Milano, mentre Steinberg provava il Lied, Toscanini entrò in sala e chiese di chi fosse quella musica. E, saputo che era di Mahler, si lasciò sfuggire un: “Mio dio, non pensavo che potesse scrivere così bene… 

Negli anni che vanno dal 1907 fino al 1909, anno di completamento dell’opera, a causa di varie disavventure - il licenziamento in tronco da Generalmusikdirektor della Hofoper di Vienna; la prematura perdita della maggiore delle due figliolette, Putzi; la diagnosi di una sia pur blanda disfunzione cardiaca; e soprattutto i tradimenti a sfondo prettamente sessuale della moglie Alma - Mahler avvertiva ormai come incombente e non più ignorabile il problema capitale dell’esistenza di ciascuno di noi, cosa che aveva abitato in qualche modo la sua mente fin dai tempi della giovinezza, ispirandogli anche tantissima musica, ma che lui ora incontrava direttamente, in prima persona.

Il Lied, praticamente una sinfonia - nell’accezione che questo termine aveva assunto nell’estetica mahleriana - insieme alla Nona e al torso della Decima rappresenta quindi l’autentico testamento spirituale di Mahler.

I sei testi dell’opera furono scelti da una collezione di poesie cinesi dei tempi della dinastia T’ang, secoli VII-IX (quando noi eravamo ancora sprofondati nel più cupo medioevo e il Rinascimento era lontano… secoli) tradotti da Hans Bethge (e prima di lui da altri letterati francesi).

Quando si dice… la globalizzazione culturale dello spazio-tempo. Qui vediamo gli ideogrammi (pseudo) originali delle due poesie da cui Mahler trasse l’ultimo Lied del ciclo, Der Abschied, e la prima pagina della partitura manoscritta del compositore: fra di essi ci sono nientemeno che 8.000 Km e 1.000 anni di distanza!

Va subito premesso che Mahler si permise (e con ottime ragioni…) di apportare personali modifiche/aggiunte ai testi cinesi, in particolare attenuando il loro pessimismo si fondo, addolcito da una visione meno negativa e più laicamente serena. In effetti va sottolineato come il primo impulso del compositore fosse stato di adesione acritica all’atmosfera quasi nichilista dei testi cinesi (il titolo dell’intera opera doveva essere Il canto dei dolori della terra, sopravvissuto solo nel titolo del primo Lied) ma come successivamente Mahler decise di addolcire il pessimismo orientale per introdurvi qualche sprazzo di serenità. Non certo un trionfo dell’ottimismo, ma perlomeno l’individuazione di elementi confortanti per l’individuo.

Come detto, i sei Lieder sono labilmente apparentabili ad altrettanti movimenti di Sinfonia, strutturati appunto secondo i criteri da Mahler impiegati per lavori di quel genere: i primi due (allegro e lento) di atmosfera piuttosto cupa o rassegnata, i successivi tre più (apparentemente) leggeri, in funzione di intermezzo, e l’ultimo, il più lungo ed articolato, decisamente lento, notturno, riflessivo, intimistico e quasi religioso.

Musica piena di moti ascendenti e discendenti che si alternano, ma anche si sovrappongono, perché l’esistenza è spesso gioia e dolore allo stesso tempo, come ben si vede, subito prima della coda, nel secondo Lied (dove peraltro la scala discendente (negativa?) va apertamente verso il forte, mentre quella ascendente (positiva?) va a morire in ppp:

Così nel primo Lied troviamo uno dei diversi, poetici riferimenti inseriti di suo pugno da Mahler (tornerà ciclicamente nell’ultimo Lied) alla terra che sempre rifiorirà a primavera (meraviglioso l’inciso del corno inglese…) seguito da una drammatica presa di coscienza della caducità umana:

Nel secondo ecco un rassegnato ripiegarsi di chi ha il cuore stanco e cerca riposo (anche questo scenario ricomparirà nell’ultimo Lied); e poi un’accorata implorazione, al sole dell’amore:

Infine qui, nell’ultimo Lied, un autentico ponte sonoro che sembra richiamarsi al famoso arco melodico che accompagna l’ammonimento Alles was ist, endet di Erda:

E, a proposito di Wagner, non manca una minuscola, ma chiara citazione, questo brevissimo inciso del quinto Lied, che viene proprio da lontano!

Ma anche la frase successiva (…sei kommen über Nacht) nelle parole richiama alla mente un altro dramma wagneriano (Walküre, primo atto, la notte dell’agnizione di Siegmund e Sieglinde): la ventata che fa sbattere violentemente la porta della stamberga di Hunding annuncia l’improvviso irrompere della Primavera (e la successiva romanza… Winter Stürme).

E Mahler ancora ricorre a Wagner nell’ultimo Lied, dove troviamo, nella melodia che torna due volte, prima in SIb e poi in DO maggiore, una chiara reminiscenza parsifaliana: la discesa da mediante a tonica che precede il lavaggio dei piedi di Kundry al puro folle (là in FA# maggiore):

Poi, troviamo sottili e quasi subliminali rimandi tematici. Ad esempio questo inciso dell’oboe che nel primo Lied sottolinea la morte, è ripreso significativamente dal canto che nell’Abschied (ancora un legame fra i due Lied estremi dell’opera) prefigura l’anelito alla pace per il cuore solitario:

Un richiamo fra il secondo e l’ultimo Lied riguarda l’affaticamento del cuore e degli uomini, due volte espresso nel secondo e ripreso nell’ultimo Lied (un semitono sotto, dove poi peraltro c’è speranza di consolazione):

Ma l’impronta determinante della vision esistenziale mahleriana resta impressa nell’ultimo Lied, Der Abschied. Esso merita particolare attenzione poiché nella sua conclusione, a dispetto del confuciano, assoluto pessimismo esistenziale dell’originale cinese (di Wang Wei), Mahler infuse un atteggiamento, per così dire, di laica e serena rassegnazione. E per far questo modificò appunto il testo, introducendo (mutuandolo precisamente da quello da lui già manipolato del primo Lied) molto azzurro nei cieli sconsolatamente bigi del poeta T’ang.

Laddove quest’ultimo chiudeva con due versi di disincantato e rinunciatario pessimismo:

La terra è uguale dappertutto –

E sempre sono bianche le nuvole!

Mahler scrive invece di suo pugno, riprendendo la sua variazione del primo Lied:

L’amata terra dappertutto –

Rifiorisce a primavera e verdeggia di nuovo!

Dappertutto e sempre, sempre –

Azzurri risplendono gli orizzonti!

Sempre… sempre… sempre…

Ecco, innanzitutto la Natura, di cui Mahler – nelle modifiche al testo originale e coerentemente con il suo rapporto d’amore per essa - rivaluta la benigna funzione materna e i caratteri consolanti: le nuvole bigie cinesi magari restano, ma all’orizzonte ecco aprirsi l’azzurro del cielo e il paesaggio illuminarsi, colpito obliquamente dai raggi del sole. E poi l’eterno verdeggiare a primavera, a testimonianza della vitalità del creato, di cui l’Uomo è in fin dei conti parte integrante.    

Ma è ancora una volta la musica a mirabilmente rappresentare questo insieme di presa di coscienza dell’inevitabilità della fine e di speranza nell’infinita ed eterna misericordia della madre terra, sempre pronta ad accogliere fra le sue braccia questo uomo, piccolo e infelice. Ecco come testo e musica mahleriani, correggendo il desolato originale orientale, evocano la serena contemplazione della madre-natura:

Sull’ultimo ewig il canto non si adagia più sulla tonica, ma si sospende sulla sopratonica RE; e nelle restanti 6 misure l’orchestra esala un DO maggiore orientalizzato dal LA di flauto ed oboe e dalle cinesizzanti volute della celesta, proprio a lasciare una sensazione di indeterminatezza, di qualcosa che si perde lontano.

Morendo completamente, si legge sulle ultime battute del Lied. Più semplicemente, Morendo recita l’ultima indicazione agogica sulla partitura della Nona. Sull’abbozzo manoscritto della Decima l’ultima indicazione è un La, che i musicologi decifrano come Langsam: adagio.

Così le ultime opere di Mahler chiudono sommessamente un’esistenza, e con lei anche una grande (non l’ultima…) stagione del sinfonismo.
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Sinfonismo che ebbe in Beethoven il suo grande alfiere, e la Quinta una delle sue punte di diamante, sulla quale non è certo il caso qui di spendere altre parole.

Non resta dunque che aspettare domenica per goderci questa nuova partenza di stagione.

05 maggio, 2023

laVerdi 22-23. 28

Il concerto n°28 della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano (sul podio il Direttore Residente, Andrey Boreyko) presenta un soggetto assai particolare (il mito di Edipo) esplorato da due diverse angolazioni musicali: Pizzetti e Stravinski. Lo stesso accostamento era stato proposto meno di un anno fa al Maggio, con direzione di Daniele Gatti. E così come a Firenze, anche qui il brano stravinskiano è stato proposto in forma concertante, senza le pur scarne ed essenziali scene(/costumi) previste in origine per la rappresentazione dell’oratorio.

Si apre con Ildebrando Pizzetti e i suoi Tre Preludi Sinfonici per l'Edipo Re di Sofocle, del 1903. In origine furono composti come musiche di scena (Intermezzi fra i diversi episodi, verosimilmente) ma successivamente sono quasi sempre stati eseguiti – come qui - in concerto.

Mi viene di paragonarlo, alla lontana, con lo schumanniano Ouverture, Scherzo e Finale: il primo tempo che presenta, dopo un’introduzione sulla dominante FA#, un primo tema in SI minore, assai mesto e cupo, caratterizzato da terzine ribattute; il secondo di sapore romantico, che arriva a sorpresa in MIb maggiore, ma cangiante presto al minore; quindi un ponte dalla natura ansiogena conduce alla ripresa del secondo tema, adesso direttamente in MIb minore e poi – dopo il ritorno del FA# introduttivo - del primo, ancora in SI minore, a spegnersi lentamente.

Il secondo tempo è di fatto un anomalo Scherzo in tempo ternario (tema concitato in FA# minore, di sapore quasi bruckneriano) con Trio che presenta un tema elegiaco e giocoso, nella stessa tonalità, ma in modo maggiore, poi però rimpiazzato dal ritorno – in FA maggiore – del secondo tema del primo Preludio per lasciare spazio quindi ad un mesto recitativo dell’oboe, in FA minore. Chiude il Preludio un poderoso ritorno del FA#, che reitera a sua volta il secondo tema del primo preludio e poi alterna – mahlerianamente - minore e maggiore. 

Il finale è tutto in DO, inizialmente in minore, con un lamentoso recitativo del primo violino, per poi sciogliersi in una chiusura quasi serena, in maggiore, ma con la sesta (mahleriana!) a dargli una sfumatura compassionevole.

Pare che Pizzetti non abbia lasciato alcun esplicito programma, così esegeti e musicologi hanno avanzato ipotesi più o meno plausibili, ad esempio: la desolazione di Tebe, l’arrivo di Edipo che sfida la Sfinge e – dopo la tragica rivelazione e le relative conseguenze - il vagare di Edipo, ormai morto al mondo, con la fedele Antigone.

Una possibile interpretazione della musica potrebbe venire applicandole i criteri che un tale Christian Friedrich Daniel Schubart già a fine ‘700 aveva codificato in fatto di espressività delle tonalità musicali, elencando per ciascuna delle 24 (maggiori+minori) i caratteri distintivi. [Chissà se Pizzetti si sia rifatto a quella classificazione…]

Così il SI minore di apertura evocherebbe la rassegnata attesa del popolo tebano per il realizzarsi del volere divino, rappresentato dal MIb maggiore, al quale si contrapporrebbe il Mib minore, evocante invece pessimismo e disperazione.    

Così il FA# minore dell’inizio del secondo Preludio potrebbe rappresentare risentimento e frustrazione, compensati però dal trionfante FA# maggiore e dal riposante FA maggiore, poi subito scacciati dal FA minore (oboe) che evoca profonda depressione e desiderio di morte. L’alternarsi di FA# maggiore e minore dà al brano una chiusura… enigmatica.

Infine, Il DO minore conclusivo evocherebbe desiderio d’amore, ma anche pena per un amore contrastato e infelice. Il DO maggiore delle ultime battute potrebbe applicarsi alla ingenua semplicità di Antigone, ultimo e unico, pietoso sostegno per il padre distrutto.   

Ma questi sono solo esercizi accademici; resta il fatto che si tratta di musica di alto profilo, che Boreyko e laVerdi hanno saputo trasmetterci in tutta la sua nobiltà. Meritati quindi i consensi del pubblico, tornato a livelli… pre-Rachmaninov, ecco (però con consistente presenza di giovani e giovanissimi, il che rappresenta sempre una confortante notizia).
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Il clou del concerto è l’Opera-Oratorio Oedipus Rex di Igor Stravinski, del 1926-27, poi revisionata nel 1948. Il testo originale è dello stesso Stravinski e di Jean Cocteau, che decisero però, piuttosto bizzarramente (anche se con qualche ragione…) di farlo tradurre dall’originale francese in lingua latina (traduzione affidata a Jean Daniélou, un religioso latinista, che divenne molto più tardi Cardinale…) Del testo francese rimangono soltanto i 6 interventi parlati del Narratore, qui recitati in italiano dal grande Massimiliano Finazzer Flory

Insieme al Coro maschile (diretto da Massimo Fiocchi Malaspina) che impersona il popolo di Tebe, i protagonisti dell’Oratorio sono:

Tuomas Katajala (tenore, Œdipus)
Petra Lang (mezzosoprano, Jocasta)
Robert Bork (basso-baritono, Créon)
Dongho Kim (basso, Tirésias)
Patrick Vogel (tenore, Pastore)
Bruno Taddia (basso-baritono, Messaggero)
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Avvicinarsi a quest’opera non è semplice: di primo acchito si fatica a entrare in sintonia con una narrativa musicale apparentemente astrusa, un pot-pourri di stilemi diversi e poco coerenti. Per questo conviene, ad un ascoltatore che non voglia farsi prendere alla sprovvista, esplorarne il testo (con la traduzione italiana) e poi una dotta esegesi, come questa dell’indimenticabile Sergio Sablich. A questo punto è consigliabile passare all’ascolto dell’opera con la parte narrata in italiano: qui Giancarlo Sbragia nel 1969 in un’esecuzione della RAI di Roma diretta da Claudio Abbado. Approfondimenti più strettamente musicali sono possibili esplorando questa lezione del prof. Nicola Sfredda.

Ma la più sconvolgente presentazione dell’opera è quella fatta dal sommo Lenny Bernstein ad Harvard, nell’ultima delle sue fulminanti lezioni del 1973: a 1h37’37” del video Bernstein comincia a parlare dell’Oedipus, suonando le battute introduttive in SIb minore, caratterizzate da quattro note (SIb-DO-LA-SIb), che presentano il carattere dell’opera, il suo soggetto (per ora) enigmatico (!?) 

L’enigma si svelerà di lì a poco (1h45’50”) quando Bernstein riassumerà l’essenza dell’Oedipus nel binomio: pietà e potere. Che sono anche alla base di un’opera famosa del melodramma ottocentesco: Aida! (ora si capisce perché Bernstein all’inizio della lecture ne aveva strimpellato al pianoforte uno dei ballabili.) Dove troviamo l’origine di quelle quattro note del tema che introduce l’Oratorio (siamo sulla dominante di SIb, FA minore): Aida che risponde ad Amneris (Atto II) con le parole: tu sei felice, tu sei possente… Io vivo solo per questo amor!

Certo, Bernstein era un ammiratore di Stravinski, a differenza di molti musicisti e musicologi che invece lo disprezzavano, ma insomma, qualcosa di vero o di interessante mi pare proprio che ci sia nelle sue appassionate argomentazioni…

Subito dopo questa rivelazione (1h57’12”) possiamo ascoltare l’opera dalla BSO diretta da lui, che poi chiuderà la lezione con il suo incrollabile credo nella tonalità (la poesia della terra…, come appunto titola la sua lezione).
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Bene, devo dire che – ancora una volta – laVerdi ci stupisce per coraggio di proporre opere impegnative quanto poco conosciute e capacità poi di realizzarle con risultati davvero eccellenti. Come detto, si è optato per la forma di concerto, con i sei solisti di canto alternatisi al proscenio, su due postazioni ai lati del podio. Finazzer ha invece declamato gli interventi del Narratore dall’alto della balconata, sulla sinistra. I due schermi ai lati del palco recavano uno l’originale latino cantato e l’altro la traduzione italiana: stessa scelta che viene fatta in ogni occasione, quanto mai preziosa per la comprensione da parte del pubblico.

Encomiabile la prestazione delle voci, a partire dal coro che esterna lo stato penoso del popolo di Tebe, o ne sottolinea le implorazioni al Re perché li liberi dalle piaghe che hanno colpito la città, o richiama e commenta i comportamenti dei protagonisti. I quali sono intrepretati da sei voci tutte da elogiare, fra le quali mi limito a citare quella che Tuomas Katajala (grandi ovazioni per lui) ha prestato ad Edipo; e quella della 60enne Petra Lang (13 stagioni a Bayreuth, dal 2005 al 2022, nei ruoli di Brangäne, Ortrud, Isolde, Brünnhilde, Kundry) che ha illustrato il breve ma intenso intervento di Giocasta, tutta tesa a screditare gli oracoli, che invece la inchioderanno alle sue responsabilità. 

L'Orchestra, che Boreyko ha guidato con il suo gesto secco e tagliente, ha supportato da par suo questo grande affresco, così ricco di riferimenti classici ma anche modernissimi. Insomma, una proposta che poche orchestre possono permettersi oggi: ci sono altre due repliche per approfittarne!

17 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 16

La Russia eroica è protagonista del concerto di questa settimana, diretto dal russo (ma non simpatizzante per Putin, come certificato dal CoPaSiR…) Andrey Boreyko, Direttore Residente dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

Torna quindi a farsi udire in Auditorium la monumentale Leningrado (settimo parto sinfonico di Dmitri Shostakovich).  

Opera indecifrabile e da sempre tirata da ogni parte, per ragioni squisitamente extra-musicali, anzi precisamente politiche: al suo apparire, osannata dai sovietici e in Occidente (Toscanini in testa) in funzione anti-nazi; una volta abbattuto il nazismo, in Occidente si è preferito dimenticarla, per non dar fiato a Stalin e nipotini, che ne avevano fatto un simbolo di superiorità morale del comunismo; poi qualcuno (Solomon Volkov, Testimony) ci ha trovato germi di… anticomunismo e allora evviva, disseppelliamola!

Nata per essere una specie di poema sinfonico, o una fantasia (e l’iniziale Allegretto è in effetti tutto tranne che un primo movimento di sinfonia come-si-deve…) è poi cresciuta a dismisura, fino a raggiungere proporzioni sesquipedali, sotto una specie di costrizione patriottica di cui l’Autore fu vittima a seguito dell’invasione nazista. I suoi contenuti musicali furono indubbiamente condizionati dallo scenario esterno: a partire dalla forma dell’opera, dove l’iniziale nucleo di poema sinfonico divenne poi il primo movimento di una sinfonia in quattro movimenti, tutti a loro volta sottotitolati - La guerra, II ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria - salvo successiva revoca dei sottotitoli e delle relative indicazioni programmatiche dell’Autore!

Una cosa è certa: se la si volesse considerare e giudicare come musica pura, svincolata da ogni riferimento extra-musicale, allora si dovrebbe – come minimo! -  prendere l’Autore per un matto da legare! O, in alternativa, per un buontempone in vena di prendere il pubblico per i fondelli…

E ovviamente il casus-belli è costituito principalmente da forma e contenuto dell’iniziale Allegretto: il quale sembra muoversi nel tradizionale solco della forma-sonata, con l’esposizione dei due temi nelle canoniche tonalità di tonica (DO maggiore) e dominante (SOL maggiore, con breve divagazione a SI maggiore):

Un primo tema robusto, maschio e deciso, il secondo più elegiaco, femminile, contemplativo: più di così cosa si pretende in fatto di rispetto delle regole codificate?

Dopo l’esposizione arriverà quindi uno sviluppo, dove i due temi si incontreranno, magari si scontreranno, perché no, fino a trovare la concordia nella ricapitolazione, con… capitolazione del secondo tema sulle posizioni (leggi: tonalità) del primo. O no?

E invece: no! Perché lo sviluppo è sostituito dall’irruzione inopinata di quel gigantesco quanto volgare episodio di marcia, un insignificante tema reiterato in non meno di 11 varianti e chiuso da una colossale coda.

La realtà è che in questo movimento fa irruzione la guerra. Dopodichè diventa, in un certo senso, comprensibile che anche un’austera Sinfonia debba prendere atto che… la guerra non è un pranzo di gala! E può sovvertire ogni sistema costituito, musica inclusa.

Ecco perché queste incrostazioni extra-musicali di cui si è ricoperta fin dalla nascita impediscono di poter apprezzare (nel bene e nel male) come opera di ingegno, intesa come musica di per sé stessa, questa Sinfonia. Per i cittadini russi (e non solo) del 1942 quella musica aveva un significato e un sapore strettamente legato alle catastrofiche circostanze materiali in cui era venuta alla luce: nessuno allora si interrogava sui suoi contenuti estetici, poichè la sentiva soprattutto come una droga utile a rigenerare le forze spirituali (e pure materiali) con cui affrontare il nemico invasore (allo stesso modo la musica in modo frigio veniva impiegata fin dall’antichità per aizzare le truppe in battaglia).

A proposito, quella specie di bolero-di-ravel-su-tema-di-lehár che è incastonato nel movimento iniziale fu descritto (a posteriori, fra l’altro, come spesso accade ai programmi appiccicati a musica già composta) come il marciare dei cavalieri teutonici sulla città: dapprima si sentono e si vedono in lontananza, laggiù in fondo alla steppa sconfinata, e paiono una squadretta di boy-scout che marciano allegramente inalberando gagliardetti, accompagnati da pifferi e tamburino.

Shostakovich ci infila anche uno sberleffo, citando Lehar (Da geh' ich zu Maxim, dalla Vedova allegra, operetta preferita di Hitler, si diceva). Ecco quindi come si presenta il pericolo nazista da lontano:

Poi però, man mano che i boy-scout si avvicinano, ecco che si scorgono dietro alle loro bandierine colorate delle baionette, quindi si profilano le torrette dei panzer, poi le spaventevoli sagome dei mezzi d’artiglieria, e in cielo gli stormi della Luftwaffe!

Dico, un tempo di sinfonia, o la parodia dell’Ouverture 1812? Non per nulla il mite e un po’ sfigato Bartók ci farà sopra a sua volta uno sghignazzo, nel suo Concerto per orchestra:

E la guerra finisce per inquinare irrimediabilmente anche la ripresa dei due temi presentati nell’esposizione: riappaiono infatti sfigurati, deturpati e quasi irriconoscibili, infine devono lasciare il passo alla reminiscenza del tema teutonico. Perché, appunto, la guerra non è finita

I due movimenti centrali sono certo meno prosaici e pretenziosi (a parte la lunghezza…) e ci restituiscono uno Shostakovich lirico: il Moderato (poco allegretto) è in pratica una specie di Scherzo con Trio e ripresa dello Scherzo. Nella prima parte riconosciamo due idee tematiche, la prima in RE maggiore, la seconda in SI minore, poi tornando a RE:

È chiusa da un insistente pizzicato degli archi.

La sezione centrale è in tempo 3/8. Attacca in DO# minore e viene introdotta dai clarinetti, incluso quello piccolo in Mib e quello basso:

Poi si sviluppa in una tipica corsa ostinata shostakovich-iana, esplorando diverse tonalità, fino a sboccare nella ripresa dello Scherzo, anche qui assai variata rispetto all’esposizione iniziale e chiusa dal secondo tema in arpa e clarinetto basso accompagnato da un marziale e insistito ribattere di flauto e flauto in SOL; e infine dal primo tema abbreviato.

Ecco poi l’Adagio, aperto da un corale di fiati e arpe che introduce il tema principale, in RE maggiore (Largo) di grande respiro e nobiltà, esposto dai violini:

Poi ecco, in MI maggiore, il sognante tema del primo flauto, sviluppato anche con l’intervento del secondo:

Dopo una fugace riapparizione del tema principale, ecco tornare… la guerra (?). Che irrompe sulla scena in tempo Moderato risoluto SOL# minore, con un tema protervo esposto dagli archi:

Inizia qui un colossale crescendo in cui riappaiono, come travolti da un turbine, anche spezzoni dei temi precedenti, finchè tutto sembra finire in nulla… Ecco quindi la parte finale del movimento, che ricapitola temi della prima e poi, nel ripristinato Adagio, chiude mestamente, quasi morendo.


Nel Finale (Allegro non troppo) torniamo ai fracassi della guerra, interrotti da qualche… funerale. È in effetti un penoso avvicinamento alla luce che splenderà alla fine, riportando fiducia nel futuro.

Il tema principale, di stampo maschio e bellicoso, è già annunciato dai bassi in apertura, poi verrà esposto poi violini, in DO minore; quello secondario, più cantabile e sereno, è presentato per primo, in DO maggiore, sempre dai violini:

La prima parte del movimento è occupata da un crescendo continuo del tema principale, che sfocia in una perorazione enfatica a piena orchestra, con percussioni in grande evidenza. Il secondo tema lo contrasta, nei fiati, opponendogli fiera baldanza, finchè si arriva ad un momento di tregua (tempo Moderato): pare qui di assistere ad un compianto funebre, sulla cui chiusura ricompare, mesto, il tema principale, che da guerresco si è trasformato in… funerario.

Poco a poco però il tema riprende vigore e viene raggiunto anche dal motivo secondario, e insieme portano, attraverso modulazioni che passano per SI e Mi maggiore, al DO maggiore della perorazione finale, in cui spicca, pesantissimo, il ciclico ritorno del tema che aveva aperto la Sinfonia. 
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Che dire? Un’opera difficile da digerire, perché è difficile capire quale ne sia la natura più autentica.

Chi però ce l’ha fatta non solo digerire, ma gustare, è l’Orchestra Sinfonica di Milano, sapientemente guidata da Boreyko. Trionfale per tutti l’accoglienza del pubblico (di affezionati…) con ovazioni, ululati di approvazione e ripetute chiamate per Direttore, prime parti e intere sezioni dell’ipertofico schieramento di Musikanten.

Ci sono ancora due repliche per approfittarne!