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18 marzo, 2019

L’Orfeo di Carsen-Capuano-Vistoli a Roma


L’Orfeo di Gluck ieri pomeriggio in un Costanzi piuttosto affollato (ma non esaurito) è arrivato alla seconda recita delle 5 (+1) in programma.  

Carlo Vistoli era al centro dell’attenzione e devo dire che il combinato disposto della scrittura di Gluck, piuttosto sobria, e delle dimensioni non proibitive del teatro (dotato fra l’altro di buona acustica) ha contribuito a garantire alla sua prestazione un’accettabile efficacia, non facendo troppo rimpiangere i robusti suoni di contralto che da sempre siamo abituati a sentir uscire dalla bocca di Orfeo. Personalmente, avendo ascoltato (solo in registrazione, devo precisare) il sopranista Jaroussky (a Parigi nel maggio 2018) mi sentirei di dare un voto più alto a Vistoli, non fosse altro che per la miglior appropriatezza della sua voce di contraltista rispetto alle caratteristiche del personaggio. Ottima anche la sua presenza scenica.   

Onesto e non di più il contributo dei due soprani Mariangela Sicilia (Euridice) ed Emőke Baráth (ormai specialista del ruolo di Amore): due vocine abbastanza piccole e debolucce nei centri e nei gravi. Lodevole invece l’apporto del coro di Roberto Gabbiani (invero fondamentale in quest’opera).

Tutti autorevolmente concertati dall’esperta bacchetta di Gianluca Capuano (esordiente sul podio romano, ma che gli appassionati de laVerdi conoscono bene per le comparse in Auditorium con il suo ensemble vocale nel repertorio barocco). Al direttore mi sentirei di muovere un solo modesto rimprovero: qualche eccesso di... foga riguardo ai tempi. Senza pecche l’orchestra, con un plauso all’oboe per il suo intervento che anticipa il wagneriano venerdi santo.

Nonostante la durata dell’opera originale sia già abbastanza contenuta (circa 90’ netti) qui alcuni tagli (un paio relativamente piccoli, nel second’atto: da-capo omessi nei balli e nel coro finale; uno invece assai corposo: l’intero ballo, nel finale ultimo) la riducono a circa 75’: a parte la citata speditezza dei tempi di Capuano, c’è da esser certi che questo esito sia legato alle scelte estetiche e interpretative di Carsen (riprendo l’argomento più avanti). Un altro modesto (e quasi irrilevante) intervento sulla partitura riguarda il ballo degli eroi (in SIb) del second’atto: spostato - anche qui direi per esigenze sceniche (lo svestimento di Euridice nell'Eliso) - da prima a dopo il recitativo di Orfeo.

In definitiva, una prestazione musicale di cui ci si può accontentare, ecco. E anche il pubblico romano ha mostrato di gradirla, riservando applausi (non da stadio, peraltro...) per tutti quanti.
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Come noto, la messinscena di Carsen è una rivisitazione di suoi precedenti lavori (2006 e 2011) quindi di essa già si conoscevano pregi e difetti. Le scene di Tobias Hoheisel sono ispirate a severo minimalismo (tipo Wieland Wagner, per intenderci) in modo da concentrare l’attenzione dello spettatore sul canto e sulla recitazione dei protagonisti: uno spoglio e scuro terreno sabbioso circondato da un cyclorama bianco sul quale a volte si stagliano le silhouette dei personaggi. Costumi (pure di Hoheisel) di foggia moderna quanto anonima. Luci (Carsen e Peter van Praet) gestite con la proverbiale abilità del regista: illuminazione laterale, obliqua, retrostante.

Carsen, perseguendo l’obiettivo di enfatizzare gli aspetti più esistenzialisti del dramma, abolisce poi ogni sovrastruttura accessoria (non certo per fare della spending-review...) Quindi, oltre al minimalismo con cui caratterizza le scene, minimalizza o cancella tutto ciò che striderebbe con la sua concezione dell’opera: come i balli e le conseguenti coreografie. Che peraltro furono concepiti da Gluck-Calzabigi come parti integranti e non certo accessorie dell’opera, come ci conferma Giovanni Bietti nel suo intervento sul programma di sala. Sul quale è però sorprendente leggere un’affermazione del regista - nell’intervista rilasciata a Leonetta Bentivoglio - secondo il quale nella versione originale viennese del 1762 non ci sono danze! Beh, come spiegazione dei suoi barbari tagli, non c’è male...

In definitiva - a parte lo scippo consumato ai danni dell’ascoltatore, che si perde parecchia musica di ottima fattura - lo spettacolo rischia di diventare fin troppo serio se non monocorde. Se osserviamo la macro-struttura dei tre atti dell’opera, la potremmo (usando un termine musicale) definire come un semplice rondò: A-B-A-B-A. Dove le sezioni A sono caratterizzate da: giorno, luce e natura idilliaca; le B da notte, oscurità e natura orrida e infernale. Orbene, Carsen ci presenta invece solo uno scenario di tipo B, se si esclude il finale (Trionfi amore) peraltro abbastanza slavato. E meno male che il regista non ha ripetuto l’operazione perpetrata all’Alcina, dove aveva tagliato di netto il lieto-fine!

Parliamo adesso di Natura e Poesia. Se prendiamo ad esempio la prima scena, nell’originale ci troviamo una cerimonia funebre che avviene in un luogo incantevole, in mezzo ad alberi e fiori di ogni specie: il che accentua il contrasto lancinante con il dolore insostenibile di Orfeo - evocato dalla mirabile musica di Gluck - che in quegli elementi naturali riconosce i compagni dei suoi giorni felici passati con Euridice (In ogni tronco scrisse il misero Orfeo, Orfeo infelice: «Euridice, idol mio, cara Euridice»). Ebbene, se le parole hanno un senso, esso è totalmente tradito dalla scena proposta da Carsen, dove non c’è la minima traccia di Natura. Quanto alla Poesia, ditemi dove la si può trovare in una distesa di sabbia scura e in un corteo di popolani vestiti come becchini!  

Vengo ora ad Orfeo. Secondo Carsen è un poveraccio (everyman) come tutti noi, vittima di un destino avverso che gli ha tolto la persona più cara. Cosicchè, già al funerale, tira fuori un serramanico e cerca il suicidio... anticipato (rispetto a Gluck-Calzabigi). Sì, anticipato, perchè libretto e musica ci dicono che l’istinto suicida insorge in Orfeo soltanto dopo la seconda morte di Euridice, della quale lui si sente (ed è) unico responsabile, a causa della sua debolezza. Al funerale invece il suo atteggiamento è di temeraria sfida (Ho core anch’io...) ai numi di Acheronte e Averno che gli hanno sottratto la sposa, che lui si ripromette di recuperare alla vita prima ancora che Amore arrivi a supportarlo nell’impresa.  

Poi, per giustificare l’idea che si è fatto di Orfeo (un uomo qualunque, come tutti noi) ecco che Carsen (sempre nella citata intervista) afferma che nel testo di Calzabigi e nella musica di Gluck non ci sarebbe alcun riferimento allo status di artista (poeta e cantore) di Orfeo! Quando invece basta leggere il libretto e ascoltare gli interventi dell’arpa per convincersi del contrario. Insomma, il buon Carsen non ce la racconta giusta! 

Per lui i compagni di Orfeo, le Furie dell’Averno e gli Eroi dell’Eliso sono sempre le stesse persone: prima vive, poi morte e infagottate in bianchi sudari, poi rinate nell’Eliso e infine tornate vive ad accogliere i due amanti restituiti alla vita. Beh, a me pare una banalizzazione eccessiva del soggetto, conseguenza della sua totale smitizzazione perpetrata dal regista. Che poi ignora del tutto le precise modalità con le quali il mito pretende si realizzi la riconquista (e la seconda perdita) di Euridice. Le prime due scene dell’atto terzo (quella dove avviene il fattaccio e l’altra dove arriva provvidenzialmente Amore) dovrebbero essere ambientate ancora nell’aldilà infernale, poichè solo lì vale il divieto di sguardo. Invece Carsen già all’inizio dell’atto ci mostra Orfeo che trascina Euridice nell’aldiqua, rientrandovi precisamente dallo stesso passaggio impiegato per inoltrarsi nell’oltretomba (la fossa in cui la fanciulla era stata inumata) e ritrovandoci la giacca abbandonata a fine del primo atto, con annesso serramanico da usarsi per il secondo (per Carsen, non per Gluck) tentato suicidio. Ma se i due sono già riemersi nel mondo reale, non si capisce perchè lo sguardo debba esservi ancora vietato... 

Insomma, una serie di forzature (per me) francamente eccessive e giustificabili solo a fronte della scelta interpretativa di fondo compiuta dal regista. 

Ecco, come posso sintetizzare il tutto? Dicendo che: se ci si dimentica totalmente dei contenuti del soggetto originale e si fa propria la vision del regista, allora si può godere lo spettacolo e magari anche emozionarsi, poichè la suggestione che suscita questa messinscena è innegabile. 

Viceversa, è difficile andar oltre il rispetto e l’ammirazione per la professionalità con la quale l’allestimento è stato realizzato.

13 marzo, 2019

A Roma torna un Orfeo maschio


Al Costanzi sta arrivando (questa sera la primina giovani) l’Orfeo di Gluck, una co-produzione italo-franco-canadese affidata a Robert Carsen e già collaudata (mediamente con successo) nel 2018 a Parigi e prima ancora, nel 2011, a Toronto. Messinscena che Carsen ha peraltro riproposto rimaneggiando quella del 2006 a Chicago.

Come si sa, il ruolo del protagonista alle prime recite del 1762 a Vienna fu affidato ad un famoso castrato, il contralto Gaetano Guadagni, mentre nella versione francese del 1774 venne rivisto per la tessitura di tenore acuto. Tramontata l’epoca dei castrati, nella versione originale la parte venne tradizionalmente affidata ad un contralto en-travesti (prassi inaugurata già nell’800, con la sua versione ibrida, da Hector Berlioz). Ebbene, in questa produzione torna invece a sostenerla un maschio: è già successo l’anno scorso a Parigi (con Philippe Jaroussky, direzione di Fasolis) e alla COC nel 2011 (con Lawrence Zazzo, direzione di Bicket); ed era successo a Chicago nel 2006 (dove si esibì David Daniel, sempre con Bicket). Anche qui la cosa si ripete, protagonista Carlo Vistoli, il quale non è evidentemente (e per sua fortuna...) castrato ma - come i colleghi citati più sopra - controtenore.

Sull’opportunità e l’efficacia dell’impiego di queste voci (contraltisti come Vistoli, o sopranisti come Jaroussky) ci sono diverse correnti di pensiero: c’è chi lo disapprova, sostenendo che un contralto femmina en-travesti sia da preferire, poichè canta con voce naturale (come i castrati, per i quali furono scritte parti come quella di Orfeo); e chi all’opposto sostiene che un falsettista (se ben preparato) può imitare efficacemente la vocalità dei castrati, con il vantaggio di essere... di sesso maschile, quindi di per sè più appropriato, anche scenicamente, ad interpretare un ruolo di tal genere (poichè un Orfeo femmina rischia di trasportare la vicenda a... Saffo).

Beh, staremo a vedere e soprattutto sentire. Venerdi 15 ore 20 su Radio3 e - per ciò che mi riguarda - domenica 17 dal vivo.

22 gennaio, 2018

Il Pasquale di Spontini rivive a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran di Venezia (molte le poltrone vuote...) è andata in scena la seconda recita della farsa Le metamorfosi di Pasquale di Gaspare Spontini, operina ritenuta perduta ma riscoperta l’altr’anno in Belgio.

In un precedente intervento avevo scritto di un soggetto, quello del Foppa, che mi pareva, almeno a prima vista, piuttosto deboluccio, e della conseguente curiosità di ascoltarne la resa in musica del grande (...ma non ancora, nel 1802) Spontini. Ecco, la curiosità è stata soddisfatta, naturalmente, ma non così... l’aspettativa. Non che (personalmente) sognassi di ascoltare Mozart e menchemeno Rossini, ma insomma, si è avuta la conferma che lo Spontini del 1802 era un musicista ormai involuto – come del resto doveva aver concluso il pubblico del San Moisè, rimasto assai freddo - e che solo il totale cambiamento d’aria (leggasi: Parigi) gli potè (e 5 anni dopo) ispirare cose davvero innovative e imperiture.

Federico Agostinelli, cui è stata affidata l’edizione critica (così recita la locandina, a me pare in termini un tantino pretenziosi, date le circostanze in cui la partitura è tornata alla luce) ha dovuto far fronte alla mancanza di una Sinfonia, così ha ipotizzato che Spontini abbia fatto ascoltare ai veneziani del 1802 quella tratta da La fuga in maschera, giustificando ciò con il razionale che Spontini aveva già impiegato (e avrebbe impiegato successivamente) tale sinfonia in altre opere, e che alcune sezioni tornano nel finale della farsa. Finale che Agostinelli ha dovuto anche integrare di suo in alcune parti mancanti nel tomo rinvenuto in Belgio. Sempre secondo Agostinelli, quest’operina mostrerebbe qualche elemento di novità rispetto alla produzione precedente di Spontini, come: modulazioni più ardite, cadenze evitate e accordi aumentati. Okay, ma il risultato, ripeto a mio modesto avviso, è quello che è...

Gianluca Capuano ha comunque fatto del suo meglio per... indorarci la pillola, con una direzione vibrante, ben assecondato dagli sparsi strumentisti della Fenice. Al proposito, al Malibran ieri è successo ciò che forse non capitava nemmeno nel 1802: per ben due volte è mancata improvvisamente l‘illuminazione nella buca! Nella prima occasione l’orchestra è riuscita miracolosamente a chiudere il numero, suonando nel buio più fitto e raccogliendo meritati applausi. Al secondo incidente, Capuano ha dovuto fermare tutti e riattaccare poi l’aria di Lisetta (quella col corno inglese). Evabbè...

Proprio Lisetta, al secolo Irina Dubrovskaya, è stata la mattatrice del pomeriggio, essendo anche il personaggio più impegnato da Spontini: un po’ censurabile il suo timbro di voce (nella Sonnambula di qualche tempo fa mi era parso più gradevole) ma apprezzabili i virtuosismi e le salite ai sovracuti che le hanno meritato un’ovazione alla singola. Meno impegnata e meno appariscente la Costanza di Michela Antenucci, che ha però sfoggiato una voce più rotonda di quella del soprano siberiano.

I cinque rappresentanti maschi hanno discretamente meritato, su tutti metterei il Frontino di Carlo Cecchi, voce ben impostata e buon portamento. Poi Giorgio Misseri (Marchese) una voce piccola e però sufficiente in un ambiente... piccolo, appunto.  Efficaci nelle loro non proibitive parti il Barone di Francesco Basso e il doppione (Cavaliere-Sergente) di Christian Collia. Quanto al protagonista Pasquale, Andrea Patucelli merita ampia sufficienza, anche se questa parte di buffo forse richiederebbe ancora più verve, ecco.
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Quanto alla regìa, Bepi Morassi ha scelto – in assenza totale di riferimenti spazio-temporali nel libretto del Foppa - un’ambientazione in epoca appena pre-primo-conflitto-mondiale e ha immaginato il barone come il ricco proprietario di un elegante caffè-bar. All’interno o nei pressi del quale (insegne luminose di entrata e uscita scambiate alla bisogna) collocare gli avvenimenti. Scene spartane, quelle di Piero De Francesco, e costumi più o meno plausibili quelli di Elena Utenti, tutti ideati – così come l’impiego delle luci - da allievi della Scuola di Belle Arti veneziana.

Morassi sa poi far muovere da par suo personaggi e comparse (avventori del bar) sulla scena, garantendo un buon livello di vivacità ad uno spettacolo i cui ingredienti di base lasciano effettivamente molto a desiderare.

Pubblico abbastanza ben disposto, con alcuni applausi a scena aperta e un doveroso apprezzamento finale per tutti i protagonisti. Insomma, un ritorno dopo 216 anni che difficilmente farà... storia. Viaggio che comunque si concluderà proprio a casa di Spontini, fra qualche mese, in occasione del Festival 2018. 

14 gennaio, 2018

Spontini resuscita a Venezia


Il glorioso Malibran di Venezia ospiterà fra pochi giorni cinque recite della farsa giocosa per musica intitolata Le metamorfosi di Pasquale, opera del grande Gaspare Spontini che è stata miracolosamente riportata alla luce poco tempo fa in Belgio (insieme ad altre due opere e ad una cantata) e che Venezia e Jesi (rispettivamente luogo della prima del 1802, e patria del compositore di Maiolati) hanno deciso di mettere in scena con sollecitudine.

La farsa, il cui testo è di Giuseppe Maria Foppa, è sottotitolata Tutto è illusione nel mondo, che non può non richiamare alla mente il boitiano Tutto nel mondo è burla che chiude Falstaff (non si può escludere che Boito conoscesse il testo di Foppa, il quale era famoso per aver scritto libretti su soggetti shakespeariani...)
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La vicenda – tipica del genere-farsa, basata su equivoci, scambi di identità e qui-pro-quo - è ambientata nel parco e poi nel castello del Barone, che ha una figlia (Costanza) da lui promessa al Cavaliere (del Prato). Ma Costanza (che ha la sua cameriera, Lisetta) ama ed è riamata dal Marchese (Alberto, che nessuno al castello, eccetto la padroncina, ha mai visto) il quale ha a sua volta un servo, Frontino, che si innamora di Lisetta. Il protagonista (gabbato) della farsa è Pasquale, un avventuriero, tipo senza arte nè parte, sedicente innamorato di Lisetta, e che sarà vittima della simpatica macchinazione del quartetto Marchese-Costanza/Frontino-Lisetta volta ad assicurare il positivo esito delle aspirazioni amorose delle due coppie.      

Nel vasto parco del castello

Scena I
Facciamo la conoscenza con le due coppie che alla fine si uniranno felicemente. Il Marchese e il fido Frontino si aggirano circospetti nel parco per incontrare Costanza, che infatti sopraggiunge, accompagnata dalla fida cameriera. Marchese e Costanza vorrebbero subito scambiarsi ardenti effusioni, ma ne sono impediti dalla saggia Lisetta, che li invita alla prudenza e poi respinge anche le avance di Frontino. I quattro esternano i loro tormenti d’amore, poi Lisetta informa il Marchese dell’inimicizia del Barone nei suoi confronti e delle intenzioni del suddetto di dare la figlia in sposa al Cavaliere. Frontino chiede aiuto a Lisetta, perchè metta la sua astuzia al loro servizio; cosa che Lisetta sembra apprestarsi a fare, ricordando al Marchese che lui al castello non è conosciuto... Ma in quel momento Frontino avverte tutti che lì sta arrivando proprio il Cavaliere, così Costanza e Lisetta se ne scappano in tutta fretta.

Scena II
Il Cavaliere, che ha osservato la scena, scopre subito l’identità del Marchese, lo invita a rinunciare a Costanza e, al suo diniego, lo sfida ad un duello alla pistola... a cavallo!

Scena III
Frontino osserva da lontano il duello: si ode un colpo, poi il cavallo del Cavaliere si impenna e disarciona il passeggero; il Marchese spara un colpo in aria, mentre il servo del Cavaliere corre al castello a chiamare aiuto per far arrestare il Marchese, che Frontino si ripropone di salvare.

Scena IV
Facciamo qui la conoscenza del protagonista, Pasquale, squattrinato ed affamato, che arriva lì sperando di incontrare la sua (un tempo) amata Lisetta. Ma si chiede: che matrimonio sarebbe quello fra uno sbandato nullatenente e nullafacente e una modesta cameriera? Ricorda i 10 anni di girovagare a vuoto ed anche la profezia di una maga, che gli aveva predetto fortuna a seguito della caduta del suo signore. Ma quando ciò era accaduto e lui dell’accaduto rise, il signore suo lo aveva licenziato in tronco, altro che fortuna! Adesso è pure stanco morto, si spoglia della sua casacca e si addormenta.

Scena V
Frontino e il Marchese si sentono ormai braccati, ma il servo ha un’idea geniale: vede l’abito di Pasquale addormentato e lo fa indossare al padrone, gettando le di lui vesti, più cappello e spada, accanto al dormiente. Il Marchese scappa e Frontino si apposta ad osservare gli eventi.

Scena VI
Pasquale, risvegliato dal trambusto provocato da Marchese e Frontino, si ritrova al fianco i lussuosi abiti del Marchese; crede di sognare, ma poi ripensa alla profezia della maga e si convince che la fortuna è finalmente arrivata anche per lui. Si veste di tutto punto e già si immagina nei panni di un gran signore che dà ordini ai suoi servi e lacchè.

Scena VII
Frontino si presenta a Pasquale trattandolo come il suo padrone e chiamandolo Marchese del Colle. Il poveraccio ci casca e si convince ulteriormente del miracolo di cui è beneficiario. Frontino si complimenta con lui per la vittoria nel duello contro il Cavaliere, che gli voleva sottrarre la ricca ereditiera. Pasquale ringalluzzisce ulteriormente, ma vien messo da Frontino sull’avviso che il padre della ragazza si oppone alle sue nozze. Arrivano frattanto le guardie del Barone. 

Scena VIII
Ecco le guardie, cui Pasquale tenta di resistere, persino dichiarando che lui non è il ricercato, ma nessuno gli crede e Frontino, fingendo commiserazione, lo compromette ulteriormente facendolo passare per vanesio, così il poveraccio deve arrendersi e viene portato via.

Una grande sala del castello

Scena IX
Costanza è preoccupata per l’esito del duello, quando il Marchese (nei panni di Pasquale) le si para dinanzi avvertendola che – essendo a tutti sconosciuto - rimarrà lì in giro e le indicherà via via come comportarsi. Poi canta la sua determinazione a fare sua Costanza.

Scena X
Costanza è preoccupata che il Marchese si esponga troppo e rovini tutto. Lisetta arriva tutta affannata e annuncia: il Barone e il Marchese si sono incontrati in giardino!  

Scena XI
Arrivano il Barone e il Marchese (che il Barone non ha riconosciuto, come Costanza e Lisetta comprendono). Il Barone annuncia che il Marchese (Pasquale) verrà portato lì per essere interrogato.

Scena XII
Il Marchese (Pasquale) si presenta e subito ha un moto di sorpresa vedendo lì Lisetta, che da parte sua non sa trattenere lo stupore. Tutti se ne domandano la ragione e Frontino invita Lisetta a fingere che Pasquale sia il Marchese, cosa di cui si convince anche il Barone. Che chiede a Pasquale se intenda sposare la figlia. Il poveraccio risponde di sì, ma che lo fa per i suoi milioni! Il Barone lo fa accomodare in altra stanza con Lisetta, mentre lui se ne va con Costanza.

Scena XIII
Frontino e Lisetta si prendon gioco di Pasquale: il servo del Marchese gli canta sfacciatamente una dichiarazione d’amore per la cameriera di Costanza e se ne va.

Scena XIV
Lisetta e Pasquale restano soli. Pasquale, che crede Lisetta non lo abbia riconosciuto, cerca di presentarsi, pendendola alla lontana, ma Lisetta gli stronca ogni illusione, maledicendo il Pasquale che l’abbandonò dopo averle promesso di sposarla. Ora Pasquale si rivela apertamente, vantando il suo nuovo status di nobile, che le potrà dare ricchezze e onori. Lisetta finge di restare colpita dalle sue avance, ma quando lui se ne va, non manca di schernirlo.  

Scena XV (?) non indicata sul libretto

Scena XVI
Il Marchese annuncia a Lisetta che il Cavaliere, rimessosi dai postumi del duello, desidera incontrarlo. Contrariamente alla cameriera, lui sembra fidarsi del gentiluomo. Sopraggiunge di corsa Costanza annunciando l’arrivo del padre. Il Marchese e Lisetta escono.  

Scena XVII
Il Barone rimprovera la figlia per essersi invaghita del Marchese (Pasquale) che lui non è assolutamente disposto ad accogliere come genero. Costanza lo rassicura: alla fine tutto si aggiusterà, il suo amore avrà anche la benedizione del padre.

Scena XVIII
Restato solo, il Barone si interroga sul significato delle parole della figlia, poi, all’arrivo del Marchese (Pasquale), lo licenzia sdegnato e se ne va.

Scena XIX
Pasquale è raggiunto da Lisetta (e fugacemente dal Cavaliere). Sta cominciando a temere pericoli e pensa di svignarsela con la cameriera, promettendole nobiltà e ricchezze. Lei finge di seguirlo.

Scena XX
Sopraggiunge in gran fretta Frontino, che blocca la fuga dei due e poi notifica al suo (finto) padrone che su di lui si spargono voci assai compromettenti. Lisetta finge ancora di provare grande attrazione per Pasquale, rivolgendogli frasi appassionate, che però indirizza anche a Frontino, prima di lasciarli soli.    

Scena XXI
Pasquale si sincera che Frontino sia davvero e tuttora suo servitore. Alla risposta affermativa gli confessa di aver sentito in giro voci non proprio edificanti su di lui. Poi però si rassicura, e chiede al servo di aiutarlo a svignarsela, promettendogli ricchezze. Frontino chiama in causa Lisetta ed entrambi si avviano verso di lei.

Scena ultima
Il Cavaliere riconosce la nobiltà d’animo del Marchese (che nel duello, sparando in aria, gli ha risparmiato la vita) e si dice disposto a farsi da parte nella corsa a Costanza, avendo già convinto anche il Barone. Arriva Lisetta che annuncia la messinscena di uno scherzo ai danni di Pasquale, scherzo che dovrà peraltro avere conseguenze incruente. Lisetta canta la sua morale contro i maschi che troppo spesso si prendono gioco delle femmine. Arrivano Frontino e Pasquale, cui sono stati fatti indossare i panni di una anziana malconcia, per facilitarne la fuga. Ma arriva gente e a Pasquale viene consigliato di assumere atteggiamenti da vecchia in preda a crisi epilettiche. Al sopraggiungere di Barone, Marchese, Cavaliere e Costanza, Pasquale cerca maldestramente di fuggire, ma così rivelando a tutti la sua vera identità. Il Marchese racconta al Barone dello scambio d’abito con Pasquale (al momento del duello). Pasquale, assurdamente, chiede la mano di Lisetta, la quale lo smerluzza davanti a tutti per la sua passata infedeltà, notificandogli di aver già sposato Frontino. Pasquale balbetta ancora giustificazioni, poi si rassegna, mentre tutti gli altri annunciano un gran pranzo matrimoniale per festeggiare le due coppie che convolano a giuste nozze.
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Mah, un soggetto – a prima lettura – non propriamente entusiasmante, per non dire di peggio; che siamo tutti curiosi di giudicare vestito dalle note del grande Spontini. Teniamo presente che a Venezia (ma anche a Napoli e Roma) a cavallo del 1802 si era ancora lontani dalla strepitosa irruzione (1810) di un 18enne pesarese che letteralmente rivoluzionerà il genere farsa (e dopo di questo pure l’opera buffa e quella seria!) Un esempio di produzione musicale di quei tempi è questa farsa di Mayr, tutt’altro che disprezzabile, ma un poco troppo... prevedibile, ecco, senza veri spunti di genio.

Pasquale è verosimilmente l’ultima opera composta da Spontini prima del suo trasferimento in Francia, dove videro la luce quasi subito lavori di grande rilievo (Milton, La Vestale, Fernand Cortez) che decretarono l’incontrastato successo parigino del musicista marchigiano. È quindi di grande interesse scoprire se e quanto il Pasquale anticipi la successiva evoluzione francese di Spontini. E all’uopo si adopereranno Gianluca Capuano, che ha grande consuetudine con il ‘700 (non solo barocco) e strumentisti della Fenice, che supporteranno le voci di Irina Dubrovskaya, Michela Antenucci, Giorgio Misseri, Christian Collia, Carlo Checchi, Franceesco Basso e di Andrea Patucelli (nel ruolo-titolo).