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27 aprile, 2014

Troiani ancora in trionfo alla Scala

 

Ieri la penultima recita di Les Troyens ha riscosso, come le precedenti del resto, un grande successo di pubblico (certo, un pubblico scarsino già di per sé, forse causa ponte, e ulteriormente scarseggiatosi ad ognuno dei tre intervalli).


Tutto si può dire di quest’opera tranne che non sia grande musica, però una grande musica è condizione necessaria, ma certo non sufficiente a fare una grande opera di teatro musicale. E a Les Troyens mancano appunto alcuni degli ingredienti necessari alla bisogna. Uno per tutti, non c’è un plot degno di questo nome: il tutto si riduce a scene liberamente tratte dall’Eneide, e a due storie – del tutto disgiunte – di crisi esistenziali di donne diversamente tradite dai maschi.

Quattro ore di musica eccellente non bastano a conferire all’opera quel che di attraente e di coinvolgente che solo un adeguato disegno drammatico potrebbe garantire. Insomma, assistere a Les Troyens è come (mutatis mutandis) ascoltare un concerto che abbia in programma la Fantastique, la Dramatique, la Grande symphonie funèbre et triomphale e, come intermezzi, l’Harold e Le carnival romain. Se ne esce francamente sazi (stra-smile!)

Detto ciò va dato atto ad Antonio Pappano di non aver impiegato ipocritamente l’arma del taglio (che sarebbe controproducente) per ovviare ad inconvenienti che risalgono alla natura stessa dell’opera. Le sue pochissime - e tutto sommato innocue – sforbiciatine hanno riguardato:

Primo atto, Danza dei lottatori (N°5): il da-capo;

- Terzo atto Coro generale (N°23): la prima parte del coro e il da-capo;

- Quarto atto, Pas des Almées (N°33): secondo da-capo;
- Quarto atto, Danse des Esclaves (N°33): fine prima sezione; seconda sezione; parte della terza sezione; penultimo da-capo.

In effetti si tratta soltanto di modesti interventi su ripetizioni o varianti di temi di scene di balletto o di coro: nessun motivo scritto da Berlioz in origine è andato perduto.

E Pappano è stato di sicuro l’artefice del successo di questa produzione, che per il resto si è mantenuta (a mio modestissimo parere) su un livello di assoluta dignità.

Parlando di voci darei la priorità al Coro di Mario Casoni, che in quest’opera la fa davvero da protagonista e che merita un elogio incondizionato.

Le due protagoniste hanno dato il meglio di sé forse più sul lato attoriale (merito anche del regista, certo) che su quello canoro, dove non sono mancate le mende (l’ottava bassa dell’Antonacci e quella alta della Barcellona). Con loro è spiccato Kunde per straordinaria presenza scenica e dignitosissima prestazione vocale (mi è parso meglio che alla prima, udita peraltro per radio).

Capitanucci (Corebo) sufficiente, ma non più, come il Panthée di Duhamel; meglio di loro Mukeria come Iabas; non male l’Hylas di Fanale (appollaiato su un trespolo a mezz’aria); ordinaria la prestazione di Prestia come Narbal e decisamente insoddisfacente l’Anna della Radner. Poco sopra la Gardina (en-travesti) come Ascanio. Tutti gli altri come da specifiche tecniche… con una menzione alla carriera per la Zilio (Ecuba) che ancora ha un vocione che sfida gli spazi siderali del Piermarini (!) 
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Sulla regìa di McVicar poco da… condannare: come suo solito lui non inventa Konzept cervellotici (che so, la Regina Elisabetta che si innamora di Osama bin Laden) o simili ri-ambientazioni lunatiche. Direi proprio che il suo sia un approccio didascalico: propinare al pubblico la storia di Virgilio come vista dalle lenti deformanti di Berlioz. Tutt’al più con pochi tocchi della serie famola strana, tipo:  

- Astianatte vestito di nero e non di bianco come la madre;
- il cavallone che sembra piuttosto il drago di Alberich o addirittura Fafner in persona (e pensare che Berlioz nemmeno voleva si vedesse in scena, l’enorme equino di legno, figuriamoci);
- Enea che arriva, si ferma, saluta e ossequia con tanto di inchino Andromaca e pargolo che escono di scena e poi, allo scoppio orchestrale, parte a razzo come un centometrista per raggiungere il proscenio e dare, tutto esagitato, la tremenda notizia della fine di Laocoonte (scottish humor?)
- tutto il coro che alla fine del primo atto, invece di rimanere sullo sfondo, invade il proscenio, col che priva Cassandra dello spazio vitale per mettere in risalto la sua ossessione (che questo sia l’obiettivo dell’Autore è fuor di dubbio);
- Didone issata in orizzontale dai fedeli cartaginesi come un allenatore dai suoi calciatori dopo la vittoria in una coppa;
- saltimbanchi che prendono il posto dei rappresentanti delle corporazioni;
- Enea e Didone che amoreggiano en plein air (anziché ingrottarsi sotto l’uragano) con ninfe e fauni che gli tengono bordone;
- nessuna differenziazione fra i soggetti dei balletti (Almee, Schiave e Schiave nubiane);
- Ascanio, che Berlioz aveva tanto faticato a sostituire a Cupido (vedi Virgilio) che invece McVicar rimette nei panni (anzi nelle… ali) del putto dell’amore, che poi l’anello di Didone (dono di Sicheo) se lo frega proprio…
  
Ma insomma, l’importante è che, nella buona sostanza, l’originale sia stato dignitosamente rappresentato, perfino negli aspetti più banalotti, come il fuoco che durante la tempesta  incendia l’albero, i cui rami fiammeggianti vengono portati in giro con sprezzo dei divieti dei VV.FF. (smile!)   
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Lo considero il punto più alto della presente stagione scaligera.

09 aprile, 2014

Il Berlioz di Pappano da Radio3

 

Dunque ieri la coppia Pappano-McVicar ha debuttato alla Scala importandovi (da Londra) Les Troyens. Radio3 ha diffuso in diretta questa prima, consentendoci almeno di prendere dimestichezza con l’interpretazione musicale dell’ipertrofico dramma di Berlioz (quanto allo spettacolo per gli occhi… vedremo più avanti).


A mio modesto parere il trionfatore della serata è stato Antonio Pappano, che ha guidato le sterminate masse orchestrali e vocali con una chiarezza assoluta; nulla gli è sfuggito (e ci ha fatto sfuggire) dei segreti di questa partitura: dalle macro-strutture ai minimi dettagli, dalle enfatiche scene corali alle sfumature dei passaggi più intimistici. Insomma, ha compiuto il miracolo di valorizzare al meglio un’opera che è facilissima da banalizzare se non la si padroneggia come si deve. E a parte un paio di ritornelli nei balletti dell’Atto quarto, non ha tagliato una sola battuta di musica.

Col beneficio del dubbio (legato alla ripresa audio) la Antonacci e la Barcellona mi pare abbiano ben figurato nei due ruoli principali: non giudico per ora l’aspetto strettamente vocale (la tecnologia fa sempre brutti scherzi…) ma la grande cura della dizione e dell’espressione che entrambe hanno mostrato, ciascuna nel proprio ruolo (e sono due ruoli abissalmente diversi). Forse mi aspettavo di più da Kunde, dico la verità: ho avuto l’impressione che sia arrivato in-riserva alla grande (e obiettivamente micidiale) aria del quinto atto.

A giudicare da ciò che si è udito per radio, pareva di essere al MET: tifo letteralmente da stadio, cosa assolutamente inconsueta per la Scala e per una prima in particolare! Meglio così.

19 settembre, 2011

Pappano con la Cecilia a Rimini


Il quarto e penultimo concerto della Sagra musicale malatestiana ha avuto come prestigiosi ospiti la migliore Orchestra italiana, guidata dal suo campione Antonio Pappano e la solista Hélène Grimaud. Accoglienza di pubblico adeguata al rango degli ospiti e Palacongressi ancora una volta stracolmo. Programma d'epoca, come d'epoca erano i bolidi che sfrecciavano ieri mattina borbottando sul lungomare, per il Gran Premio Nuvolari.


È Hélène Grimaud ad aprire la serata con il Primo concerto di Brahms. Già dalla lunga introduzione orchestrale si fa sentire il suono pulito, bellissimo, della Santa Cecilia (archi compatti come il pacchetto di mischia degli All-blacks e corni strepitosi) che obbedisce come un cagnolino al gesto – un po' sporco, se vogliamo, ma evidentemente efficace – di Pappano. Che detta un tempo per me quasi perfetto per il Maestoso (che è segnato da Brahms con 58 minime puntate) che, partendo da SIb, passando per LA e poi per RE maggiore, prepara l'ingresso in RE minore del solista. La bell'Hélène (smile!) mi è parsa voler depurare questo Brahms da ogni languidezza crepuscolare, per offrircene una interpretazione misurata e austera, cosa che personalmente condivido. Anche nell'Adagio e nel conclusivo Allegro non troppo (dove Brahms ha fornito solo indicazioni agogiche qualitative) ha staccato tempi piuttosto stretti, senza cadere in facili sdolcinature o in eccessi velocistici, rispettivamente. Calorosa accoglienza per lei, ripetutamente chiamata dal pubblico, che convince la francesina a regalarci un (in)solito bis.

Poi ecco la Scheherazade, uno dei capolavori di Rimski-Korsakov (qui qualche nota a margine di un'esecuzione de laVerdi). È la storia della bella principessa che, per sfuggire alla morte decretata dal suo sultano – un tizio poco raccomandabile, che applicava alle mogli la sbrigativa pratica dell'usa&getta - si inventa ogni notte una favola con cui distrarre il fetentone dalle sue poco simpatiche intenzioni. Anche noi oggigiorno abbiamo un pipistrello che cerca di sfangarsela – dai magistrati, nella fattispecie - inventando storielle a ripetizione: La piccola fiammiferaia Ruby, I due orfanelli tarantini, Il battello sulla Vitola, Ali Papa e i 40 spioni, I tre monti del milanese, Il segreto di bunga-bunga, Il colluttorio miracoloso di sorella Nicole, e così via fantasticando sulle 1000-e-1-notte-di-Arcore. Il celebre compositore Apicella sta scrivendo al proposito una suite, intitolata Beherluscazade

Ma bando alla deprimente attualità politica, e veniamo all'esecuzione dei ceciliani. Sugli scudi ovviamente le parti solistiche, quindi in primo luogo il Konzertmeister Carlo Maria Parazzoli, chiamato ad interpretare il ruolo della principessa; ma poi gli strumentini, che Rimski impegna spesso e volentieri in passaggi addirittura bestiali. Ma queste eccellenze non sono che diamanti incastonati in un gioiello meraviglioso, qual'è proprio l'intera compagine orchestrale. Non saprei cosa lodare di più di questa performance, che ha valorizzato al massimo tutte le bellezze di questa partitura – forse non sufficientemente apprezzata - che per me è davvero uno dei capolavori assoluti della musica. E quando Pappano, dopo aver messo a dormire prima il sultano e poi la principessa, abbassa le braccia sull'accordo perfetto di MI maggiore, impreziosito dal MI sovracuto in armonici del violino principale, è un uragano che si scatena in quel gran capannone che è il vecchio Palacongressi. Ripetute chiamate e non uno, ma due bis: l'Intermezzo pucciniano dalla Lescaut e la scatenata conclusione delle Ore ponchielliane. Insomma, una serata da tenere a memoria.

E così, dopo essere arrivati a Rimini (su un convoglio del loro socio fondatore Ferrovie Italiane, per caso guidato dall'AD Moretti? presente in sala…) sotto un soffocante garbino (32°) e con l'acqua del mare che pareva un brodo, i ceciliani se ne vanno lasciando dietro di sé temporali, acquazzoni e 10° in meno di temperatura: che l'estate stia finendo?
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12 aprile, 2011

Pappano e una grande Cecilia alla Scala


Ieri sera i santi romani della Cecilia, guidati da Antonio Pappano, sono stati ospiti della Scala per un Concerto benefico, a favore della CRI. Teatro non propriamente esaurito, ma questa volta gli assenti hanno avuto decisamente torto.

Qualcuno forse ricorderà che esattamente un anno fa una analoga visita già programmata da tempo (con la Seconda mahleriana in locandina) venne inopinatamente cancellata per non disturbarne un'altra, evidentemente considerata di priorità superiore (parlo del forestale ritorno di Abbado). Poi il destino (o qualcos'altro, per chi non gradisce gli eufemismi) ci mise lo zampino e così i milanesi, dalla possibilità di ascoltare due Auferstehung interpretate a breve distanza di tempo dalla prima orchestra italiana (guidata da un italo-albionico immigrato in Italia) e dall'orchestra del primo teatro italiano (guidata da un italiano che l'ha abbandonata da tempo per emigrare fra i crucchi) si ritrovarono con un pugno di mosche.

Ecco, la visita di ieri era una specie di risarcimento per il danno subito. E che risarcimento, accipicchia. Schumann-Brahms, un'accoppiata tanto classica quanto corposa, due cosucce proprio da niente: la Quarta e il Requiem!

Con Schumann si ha subito l'idea del valore di questa Orchestra (disposta precisamente secondo il layout tradizionale tedesco, violini secondi al proscenio e archi bassi al centro-sinistra) compatta in ogni sezione, suono chiaro, pulito e senza sbavature (gli ottoni hanno subito modo di mettere in mostra le loro qualità) e del suo Direttore, il cui gesto può magari sembrare goffo, ma dev'essere assolutamente efficace, a giudicare dai risultati. Una Quarta tirata tutta d'un fiato, con punte di diamante nella Romanza, con oboe e primo violino in bella evidenza, e nello strepitoso Presto conclusivo, dove il suono sale progressivamente dagli strumenti bassi (strepitosa qui la prestazione di contrabbassi e violoncelli) a quelli alti, come una serie di ondate successive.

Dopo l'intervallo arriva anche il coro di Ciro Visco, in uno con i solisti Rebecca Evans e Peter Mattei, per deliziarci con il brahmsiano Ein Deutsches Requiem. Le cui note hanno risuonato ieri a Milano dopo aver riempito di sé sabato e domenica l'Auditorium di Renzo Piano, prima di tornarvi ancora questa sera stessa.

Un Requiem tedesco: Brahms in effetti lo pensò come Una specie di Requiem; e nemmeno tedesco, ma semplicemente… umano! Che l'ispirazione musicale sia venuta da Bach non stupisce affatto (Mendelssohn aveva ormai resuscitato il grande Johann Sebastian) ed è stata ammessa candidamente dallo stesso Brahms, che rivelò di aver preso spunto per i temi del primo e secondo brano da un famoso corale di Bach, normalmente individuato come Wer nur den lieben Gott (quello della cantata BWV93). Il motivo è però rintracciabile prima ancora in un'altra cantata, la BWV27 (Wer weiss, wie nahe mir mein Ende?):

Quest'ultimo testo si avvicina fra l'altro in modo assai chiaro a quello del N°3 del Requiem: Herr, lehre doch mich, dass ein Ende mit mir haben muss.

La radice dello stesso tema si trova anche nel famoso Inno dell'Imperatore, musicato da Haydn in un quartetto e oggi Inno nazionale tedesco. E Brahms la richiamerà ancora vagamente, nel suo secondo concerto per pianoforte.

E non c'è dubbio che Brahms abbia anche pensato a Schumann (che aveva incluso un Requiem nei suoi incompiuti programmi): è stato già notato il richiamo ad un passo del Paradies und Peri nella seconda sezione del N°2:


Ma il momento (per me) più emozionante dell'intero Requiem è (nel N°3) il passaggio dal Nun, Herr, wes soll ich mich trösten (Adesso, Signore, con chi mi debbo consolare?) - ripetuto in piano dopo essere stato gridato in fortissimo - al canone di Ich hoffe auf dich (Io ripongo la mia speranza su di te). È il passaggio da una domanda angosciosa, quasi sconfortata, alla speranza – appunto - nel Creatore:
E che introduce la successiva fuga di proporzioni gigantesche, su Der Gerechten Seelen sind in Gottes Hand (Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio).

Ma a proposito di fughe colossali, come non restare colpiti ed ammirati da quella, in SIb maggiore, principiante con Die erlöseten des Herrn (I redenti dal Signore) che chiude il N°2. E poi da quella in DO maggiore, che conclude il N°6: Herr, du bist würdig zu nehmen Preis und Ehre und Kraft (Signore, tu sei meritevole di ricevere elogio e onore e potenza). Veri e propri monumenti eretti ad imperitura gloria di una stagione della civiltà musicale occidentale, anzi mitteleuropea, che non ha (for the time being) uguali al mondo.

Si è giustamente scritto che il Requiem brahmsiano è distante le mille miglia da quelli cattolici, tutti incentrati sul tremendo - e assai poco divino, diciamolo chiaramente - Dies Irae (ecco, se Dio è soggetto all'ira… ma che c. di dio è?) e non per nulla nel N°6 Brahms musica versi del tutto lontani dalla liturgia cattolica:

Poichè la tromba suonerà,
e i morti saranno resuscitati
incorruttibili,
e noi saremo trasformati.
Allora si adempirà
la parola, che sta scritta:
La morte è divorata nella vittoria.
Morte, dov'è il tuo aculeo?
Inferno, dov'è la tua vittoria?

(Peccato che Lutero non ce l'abbia fatta a valicare le Alpi, smile!!!)

Ecco, musica come questa sa conciliare come null'altro fede e ragione, anelito al trascendente e orgogliosa rivendicazione delle straordinarie prerogative dell'Uomo. Merito di Pappano, Visco e dei loro eccezionali musicisti, oltre che degli impeccabili Evans-Mattei, di averci emozionato ancora una volta ascoltando questo capolavoro. Alla fine grandi ovazioni per tutti (con qualche isolata disapprovazione per il solo Pappano? Forse c'era qualcuno dai gusti troppo raffinati o dal cuore troppo freddo…) Certo è che alla Scala non capita spesso di ascoltare musica a questi livelli.

30 marzo, 2011

Pappano alla Scala per la CRI



Lunedi 11 aprile Antonio Pappano e gli accademici di Santa Cecilia si esibiranno alla Scala in un concerto benefico a favore della Croce Rossa Italiana, Sezione femminile.

In programma la Quarta di Schumann e il Requiem brahmsiano.

Qualcuno ha voluto preparare un breve video promozionale: la musica che si ascolta è sì un Requiem diretto da Pappano con S.Cecilia, ma è quello di Verdi. Come diceva quel tale? Tanto per la precisione
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11 gennaio, 2010

Henze e Mahler a SantaCecilia

Poco fa Radio3 ha irradiato in diretta la seconda esecuzione (dopo la prima assoluta di domenica) di Opfergang di Hans-Werner Henze diretta da Antonio Pappano con la SantaCecilia.

Il Maestro legge un breve e poetico sunto dell'Opera, scritto proprio dal compositore, ci fa una rapida analisi del brano e poi si mette al pianoforte, che concerta con l'orchestra a supporto dei cantanti. Che dire? Difficile giudicare al primo ascolto (e probabilmente anche al secondo e terzo e quarto… come sempre accade quando ci si confronta con la tecnologia musicale dodecafonica); restano le sensazioni epidermiche di una musica che non sembra lasciare spazio alcuno a ottimismo e positività… che però emergono proprio quando la musica tace, nelle parole del cagnolino ormai passato a miglior vita: Die Liebe fängt an (comincia l'Amore).

A seguire Das Lied von der Erde di Mahler. Musicista che scopriamo oggi - grazie all'agenzia di stampa del simpatico Capezzone (detto anche la-voce-del-padrone) - aver vissuto fino alla veneranda età di 100 anni!

C'è un legame artistico-estetico fra le due opere: il concetto di morte, fisicamente imposta o serenamente prefigurata; poi anche uno biografico, impersonato da Franz Werfel, autore del testo di Opfergang e terzo marito (dopo Mahler e Gropius) di Alma Schindler.

Esecuzione davvero impeccabile dell'orchestra (non così mi è parso della ripresa audio, che spesso ha messo i legni troppo in primo piano); qualche sbavatura negli attacchi dei cantanti, comunque più che meritevoli e pulitissima l'interpretazione di Pappano, che mi è parso rispettare alla virgola la lettera e lo spirito di questa straordinaria partitura.

12 novembre, 2009

Antonio Pappano alla Scala

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Tutto russo il programma con cui Antonio Pappano è stato ospite – 8, 10 e 11 novembre - della Stagione concertistica del Teatro alla Scala. Per quel complicato e un po’ levantino rapporto che intercorre fra Filarmonica e Teatro (dove si alternano e si mescolano i ruoli di cliente e fornitore) Pappano ha anche inaugurato sabato 7 – con diretta su Radio3 - la Stagione concertistica della Filarmonica, con un programma di poco diverso (Prokofiev invece di Shostakovich nel concerto solistico).

Ieri sera l’affluenza è stata buona, anche se non c’era proprio il tutto esaurito (molti vuoti nei palchi, e in effetti parecchi posti di palco erano offerti in internet ancora a due ore dal concerto). Magari quel Rachmaninov sinfonico può aver lasciato un tantino perplessi…

Un’occhiata all’Orchestra, che Pappano dispone secondo layout moderno, ma scambia seggiole e leggìi di violoncelli e viole, mettendo queste ultime in primo piano (forse per “rischiarare” il suono).

Si apre, come nelle migliori tradizioni concertistiche, con una pagina di grande effetto: l’Ouverture di Ruslan & Ljudmila di Glinka. I cronisti di Radio3 sabato anticipavano che Pappano la esegue con grandissima velocità. La partitura indica un metronomo di 140 minime al minuto (anzi in una copia 135) e farla a gran velocità significherebbe imitare questo Mravinsky, che la attacca addirittura a 180! Diciamo che Pappano, ad orecchio e croce, ha rispettato (sia sabato che ieri) i dettami di Glinka. Nonostante ciò, qualcuno degli ottoni fa subito una spernacchiata. Pazienza, ad ogni buon conto il risultato di riscaldare il pubblico (e anche di consentire a qualche ritardatario di prendere posto in palco senza essere troppo di disturbo) è conseguito alla grande.

Poi abbiamo un’opera assai difficile, oltre che interessante: il primo concerto per violoncello di Shostakovich (composto esattamente 50 anni fa, come omaggio al grande Mstislav) suonato da Han-Na Chang, 27enne coreana già di casa in Italia prima di esplodere come grande star, a nemmeno 12 anni, nel 1994 (un refuso sul programma di sala recita 1944!) Per lei l’Op.107 del russo è un cavallo di battaglia, una passione certo trasmessale dai suoi maestri: il destinatario dell’opera, Rostropovich, e il “senese” Mischa Maisky, a sua volta grande interprete del concerto. Su youtube si può trovare una sua esecuzione ai Proms-2006, con la BBC National Orchestra of Wales, diretta da Tadaaki Otaka (Allegretto, Moderato-a, Moderato-b, Cadenza, Allegro con moto) proprio nel periodo in cui la coreana registrò il concerto con Pappano. C’è anche la prima incisione di Rostropovich e Ormandy con la Philadelphia (Allegretto, Moderato, Cadenza, Allegro con moto). E altre ancora.
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La ragazza – in un lungo e scollato verde smeraldo - dà veramente spettacolo, ben supportata da un Pappano che da tempo ha con lei un grande affiatamento. E che in questo concerto – tutto sbilanciato sulla solista, dove l’orchestra nel suo insieme quasi non esiste, salvo che fugacemente nel Moderato e nel finale, sostituita da interventi a loro volta solistici di pochi strumenti (corno, strumentini, timpano, celesta) – si assume il compito di garantirle il massimo rilievo. Durante i 5 minuti della Cadenza non si sente volare una mosca (l’influenza A, tossi, raffreddori e bronchiti non hanno ancora evidentemente contagiato alcuno dei musicofili scaligeri… e nessun telefonino viene raggiunto da polifoniche chiamate): un orchestrale alza e abbassa l’archetto, un altro si passa la mano sotto il naso, un altro ancora si accarezza un sopracciglio, tutto qua. Pappano resta – capo chino – immobile con la mano sinistra appoggiata al leggìo. Solo quando la Chang arriva al conclusivo molto mosso, Pappano si muove anche lui, ma solo per girare la pagina della partitura, in vista del finale. Per dire, quanta religiosità si avvertiva nell’aria! Alla fine, dopo lo strappo forse fin troppo rumoroso del timpano, grandi applausi e nessun bis, ma obiettivamente il concerto è talmente ricco e impegnativo per la solista, che il pubblico deve più che mai accontentarsi. E poi la musica di Shostakovich qui è talmente percussiva che alla povera Chang erano ormai rimasti solo due o tre fili di crine sull’archetto, per cui rischiava di dover suonare il bis col legno.

Della seconda sinfonia di Rachmaninov ricorreva lo scorso anno il centenario dalla prima esecuzione. Sinfonia quindi coeva di quelle dell’ultimo Mahler, tanto per orizzontarsi un po’. Ma davvero lontana – diciamo pure… verso il basso – anni luce dai capolavori del boemo. Se quest’ultimo faceva tesoro delle innovazioni wagneriane, innestandole sul corpo della sinfonia fino a stravolgerla, per metterci dentro tutto il suo programma filosofico ed esistenziale – esplicito o criptico che fosse - il russo sembra, nella seconda, avere semplicemente cercato un’omologazione formalistica – magari in omaggio a Dresda, che lo ospitava al tempo e dove poteva sentire tanta grande musica - ad alcune sue idee-fisse e al suo modo di esprimersi in musica. Incidentalmente, fra Rachmaninov e Mahler ci furono, nel 1910 a New York, rapporti assai calorosi e proficui: fu grazie alla direzione di Mahler se il fresco terzo concerto per pianoforte del russo raggiunse l’apice della popolarità. Tornando alla sinfonia, che Pappano – nell’intervista rilasciata alla radio – abbia speso per questa espressioni iperboliche… beh, diciamo che fa parte del comprensibile marketing per un programma da presentare in un teatro importante, oltre che delle legittime simpatie che un Direttore ha il diritto di nutrire per una certa opera. Va comunque detto – a tutto merito del compositore – che alcune sue idee sono divenute più tardi degli interessanti spunti per altri musicisti russi, segnatamente Prokofiev e soprattutto Shostakovich (certo non a caso affiancati da Pappano a Rachmaninov nei 4 concerti degli scorsi giorni).

L’introduzione Largo del primo tempo ricorda vagamente l’atmosfera del famosissimo secondo concerto per pianoforte, scritto qualche anno prima. Ma si intravedono anche delle reminiscenze tristaniane. Il tutto in una scolastica applicazione della forma sonata di buona memoria haydniana. Peccato che i contenuti estetici – o se si preferisce, la narrativa dei temi – siano di una mediocrità desolante. Nell’esposizione, al primo tema, che con scarsa fantasia riprende in Allegro moderato quello in MI minore dell’introduzione, segue il secondo tema nella relativa SOL maggiore, una melodia orecchiabile (un frammento della quale si può rintracciare nel Largo della quinta sinfonia di Shostakovich) che si impaluda però senza ulteriore costrutto. Meno male che Pappano non si è sognato di fare il da-capo, chè anche riascoltando cento volte l’esposizione si faticherebbe ad esserne particolarmente stimolati. Lo sviluppo, che è insieme anche ricapitolazione, aperto magistralmente dal violino solo, arricchisce il primo tema con cupe divagazioni e folate che richiamano la scozzese di Mendelssohn; poi la sezione centrale contiene pesanti interventi degli ottoni – quasi perfetti, qui, i filarmonici - con ripetute e drammatizzanti quinte e poi ottave discendenti che portano il climax all’incandescenza, prima che un diminuendo conduca al secondo tema, esposto nel canonico MI maggiore preparato dagli accordi degli strumentini, che viene arricchito – si fa per dire – da qualche slancio ciajkovskiano. Il MI minore riprende quindi bruscamente il sopravvento, chiudendo il movimento con gran fracasso e – gratuita civetteria del velleitario Sergei – facendo seguire all’ultimo accordo dell’orchestra al gran completo un MI sforzato dei soli violoncelli e contrabbassi, che a chi non ha dato un’occhiata alla partitura appare normalmente come un clamoroso fuori tempo di quegli strumentisti. E proprio ad evitare fraintendimenti, Pappano quasi raddoppia la lunghezza della semiminima conclusiva e di quella vuota che la precede.

Va però dato atto a Rachmaninov di sciorinare una discreta inventiva nell’Allegro molto in LA minore, con quel vigoroso segnale dei corni a cui gli archi rispondono con uno stilema che diventerà caratteristico di tanti passaggi di Shostakovich. Il secondo tema, nella relativa DO maggiore, richiama – dilatato - il primo tema del movimento iniziale. Il movimento ha una struttura simmetrica: esposizione dei temi A-B-A; sezione centrale di vaste proporzioni, dove archi e strumentini, spesso in staccato, e con pesanti interventi degli ottoni, disegnano arabeschi spettrali, che Pappano fa eseguire con grande maestrìa; poi riesposizione variata dei temi A-B-A e successivo corale degli ottoni – un ritorno del Dies Irae, davvero un’idea-fissa del nostro, chissà se mutuata da Berlioz - per introdurre la lugubre chiusa in ppp, lasciata a pochi strumenti (archi, clarinetto e timpano). Bravi davvero anche qui tutti gli ottoni scaligeri nel rendere al meglio l’ambientazione del brano. Così come l’addetto al glockenspiel, che ha una parte di tutto rilievo.

Nel Largo in LA maggiore sentiamo il tema principale, che parte dalla tonica e sale all’ottava superiore passando attraverso mediante, dominante e settima, per poi appoggiarsi sulla sesta, e sembra una classica musica da film hollywoodiano (qualche anno fa ne fu ricavata anche una canzonetta). Il clarinetto presenta poi una lunga – e francamente stucchevole e poco incisiva – linea melodica, una scimmiottatura in peggio di quella del tempo centrale del secondo concerto per pianoforte, che sfocia nella riproposizione del tema principale negli archi. Pappano cerca di indorarci la pillola, ottenendo dai secondi violini un bel pianissimo per le loro ondeggianti terzine, ma è davvero difficile cavar sangue da questa rapa rachmaninoviana! Ricompare il primo tema del movimento iniziale, quasi un motto della sinfonia, sviluppato ampiamente, fino al ritorno del tema del Largo, che chiude in DO maggiore. Segue poi la seconda sezione, con i fiati in bella evidenza, che sviluppa i temi e conduce al ritorno a La maggiore, su cui abbiamo – altro squarcio per la verità interessante - la conclusione intimistica, una cadenza che sta a metà fra la reminiscenza di quella dell’Adagietto della quinta e l’anticipazione di quella conclusiva della nona mahleriana, in cui Pappano guida le viole proprio prendendole per mano, sul pizzicato degli archi bassi.

Il finale Allegro vivace, forma sonata, si apre con una sorta di saltarello in MI maggiore: ci si scorge financo funiculì-funiculà, che già Richard Strauss aveva infilato nel suo Aus Italien. Dopo una breve divagazione marziale di strumentini e corni, le trombe vi inseriscono un richiamo del segnale dei corni del secondo movimento. Il tema si chiude con arpeggi di terzine che riecheggiano Scriabin, che quasi contemporaneamente componeva il suo Poema dell’estasi. Poi abbiamo un tema in RE maggiore - che richiama quello in SOL del primo movimento (qualcuno ci potrà scorgere anche lo Schubert dell’Andante con moto dell’Incompiuta) – che si sviluppa assai ampiamente, per far posto a quello del Largo, che ritorna nella breve sezione in Adagio, sempre in RE, contrappuntato col motto dagli strumentini. Poi la ripresa del tema iniziale, variato à la Mendelssohn (scherzo del Sogno) e quindi, dopo il passo marziale, il secondo tema viene canonicamente riproposto nella tonalità principale di MI maggiore e conduce sempre più enfaticamente verso la conclusione, con piatti e gran cassa elargiti a piene mani.

Ecco, va dato atto al Maestro Pappano e ai Professori di averci messo tutto il miglior impegno: Rachmaninov ha proprio di che ringraziarli dalla tomba, se applausi ed ovazioni sono andati un pochino anche a lui!

(Domenica sera la Scala ospiterà gli albionici della London Symphony con Harding, per un concertone di quelli davvero tosti).
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02 novembre, 2009

Ascolti in web (BBC): il Tristan di Pappano alla ROH


Sabato sera la BBC ha trasmesso la registrazione di un’edizione recente del Tristan diretto da Antonio Pappano al Covent Garden. Non è scritto, né è detto di quale rappresentazione si tratti, ma la composizione del cast dovrebbe restringere la rosa delle date al 9 o 15 ottobre u.s.

Edizione che ha riscosso all’esordio consensi e critiche sul lato regìa (a quanto si legge sulle recensioni e si intuisce dalle foto, ennesimo esempio di frusto e velleitario Regietheater, o meglio Eurotrash, perpetrato per l’occasione da Christof Loy) – cosa che all’ascoltatore del solo audio interessa poco o punto - ed anche commenti non proprio entusiastici (insieme a peana e panegirici un poco sospetti, anche se autorevoli, poiché segnalati dal sito della ROH) sullo stesso Pappano – e questo è già più preoccupante. Però sono quasi tutti commenti alla prima del 30 settembre ed evidentemente qualcosa è migliorato in seguito, poiché ciò che si sente non è per nulla disprezzabile.

Ben Heppner è Tristan e Nina Stemme Isolde. Ma tutto il cast è di prim’ordine, a cominciare da quell’inossidabile Marke che risponde al nome di Matti Salminen. Michael Volle è Kurwenal e Sophie Koch interpreta Brangäne.

Che dire? Alti e bassi nelle voci. I bassi quasi tutti da addebitare al povero Heppner, evidentemente ormai alla frutta in questo ruolo, sempre impiccato ed a volte steccante sui LA e pure sui SOL, davvero insufficiente nel secondo atto, dove è addirittura calante in intere frasi… Nel terzo atto canta all’ottava sotto il LA del nicht (zu sterben) e poi rinuncia proprio a tentare quello del Trank; pare ormai irrimediabilmente perduto… invece raccoglie le residue forze e miracolosamente migliora - va detto – proprio da lì in avanti e torna quasi (quasi) all’altezza nella scena dell’ultimo delirio, fino all’estremo LA acuto (zu ihr) - la sua penultima parola - prima di esalare il morente Isolde. Note positive per la Stemme, quantunque a volte - non sempre - emetta sgradevoli urli sugli acuti. La sua Liebestod è pulita, pur senza suscitare supreme emozioni. La Koch è davvero notevole in quel ruolo. Bravo anche Volle e bravissimo – guarda un po’ - Salminen.

La direzione per me non è affatto censurabile e trovo eccessivi certi commenti di blog specializzati britannici, che si strappano le vesti per la riconferma di Pappano alla ROH fino al 2012, auspicandone il licenziamento immediato. Certo, il Preludio è costellato da parecchie libertà di tempi, ma per il resto Pappano tiene bene in mano la situazione. Un esempio: l’incipit dell’Atto III, uno dei punti più critici del dramma. Del resto, lui era a Bayreuth negli anni ’90 come assistente di Barenboim, e qualcosa dovrà pur aver succhiato dalle mammelle wagneriane del maestro argentino-israelo-tedesco…

C’è ancora tempo fino a tutto venerdì 6 per ascoltare la performance con comodo, collegandosi a questo link. Dato che non costa (quasi) nulla, è cosa che consiglierei comunque di fare. Fosse invece un CD (o peggio, un DVD) da acquistare, francamente sarei propenso a destinare gli euri ad un impiego migliore.
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