Ieri la penultima recita di Les Troyens ha riscosso, come le precedenti del resto,
un grande successo di pubblico (certo, un pubblico scarsino già di per sé, forse
causa ponte, e ulteriormente scarseggiatosi ad ognuno dei tre intervalli).
Tutto si può dire di quest’opera
tranne che non sia grande musica, però una grande musica è condizione
necessaria, ma certo non sufficiente a fare una grande opera di teatro
musicale. E a Les Troyens mancano
appunto alcuni degli ingredienti necessari alla bisogna. Uno per tutti, non c’è
un plot degno di questo nome: il
tutto si riduce a scene liberamente
tratte dall’Eneide, e a due storie – del tutto disgiunte – di crisi
esistenziali di donne diversamente tradite dai maschi.
Quattro ore di musica eccellente non
bastano a conferire all’opera quel che
di attraente e di coinvolgente che solo un adeguato disegno drammatico potrebbe
garantire. Insomma, assistere a Les Troyens è come (mutatis mutandis) ascoltare un concerto che abbia in programma la Fantastique, la Dramatique, la Grande symphonie
funèbre et triomphale e, come intermezzi, l’Harold e Le carnival romain.
Se ne esce francamente sazi (stra-smile!)
Detto ciò va dato atto ad Antonio Pappano di non aver impiegato
ipocritamente l’arma del taglio (che
sarebbe controproducente) per ovviare ad inconvenienti che risalgono alla
natura stessa dell’opera. Le sue pochissime - e tutto sommato innocue – sforbiciatine
hanno riguardato:
-
Primo
atto, Danza dei lottatori (N°5): il da-capo;
- Terzo atto
Coro generale (N°23): la prima
parte del coro e il da-capo;
- Quarto atto, Pas des Almées (N°33): secondo
da-capo;
- Quarto atto, Danse des Esclaves (N°33):
fine prima sezione; seconda sezione; parte della terza sezione; penultimo
da-capo.
In effetti si tratta soltanto di
modesti interventi su ripetizioni o varianti di temi di scene di balletto o di
coro: nessun motivo scritto da Berlioz in origine è andato perduto.
E Pappano è stato di sicuro l’artefice
del successo di questa produzione, che per il resto si è mantenuta (a mio
modestissimo parere) su un livello di assoluta dignità.
Parlando di voci darei la priorità al Coro di Mario Casoni, che in quest’opera la fa davvero da protagonista e
che merita un elogio incondizionato.
Le due protagoniste hanno dato il
meglio di sé forse più sul lato attoriale (merito anche del regista, certo) che
su quello canoro, dove non sono mancate le mende (l’ottava bassa dell’Antonacci e quella alta della Barcellona). Con loro è spiccato Kunde per straordinaria presenza scenica
e dignitosissima prestazione vocale (mi è parso meglio che alla prima, udita peraltro per radio).
Capitanucci (Corebo) sufficiente,
ma non più, come il Panthée di Duhamel;
meglio di loro Mukeria come Iabas;
non male l’Hylas di Fanale
(appollaiato su un trespolo a mezz’aria); ordinaria la prestazione di Prestia come Narbal e decisamente
insoddisfacente l’Anna della Radner.
Poco sopra la Gardina (en-travesti) come Ascanio. Tutti gli
altri come da specifiche tecniche… con una menzione alla carriera per la Zilio (Ecuba) che ancora ha un vocione
che sfida gli spazi siderali del Piermarini (!)
___
Sulla regìa di McVicar poco da… condannare: come suo solito lui non inventa Konzept cervellotici (che so, la Regina
Elisabetta che si innamora di Osama bin Laden) o simili ri-ambientazioni
lunatiche. Direi proprio che il suo sia un approccio didascalico: propinare al
pubblico la storia di Virgilio come vista dalle lenti deformanti di Berlioz.
Tutt’al più con pochi tocchi della serie famola
strana, tipo:
- Astianatte vestito di nero e non di
bianco come la madre;
- il cavallone che sembra piuttosto il
drago di Alberich o addirittura Fafner in persona (e pensare che Berlioz
nemmeno voleva si vedesse in scena, l’enorme equino di legno, figuriamoci);
- Enea che arriva, si ferma, saluta e
ossequia con tanto di inchino Andromaca e pargolo che escono di scena e poi,
allo scoppio orchestrale, parte a razzo come un centometrista per raggiungere
il proscenio e dare, tutto esagitato, la tremenda notizia della fine di
Laocoonte (scottish humor?)
- tutto il coro che alla fine del
primo atto, invece di rimanere sullo sfondo, invade il proscenio, col che priva
Cassandra dello spazio vitale per mettere in risalto la sua ossessione (che
questo sia l’obiettivo dell’Autore è fuor di dubbio);
- Didone issata in orizzontale dai
fedeli cartaginesi come un allenatore dai suoi calciatori dopo la vittoria in
una coppa;
- saltimbanchi che prendono il posto
dei rappresentanti delle corporazioni;
- Enea e Didone che amoreggiano en plein air (anziché ingrottarsi sotto l’uragano)
con ninfe e fauni che gli tengono bordone;
- nessuna differenziazione fra i soggetti
dei balletti (Almee, Schiave e Schiave nubiane);
- Ascanio, che Berlioz aveva tanto faticato
a sostituire a Cupido (vedi Virgilio) che invece McVicar rimette nei panni (anzi
nelle… ali) del putto dell’amore, che poi l’anello di Didone (dono di Sicheo) se
lo frega proprio…
Ma insomma, l’importante è che, nella buona
sostanza, l’originale sia stato dignitosamente rappresentato, perfino negli aspetti
più banalotti, come il fuoco che durante la tempesta incendia l’albero, i cui rami fiammeggianti vengono
portati in giro con sprezzo dei divieti dei VV.FF. (smile!)
___
Lo considero il punto più alto della
presente stagione scaligera.
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