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27 aprile, 2014

Troiani ancora in trionfo alla Scala

 

Ieri la penultima recita di Les Troyens ha riscosso, come le precedenti del resto, un grande successo di pubblico (certo, un pubblico scarsino già di per sé, forse causa ponte, e ulteriormente scarseggiatosi ad ognuno dei tre intervalli).


Tutto si può dire di quest’opera tranne che non sia grande musica, però una grande musica è condizione necessaria, ma certo non sufficiente a fare una grande opera di teatro musicale. E a Les Troyens mancano appunto alcuni degli ingredienti necessari alla bisogna. Uno per tutti, non c’è un plot degno di questo nome: il tutto si riduce a scene liberamente tratte dall’Eneide, e a due storie – del tutto disgiunte – di crisi esistenziali di donne diversamente tradite dai maschi.

Quattro ore di musica eccellente non bastano a conferire all’opera quel che di attraente e di coinvolgente che solo un adeguato disegno drammatico potrebbe garantire. Insomma, assistere a Les Troyens è come (mutatis mutandis) ascoltare un concerto che abbia in programma la Fantastique, la Dramatique, la Grande symphonie funèbre et triomphale e, come intermezzi, l’Harold e Le carnival romain. Se ne esce francamente sazi (stra-smile!)

Detto ciò va dato atto ad Antonio Pappano di non aver impiegato ipocritamente l’arma del taglio (che sarebbe controproducente) per ovviare ad inconvenienti che risalgono alla natura stessa dell’opera. Le sue pochissime - e tutto sommato innocue – sforbiciatine hanno riguardato:

Primo atto, Danza dei lottatori (N°5): il da-capo;

- Terzo atto Coro generale (N°23): la prima parte del coro e il da-capo;

- Quarto atto, Pas des Almées (N°33): secondo da-capo;
- Quarto atto, Danse des Esclaves (N°33): fine prima sezione; seconda sezione; parte della terza sezione; penultimo da-capo.

In effetti si tratta soltanto di modesti interventi su ripetizioni o varianti di temi di scene di balletto o di coro: nessun motivo scritto da Berlioz in origine è andato perduto.

E Pappano è stato di sicuro l’artefice del successo di questa produzione, che per il resto si è mantenuta (a mio modestissimo parere) su un livello di assoluta dignità.

Parlando di voci darei la priorità al Coro di Mario Casoni, che in quest’opera la fa davvero da protagonista e che merita un elogio incondizionato.

Le due protagoniste hanno dato il meglio di sé forse più sul lato attoriale (merito anche del regista, certo) che su quello canoro, dove non sono mancate le mende (l’ottava bassa dell’Antonacci e quella alta della Barcellona). Con loro è spiccato Kunde per straordinaria presenza scenica e dignitosissima prestazione vocale (mi è parso meglio che alla prima, udita peraltro per radio).

Capitanucci (Corebo) sufficiente, ma non più, come il Panthée di Duhamel; meglio di loro Mukeria come Iabas; non male l’Hylas di Fanale (appollaiato su un trespolo a mezz’aria); ordinaria la prestazione di Prestia come Narbal e decisamente insoddisfacente l’Anna della Radner. Poco sopra la Gardina (en-travesti) come Ascanio. Tutti gli altri come da specifiche tecniche… con una menzione alla carriera per la Zilio (Ecuba) che ancora ha un vocione che sfida gli spazi siderali del Piermarini (!) 
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Sulla regìa di McVicar poco da… condannare: come suo solito lui non inventa Konzept cervellotici (che so, la Regina Elisabetta che si innamora di Osama bin Laden) o simili ri-ambientazioni lunatiche. Direi proprio che il suo sia un approccio didascalico: propinare al pubblico la storia di Virgilio come vista dalle lenti deformanti di Berlioz. Tutt’al più con pochi tocchi della serie famola strana, tipo:  

- Astianatte vestito di nero e non di bianco come la madre;
- il cavallone che sembra piuttosto il drago di Alberich o addirittura Fafner in persona (e pensare che Berlioz nemmeno voleva si vedesse in scena, l’enorme equino di legno, figuriamoci);
- Enea che arriva, si ferma, saluta e ossequia con tanto di inchino Andromaca e pargolo che escono di scena e poi, allo scoppio orchestrale, parte a razzo come un centometrista per raggiungere il proscenio e dare, tutto esagitato, la tremenda notizia della fine di Laocoonte (scottish humor?)
- tutto il coro che alla fine del primo atto, invece di rimanere sullo sfondo, invade il proscenio, col che priva Cassandra dello spazio vitale per mettere in risalto la sua ossessione (che questo sia l’obiettivo dell’Autore è fuor di dubbio);
- Didone issata in orizzontale dai fedeli cartaginesi come un allenatore dai suoi calciatori dopo la vittoria in una coppa;
- saltimbanchi che prendono il posto dei rappresentanti delle corporazioni;
- Enea e Didone che amoreggiano en plein air (anziché ingrottarsi sotto l’uragano) con ninfe e fauni che gli tengono bordone;
- nessuna differenziazione fra i soggetti dei balletti (Almee, Schiave e Schiave nubiane);
- Ascanio, che Berlioz aveva tanto faticato a sostituire a Cupido (vedi Virgilio) che invece McVicar rimette nei panni (anzi nelle… ali) del putto dell’amore, che poi l’anello di Didone (dono di Sicheo) se lo frega proprio…
  
Ma insomma, l’importante è che, nella buona sostanza, l’originale sia stato dignitosamente rappresentato, perfino negli aspetti più banalotti, come il fuoco che durante la tempesta  incendia l’albero, i cui rami fiammeggianti vengono portati in giro con sprezzo dei divieti dei VV.FF. (smile!)   
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Lo considero il punto più alto della presente stagione scaligera.

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