XIV

da prevosto a leone
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19 gennaio, 2022

Giulietta&Romeo ante-Shakespeare (?)

La Scala, dopo lo Shakespeare originale, ne mette in scena uno... di là da venire: I Capuleti e i Montecchi di Romani-Bellini infatti poco o nulla ha a che fare con il Bardo di Stratford, ispirandosi invece alla leggenda originale italiana che lo anticipa di un secolo buono. (Sulle origini del testo rinvio ad un mio commento scritto per una produzione bolognese del 2018). E infatti le prime parole che si leggono (a firma di Claudio Toscani) sul programma di sala del Teatro recitano: Dimenticare Shakespeare!

Invece, neanche a farlo apposta e precisamente a smentire la premessa, ecco che il regista Adrian Noble viene proprio dal mondo di Shakespeare (è stato direttore della prestigiosa Royal Shakespeare Company). E infatti già le foto sul sito del teatro lasciavano presagire il... peggio: Pertusi in clergyman! (Del resto anche molte fonti della nostra quotidiana intelligenza ignoranza distribuita presentano il personaggio come Frate Lorenzo...)

Il regista albionico cerca una difficile quadratura del cerchio, sostenendo (come titola il suo intervento sullo stesso programma di sala) che il soggetto sarebbe la stessa storia vista da angolazioni differenti (Shakespeare e Romani, ndr). Il che non giustifica però il presentarla mescolando le due angolazioni! Un esempio, proprio citato dal regista in chiusura del suo intervento, riguarda l’uccisione del fratello di Giulietta da parte di Romeo (che viene mostrata proprio all’inizio): che sarebbe null’altro che uno spiacevole incidente di gioco fra ragazzini, dove si fatica a trovare il vero responsabile. Eh no, caro Adrian, lo rivela lo stesso Romeo che il responsabile è proprio lui: solo che si trattò di una regolare uccisione avvenuta durante un conflitto armato fra due eserciti!

 

Ecco, evidentemente per deformazione professionale (e magari con un pizzico di spocchia british) il regista prova a convincerci di una cosa che è già chiara a tutti coloro che perlomeno conoscono la tragedia di Shakeapeare ed hanno letto non distrattamente il libretto di Romani: la prima supera il secondo di parecchi piedi! Peccato però che tutta l’opera musicata da Bellini si basi sul povero testo di Romani e non su quello ricco del Bardo. E che quindi trasferire parti del secondo sul primo è operazione simile a quella di mescolare lasagne al forno e vellutata al curry in un unico piatto da servire a tavola: ‘na schifezza.

 

Fin dalla scena mostrata alla fine della Sinfonia (quella dove si contrabbanda una scazzottata fra ragazzacci - Shakespeare - per un episodio di guerra in piena regola - Romani) è chiaro come il regista sia schiavo di Shakespeare, che appunto ambienta tutta la vicenda in una faida locale fra bande di bad-boys di buona famiglia, ignorando del tutto l’aspetto squisitamente e prevalentemente politico del testo di Romani, dove la storia di Verona è parte di un quadro assai più grande: le lotte fra Guelfi e Ghibellini come scontri fra le due Istituzioni dominanti nel mondo di allora: il Papato e il Sacro Romano Impero.

 

L’ambito locale e familiare - Shakespeare - viene sottolineato dal regista ad ogni piè sospinto: innanzitutto tramite la ripetuta presenza in scena del cadavere del figlio di Capellio (nel second’atto addirittura di due, uno morto e un secondo... morto che cammina). Ora, se nella prima scena dell’opera la cosa può anche starci, dal momento che Romeo ricorda quel fatto (giustificandolo però con lo scenario bellico in cui esso si verificò) poi diviene francamente stucchevole.

 

Andiamo avanti: l’ambientazione è negli anni ’30 del ‘900 e i costumi (armi automatiche incluse) dei ceffi che si aggirano in scena ricorda cosche mafiose dell’America di Al Capone e Joe Aiello: Guelfi e Ghibellini? Hahaha!

 

Torniamo a Lorenzo: Shakespeare - ed è una geniale intuizione - lo inventa frate, e come tale lo fa agire: super partes, dedito alla difesa di un sincero amore fra due giovani e alla ricerca della composizione del conflitto fra i rappresentanti veronesi dei due partiti politici che si fronteggiano. Come tale possiede anche le credenziali per celebrare matrimoni... segreti. Ora, nel testo di Romani Lorenzo è uno speziale, un medico al servizio della famiglia di Capellio, che prende le parti di Giulietta e cerca di facilitarne il legame amoroso con Romeo. Domanda: perchè mai il regista vuole anche qui chiamare in causa Shakespeare e mostrarci Lorenzo nei panni di un religioso, che in tutta l’opera non ha una sola occasione per esercitare la sua missione? (Salvo farsi il segno della croce di fronte al cadavere del fratello di Giulietta nella prima scena del second’atto!) A parte il fatto che un medico-di-famiglia è cosa del tutto plausibile, mentre assai meno lo è un prete-di-famiglia... a voler credere al regista si dovrebbe pensare che Lorenzo sia un agente ghibellino travestito da prete per meglio infiltrarsi come quinta colonna nel quartier generale dei Guelfi... roba da ridere!

 

Infine, quasi a discolparsi per le sue malefatte, il regista si inventa uno squarcio di attualità politica, ispirandosi al Patria oppressa del risorgimentale Verdi: così ci mostra - in miniatura - una scena simile a quella proposta da Livermore nel recente Macbeth: famiglie di poveri rifugiati bistrattate da militari violenti e spietati. E come colonna sonora, cosa sceglie? La mirabile introduzione (col clarinetto solista) alla seconda scena dell’atto secondo. Peccato però che quella musica celestiale evochi sì uno strazio, ma per nulla pubblico, bensì privatissimo: quello di Romeo che si sente abbandonato da tutti e da tutto!


Ecco, una regìa strampalata quanto pretenziosa, del tutto irrispettosa del soggetto da mettere in scena, che piacerà solo a chi fa di ogni erba un fascio e non distingue fra Romeo&Juliet e I Capuleti e i Montecchi. A giudicare dall’accoglienza indifferente ma non ostile del pubblico all’uscita del team registico, vien da pensare che siano in molti ad ignorare tale differenza.

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Per nostra fortuna i suoni hanno ampiamente riscattato le immagini. 


Dato che il famigerato Covid ha tradito il Kapellmeister titolare Evelino Pidò (che avrei ascoltato volentieri dati i suoi precedenti, come questoè toccato alla quota-rosa Speranza Scappucci di sostituirlo, anticipando di qualche tempo il suo debutto al Piermarini. E al proposito dico che il suo esordio qui mi è parso del tutto positivo, come ha inequivocabilmente sentenziato la trionfale accoglienza del pubblico. Avevo di lei un buon ricordo dal ROF di quasi 6 anni fa, quando lei era ancora - appunto - poco più che una speranza. Che mi sento di dire sia evoluta (ormai è in vista dei... 49 a dispetto della presenza da ragazzina) in piacevole realtà.


Va detto che lei è arrivata a prove già inoltrate e non ha dovuto partire da zero, ma la sua è stata una prestazione davvero convincente: precisione nel gesto e negli attacchi, moderazione nei non pochi fracassi che il pur elegante Bellini non ci risparmia, attenzione a non coprire mai le voci, dettagli di espressione sempre ben curati: un rapporto evidentemente ben avviato con l’Orchestra, che ha risposto al meglio in tutte le sezioni e nelle parti solistiche che impreziosiscono la partitura.

 

Detto della proverbiale compattezza e precisione del Coro di Alberto Malazzi, vengo alle cinque voci protagoniste.

 

Su tutti Lisette Oropesa: il soprano cubanamericano ha ormai raggiunto una sicurezza e continuità di rendimento eccellenti e anche ieri ha sciorinato la sua voce calda e rotonda, negli acuti pieni e in quelli smorzati, oltre ad una grande espressività che ne ha fatto una Giulietta quasi perfetta.


Accanto a lei si è ben portata Marianne Crebassa che ha creato un Romeo duro e autoritario nei momenti di scontro con i Guelfi ma anche tenero e sentimentale negli approcci con Giulietta. Forse la voce, proprio femminile, non è quella che personalmente preferirei per il ruolo (certo non dico ci vorrebbe per forza una voce cavernosa, sia chiaro...) ma non posso che elogiarne la prestazione e la presenza scenica.

 

Jinxu Xiahou (che ha rimpiazzato René Barbera) è stato un Tebaldo più che dignitoso, in una parte non proibitiva (al massimo tocca, se non erro, il SI naturale) che però lui ha reso in maniera apprezzabile: è giovane e avrà modo di crescere ancora.

 

I due bassi Jongmin Park (Capellio) e Michele Pertusi (Lorenzo) hanno dato il loro valido contributo all’insieme. Va da sè che il navigatissimo Pertusi abbia mostrato più sicurezza e controllo della voce rispetto al più giovane Park, a volte troppo schiamazzante.

 

In definitiva, una proposta bifronte, che però (a mio modesto giudizio) ha mostrato il lato-A proprio dove più è importante (del suo lato-B farei sinceramente a meno...)

20 maggio, 2019

Il Bellini desueto all’OF


Firenze ha ospitato in settimana (ieri ultima delle tre recite in cartellone) il suo nuovo allestmento della quarta opera di Vincenzo Bellini, La straniera. La prima è stata trasmessa sia da Radio3 che da RAI5 e ciò ha consentito e consente di fare una sommaria conoscenza con questa produzione, affidata alla bacchetta di Fabio Luisi e alla regìa del neofita (nell’opera lirica) Mateo Zoni.

La versione presentata è la prima, del 1829 - come ricostruita nella più recente edizione critica, di Marco Uvietta - più sobria e stringata di quella del 1830 (cosidddetta versione Rubini poichè riveduta e corretta per il famoso tenore).

È questo un Bellini arrivato, dopo soli 4 anni, già quasi a metà strada della sua vita artistica (che si chiuderà con quella biologica nel 1835) e l’opera segna proprio il punto di svolta nel suo percorso evolutivo, proteso a distanziarsi dall’imperante Rossini e a porre le basi (in una con Donizetti) del melodramma romantico, che Verdi poi svilupperà da par suo. Credo che parlare di grande capolavoro sia francamente eccessivo, ancora vi si notano segni di immaturità, passaggi poco ispirati e cadute di tensione; ma i lati positivi abbondano, a partire dalla qualità delle melodie, che prefigura ciò che arriverà poi con Capuleti, Sonnambula, Norma e Puritani. Insomma, un titolo del quale si fatica a spiegare l’assenza dal repertorio dei principali teatri (qui a Firenze non si rappresentava dal 1830!)

Come spesso accade, il soggetto (dovuto al pur grande Felice Romani che lo mutuò a sua volta dall'abate Prévost) è di quelli che si fanno baffo della plausibilità (per non dire di peggio) e l’unico pregio del testo (qui Romani è peraltro da elogiare) è di fare adeguatamente da supporto per la musica di Bellini. In estrema sintesi: una specie di Donna del lago con finale tragico.

L’allestimento di Mateo Zoni porta l’ambientazione dal 1300 all’X300, un medioevo in un improbabile futuro: la scena di Tonino Zera e Renzo Bellanca è sostanzialmente vuota, con poche strutture verticali e uno stilizzato gazebo a far da capanna di Alaide; il tutto di sapore metallico e freddo, come il regista forse immagina l’inesistente lago di Montolino. I costumi di Stefano Ciammitti sono un pot-pourri di stili e di fogge, appariscenti e a volte ridicoli, come le maschere a grata  che velano il volto delle donne e l’abbigliamento della protagonista che, dovendo richiamare la vita un po’ selvaggia dell’ex-regina, è un riciclo di un costume di Papageno di un qualche vecchio Flauto magico (e meno male che la gabbietta dei volatili è andata persa...) Poco efficaci e di impiego scolastico anche le luci di Daniele Cipri.

Quanto a movimenti di singoli e masse, siamo alla più vetusta tradizione: coro che entra, se ne sta immobile sul fondo, poi esce alla chetichella; protagonisti che tendenzialmente parlano al pubblico e mai fra di loro... Del trattamento che questo medioevo riserva alla donna fa fede l’ottava scena del primo atto: Campo ai veltri cantano Osburgo e coro, visto che sta per iniziare una caccia al cervo; e in effetti due animali tenuti al guinzaglio attraversano il palco: ecco, sono due ragazze che camminano carponi!

Insomma, una cosa fra il velleitario e l’insulso, che ancora una volta fa concludere che una rappresentazione in forma di concerto avrebbe dato risultati migliori.
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Sul fronte dei suoni le cose sono andate un filino (ma proprio un filino) meglio, grazie a Fabio Luisi: lui si dice innamorato di quest’opera e cerca di farne emergere i lati interessanti e innovativi; senza però riuscire a renderci digeribili quelli meno ispirati: insomma, una direzione onesta e dignitosa, ma non trascendentale.

Salome Jicia fu sparata sulla scena del ROF nell’agosto 2016 (quando era appena trentenne) nell’impervia parte di Elena (un’altra e ben più famosa Donna del lago, appunto) e poi tornò ancora a Pesaro come Dorliska e nello Stabat del 2017. Avendola sentita in tutte queste occasioni mi sento di affermare che in tre anni scarsi la georgiana di progressi ne ha fatti parecchi, migliorando la qualità degli acuti e la penetrazione della sua voce nelle note gravi (anche se qui mi pare di aver colto un paio di frasette furbescamente innalzate all’ottava superiore...) Ma in sostanza lei ha retto bene l’impegno e giustamente è stata la più applaudita alla fine.

Più che discreta la prestazone di un’altra giovane, la trentenne Laura Verrecchia, che ha impersonato la povera Isoletta mettendo in mostra una voce rotonda e ben proiettata, oltre che una buona caratterizzazone psicologica di questo personaggio assai sfigato.

Decisamente sotto il livello delle signore le prestazioni dei maschi: l’Arturo di Dario Schmunck è piuttosto incolore (chissà, forse gli riuscirebbe meglio la versione-Rubini!) e appena meglio risulta essere Serban Vasile in Valdeburgo. I due non entusiasmano comunque nei loro incontri-scontri, che dovrebbero essere fra i momenti più pregnanti dell’opera.

Le altre tre voci maschili (tutte provenienti dall’Accademia del Teatro) su un livello di onesta sufficienza: il Priore di Adriano Gramigni non spicca per autorevolezza (parlo della voce, cavernosa e ingolata, e non della svettante presenza scenica); Dave Monaco è un Osburgo piuttosto opaco (in tutti i sensi) e Shuxin Li è un Montolino anonimo, proprio come il Priore: imponenza scenica, ma canto da migliorare assai.

Più che buona la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che nell’opera riveste un ruolo di primo piano, spesso a supporto dialogante con i protagonisti.
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Che dire, in conclusione? Che questa riapparizione dell’opera a Firenze dopo 189 anni forse meritava qualcosina di più? Ieri per la verità l’accoglienza è stata abbastanza calorosa, da parte di un pubblico assai folto e soprattutto (cosa che fa un gran piacere) imbottito di frotte di giovani e giovanissimi!

10 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala - Pezza d’appoggio


Ho lasciato passare qualche giorno, per non correre rischi di denuncia (hahaha!) da parte dei solerti cerberi del Teatro, ma adesso provo a integrare il mio precedente commento mettendo a disposizione dei 4-5 milioni di miei lettori (ai quali chiedo di mantenere il più assoluto segreto, altrimenti Pereira mi fa condannare al 41-ter) l’audio della prima del Pirata che ho commentato nel precedente post. In ogni caso, se hanno dato i domiciliari a Dell’Utri, posso sperarci anch’io!

(Della qualità della registrazione non sono per nulla responsabile, sia chiaro.)  

07 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala


Ieri sera è andata in onda - con intermezzo giallo - la terza delle otto recite de Il Pirata, che tornava alla Scala dopo 60 anni di assenza. Teatro gruviera come capita spesso, con pubblico abbastanza caloroso, tanto che non si sono ripetute le vivaci contestazioni seguite alla prima (vittime sacrificali il cattivone di turno Alaimo, il concertatore Frizza e il regista Sagi) ascoltata per radio venerdi.

Fino a ieri la registrazione di quella recita era disponibile in rete, prima che il Teatro la facesse rimuovere d’autorità. Io nel frattempo mi ero preso la briga di analizzarla da vicino per cercare di comprendere le ragioni (o i pretesti) del fiasco iniziale e del (relativo) riscatto successivo. Ovviamente potendo giudicare l’agogica (tempi) e gli accenti, assai meno le dinamiche, che vengono fatalmente distorte - leggi: appiattite - dalla ripresa radio. Ho deciso (per non buttare l’investimento fatto... haha) di pubblicare comunque queste note a futura memoria - di fatto contengono anche una succinta esegesi del soggetto, oltre che riferimenti ai tagli apportati - anche se fatalmente vi manca il riscontro in-corpore-vili, ma tant’è. Lascio anche i riferimenti di minutaggio, a conferma della... serietà del lavoro.
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Comincio dal mio conterraneo Frizza e dall’Ouverture, che è un serio banco di prova per il Direttore. La prima parte dell’Introduzione (Allegro con fuoco, RE maggiore, 3/4) è staccata con piglio apprezzabile. Personalmente gradirei una freschezza ancor maggiore, ma accontentiamoci: certe pur blasonate interpretazioni del ‘900 sono letteralmente esasperanti, trasformando il tempo in Andante maestoso, che caratterizza invece la seconda parte dell’Introduzione (38”, 4/4, RE minore - FA maggiore). Frizza la presenta correttamente, mette in risalto gli incisi dei violoncelli, poi gestisce in modo apprezzabile (1’44”) il passaggio in marcato che porta verso l’attacco (2’19”) del primo tema (Allegro agitato, 4/4, RE minore). Qui gestisce bene lo slentando (2’26”) e poi il ritorno in tempo che separa il soggetto dal controsoggetto, quindi carica leggermente il ritmo per il passaggio (2’44”) al RE maggiore, dove troviamo la transizione che porta (3’24”) al secondo tema, bipartito, nella relativa FA maggiore (qui Frizza fa tutto in staccato, di sua iniziativa). Efficace il passaggio alla seconda sezione (3’42”) con il moderato crescendo che la caratterizza (e che terrà banco alla fine del primo atto). Ecco poi la ripresa dei due temi, dapprima (4’59”) quello in RE minore, assai scorciato, e poi (5’23”) il secondo (ora canonicamente in RE maggiore) dove Frizza del tutto arbitrariamente scatena un presto, certo di facile effetto, ma francamente un po’ pacchiano. Tutto sommato però l’accoglienza è abbastanza positiva.

L’Introduzione con il coro e Goffredo non si presta a particolari critiche (forse la voce di Riccardo Fassi viene qua e là travolta da quella del coro...) e quindi passiamo (15’11”) all’esordio del tenore, di gran lunga la parte più importante, difficile e ostica, sotto il profilo espressivo, oltre e più che sotto quello strettamente vocale. Dopo il recitativo con Goffredo, ecco la cavatina di Gualtiero (Nel furor delle tempeste, 17’29”) in SOL minore e SIb maggiore: la voce di Piero Pretti non è per niente male (salirà anche al RE acuto con relativa scioltezza, nella cadenza finale) ma ciò che lascia a desiderare è l’espressività (Come un angelo celeste, 18’06”) che Bellini richiede in forti dosi, mentre il tenore continua a cantare con piglio inalterato. Stessa cosa anche alla ripresa. Sono magari sfumature, ma fanno la differenza, almeno ad un orecchio attento. Il pubblico comunque pare aver apprezzato, pur senza particolari entusiasmi.

Il successivo coro (con interventi minori di Gualtiero e Itulbo) include anche (22’43”, Per te di vane lagrime, in SIb maggiore)  una  nuova esternazione del tenore, che Pretti risolve dignitosamente, accolto da moderati applausi.

Arriviamo quindi (26’36”) all’esordio del soprano (recitativo e cavatina). Dopo la breve introduzione orchestrale in MIb maggiore, che Frizza affronta a ritmo svelto, Sonya Yoncheva si presenta (27’35”) con il recitativo Sorgete, e in me quella pietade, MIb maggiore, ove il soprano bulgaro mette subito in bella mostra la sua voce potente e ben tornita. Che esplode poi nella cavatina (29’39”, Lo sognai ferito esangue, SOL minore) e ancora (31’44”, Quando a un tratto il mio consorte, SI maggiore) si inerpica in difficli vocalizzi nel ricordo dell’incubo che la colse vedendo l’amante straziato dal marito! Segue un nuovo passaggio in MIb (Muta, oppressa, sbigottita) con i pertichini di Itulbo, Adele e coro. Dopo l’arrivo di Gualtiero (33’52”) del qule Itulbo ancora cerca di nascondere a Imogene l’identità, riprende (35’13”) in SOL maggiore la cavatina (35’32”, Sventurata anch’io deliro) con ripetizione abbellita (37’48”) e cadenza finale (40’00”) con il coro. Mah, si potrà sempre eccepire sulla relativa piattezza dell’esposizione della Yoncheva, ma francamente gli applausi sono davvero convinti (e per me meritati).   

Segue il coro libagioso dei pirati, francamente piuttosto dozzinale (Bellini non deve averci dedicato più di un quarto d’ora...) che Frizza e Casoni (più Pittari) mi pare abbiano sfangato con onore, nell’indifferenza generale.

Dopo il breve incontro fra Imogene e Adele, aperto (45’00”) da 8 mirabili battute strumentali in SIb (non si saprebbe se farle risalire a Bach o anticipare Mendelssohn...) dove Adele ha preannunciato alla sua Signora la visita di Gualtiero (modulando a SOL minore) si arriva alla corposissima scena dell’incontro fra i due amanti (46’45”). Il recitativo accompagnato dei due sfocia (50’54”) in una pregevole frase in LAb maggiore di Imogene (Se un giorno fia che ti tragga) che la Yoncheva espone con bel portamento. Frase musicale che subito dopo è ripresa un tono sopra (SIb) da Gualtiero (51’45”, Voce suonava un giorno): qui Pretti ha una partenza difficoltosa sull’intonazione, poi però si riprende discretamente. Si modula ancora in alto di un tono intero (DO maggiore, 52’16”) e Imogene (Tu sciagurato) invita Gualtiero a fuggire dalla casa di Ernesto, nome che la Yoncheva scandisce efficacemente (con forza) su una discesa di quattro veloci gruppi di semicrome. La tonalità è virata a SOL maggiore per la risposta di Gualtiero (Lo so, 52’47”) sostenuta dai violini su un inciso anapestico, che si ripeterà ancora nel seguito del duetto, la cui tonalità modula ancora (53’44”) a FA maggiore dove Imogene (Il genitor dolente) va a chiudere la sezione con una pregevole scala discendente (dal LA acuto al DO sotto il rigo). Ora inizia (55’11”, DO minore) una nuova sezione del duetto con Gualtiero (Pietosa al padre) che accusa di crudeltà Imogene, la quale (56’47”, Ah tu, d’un padre antico) si difende ricordando lo stato di necessità (scegliere lui o il padre) che l’aveva imprigionata, difesa che però non convince Gualtiero. Il quale modulando a DO maggiore (57’58”, Vivea vivea per te soltanto) conduce insieme a Imogene alla conclusione di questa sezione del duetto, accolta ancora da moderati applausi. Segue il drammatico arrivo del figlioletto di Imogene, che Gualtiero vorrebbe sopprimere, convinto poi dalla donna a desistere dall’insano proposito. Inizia qui (1h00’26”) ancora in DO maggiore, la parte conclusiva del duetto, con Gualtiero (Bagnato dalle lacrime) che reitera le sue accuse ad Imogene, che invece (Non è la tua bell’anima, 1h01’01”) gli riconosce l’antica nobiltà d’animo. Anche qui la Yoncheva sembra assai a suo agio, un po’ meno Pretti, che comunque - prendendo fiato a scapito di qualche battuta - stacca con lei un apprezzabile DO acuto, trascinando il pubblico ad applausi abbastanza convinti.  

Segue il recitativo fra Imogene e Adele, mentre si ode sopraggiungere il corteo che riporta a casa Ernesto, dopo la vittoria sui pirati di Gualtiero. Il coro in FA maggiore che segue, aperto da un’introduzione strumentale piuttosto leziosa (1h05’04”) ha un portamento nobile, ma anche (1h07’40”) passaggi da marcetta accompagnata dalla banda del paese. Frizza e Casoni lo accorciano opportunamente di 25 battute di ripetizione.

Finalmente (1h08’56) fa la sua entrata in scena anche il terzo protagonista del triangolo amoroso, il Duca Ernesto, cui Nicola Alaimo subito cerca di dare l’importanza che merita (Sì, vincemmo). La sua aria in FA - con tanto di ripetizione - accompagnata dal coro, anticipa future conquiste belliniane per baritoni e bassi. Alaimo mostra fiero cipiglio e non demerita nemmeno sui virtuosismi cui Bellini lo chiama. Certo la voce è troppo chiara per fare la parte del cattivone, si adatta meglio ai Dulcamara o anche ai Falstaff, oltre che ai tanti buffi di rossiniana memoria, tuttavia il pubblico ha per lui solo applausi. 

Segue l’incontro di Ernesto con Imogene (1h15’11”) un recitativo di cui vengono tagliate - inspiegabilmente - 9 battute: il Duca si meraviglia dello stato depresso della moglie, alla quale domanda conto dell’aiuto portato ai naufraghi, che arrivano al suo cospetto (1h16’55”). La scena - prevalentemente in DO maggiore - è occupata dall’interrogatorio di Ernesto a Itulbo, che si è presentato come il capo dei pirati, per proteggere Gualtiero. Ci troviamo poi un’esternazione - in SOL maggiore - di Ernesto (1h18’06”) che decide di tener prigionieri i naufraghi; e poi una (ancora in DO) di Imogene (1h18’49”) che chiede invece al consorte di consentire loro di tornare alle loro terre, permesso subito accordato. 

Ha inizio ora il quintetto (con coro) che porterà alla conclusione dell’Atto. Vi sono impegnati - in LA minore, con modulazioni a maggiore - dapprima (1h19’36”) Gualtiero (che si rivolge a Imogene, chiedendole un’ultima udienza, pena qualche strage che lui metterà in atto) ed Ernesto (che mette i suoi sgherri sull’avviso, avendo sospetti sui naufraghi e su nuovi possibili sbarchi nemici). Quindi interviene Imogene (che risponde a Gualtiero, implorandolo di desistere dai suoi propositi). Ecco poi entrare anche Adele, Itulbo e il coro, che contrappuntano le esternazioni dei tre protagonisti. Alla chiusa in LA maggiore (1h23’38”) ancora applausi non fragorosi (e con qualche sommesso ululato in sottofondo...)  

Attacca poi (1h23’53”) la stretta finale del quintetto, introdotta da un recitativo in FA dove Gualtiero tenta di aggredire Ernesto, ma ne viene impedito da Itulbo e Goffredo, mentre Imogene quasi sviene ed Ernesto ordina venga accompagnata nelle sue stanze. Imogene (1h25’00”, Ah, partiamo, in SIb minore) attacca la stretta, incalzata subito da Adele, Gualtiero, Ernesto, Itulbo, Goffredo e coro, che modulando a SIb maggiore innescano (Infelice, quali accenti, 1h25’35”) il crescendo già udito nell’Ouverture. Dopo un drammatico rallentando, Imogene (1h26’16”) riattacca la stretta (SIb minore) e quindi riecco (1h26’46”) il crescendo in SIb maggiore, che qui viene tagliato di 22 battute (di ripetizione, incluso il vocalizzo del soprano). Alla chiusa ancora applausi abbastanza convinti. 

La registrazione porta direttamente al secondo atto (1h28’24”) e manca quindi la testimonianza del trattamento riservato dal pubblico a Frizza al rientro: personalmente non ricordo di aver udito per radio alcuna contestazione al Direttore.

L’atto inizia con un Coro introduttivo in DO maggiore, tempo 6/8, protagoniste le damigelle di Imogene, con Adele in primo piano, preoccupate per lo stato di prostrazione in cui versa la Signora. La sezione femminile del coro di Casoni lo interpreta con apprezzabile leggerezza e Marina de Liso ha modo di mettere in mostra le sue buone qualità. Adele invita ora (1h32’12”) Imogene a recarsi all’appuntamento con Gualtiero: lei dapprima recalcitra, poi si decide, ma in quel momento arriva Ernesto. Segue un recitativo (1h33’49”) in cui Ernesto accusa la moglie di sfuggirlo, e alle rimostranze di lei, la accusa apertamente per il suo amore per Gualtiero. Imogene lo accusa di crudeltà, ricordandogli di avergli dato un figlio, ma Ernesto (1h36’03”) attacca in LA maggiore il duetto (Tu m’apristi in cor ferita) tacciandola di empietà e iniquità. Imogene gli ribatte (1h37’40”) che il suo amore per Gualtiero era ben noto a tutti, quando lui la strappò al padre e pretese di averla in moglie senza essere amato. Ernesto (1h39’21”) ora ha avuto la sua confessione e rincara la dose (L’ami? Parla... l’ami?) Imogene si difende (1h39’46”) degradando la tonalità di un semitono, a LAb, riconoscendo di amare Gualtiero, ma di un amore senza più speranza, quello che si prova per un defunto. Ora si è passati in FA maggiore e in tempo Larghetto (1h41’27”) i due cantano i rispettivi moti dell’animo, dapprima per terze, poi (1h42’26”) disgiunti, poi ancora insieme. C’è un piccolo taglio di 7 battute (una ripetizione) prima dei due vocalizzi (lei e poi lui) che chiudono questa sezione del duetto. Ernesto - siamo passati a DO maggiore - riceve una missiva (1h44’52”) che lo informa della presenza di Gualtiero nel palazzo e va su tutte le furie, chiedendo invano alla moglie di rivelargli dove l’amante si nasconda. Inizia quindi, tornando a LA maggiore (1h46’00”) la parte conclusiva del duetto, con i due coniugi che manifestano gli opposti stati d’animo: lei teme una carneficina, quella che lui sta ostentatamente programmando. Qui ci sono due tagli (18+16 battute) che levano parecchie castagne dal fuoco ai due cantanti, risparmiandogli il fiato per esibirsi in un un LA acuto finale, non scritto in partitura e, per quanto riguarda il baritono, tanto velleitario quanto estraneo al personaggio. Il pubblico applaude moderatamente (ma Alaimo forse avrebbe meritato qualche dissenso, diciamolo pure).  

Siamo ora tornati da Gualtiero. Gualtiero ingaggia un recitativo - che si muove fra le tonalità  di LA minore, DO e MIb maggiore - con Itulbo (1h47’59”) durante il quale manifesta il proposito di incontrare a tutti i costi Imogene, vanamente sconsigliatone dal compagno. E proprio in quel momento compare la donna (1h49’33”) intenzionata a convincere Gualtiero a fuggire. Invano, chè lui conferma i propositi di prenderla con sè o morire. Inizia qui (1h51’28”) il duetto (che poi diverrà terzetto con il sopraggiungere di Ernesto). Gualtiero, in DO maggiore, invita Imogene a fuggire con lui (Vieni, cerchiam pe’ mari) chiuso da una salita (non scritta, ma efficace) al DO acuto. La risposta di Imogene (1h59’33”, Taci, rimorsi amari) arriva sulla stessa linea melodica, ma dopo una modulazione a LA maggiore: la donna prefigura i rimorsi che coglierebbero lei e l’amante per il resto della loro esistenza. I due (1h55’36”) ancora si scambiano opposti propositi, ma sta sopraggiungendo Ernesto (1h56’36”) che già pregusta il piacere di catturare Gualtiero. Qui inizia (1h56’55”) il terzetto vero e proprio, in tonalità di RE, poi di LA maggiore: Gualtiero si prepara al peggio (Cedo al destin orribile) e a sfidare la morte; Imogene ancora lo supplica di desistere; Ernesto (ancora non visto dai due) già prefigura una punizione esemplare per i fedifraghi. Qui mi pare che Frizza trattenga eccessivamente i tempi, i tre sono impegnati anche in alcuni virtuosismi che culminano, per tenore e baritono, in due non facili cadenze, sulla prima delle quali Pretti raggiunge (2h00’35”) con qualche affanno il RE acuto (questo scritto in partitura) mentre Alaimo (2h00’50”) cala vistosamente (MIb al posto di MI naturale) sul culmine della sua. Anche qui c’è un applauso non certo entusiasta. Attacca ora (2h01’38”) la parte conclusiva del terzetto. Gualtiero ancora indugia, ma Ernesto si palesa e fra i due si ingaggia una reciproca sfida mortale. Siamo ora alla stretta finale (2h02’51”) in DO maggiore, tutta su un ritmo puntato che ben evoca l’agitazione dei tre. La conclusione è, diciamo così... semplificata.

Ora abbiamo il recitativo di Imogene e Adele 2h04’47”): questa cerca di calmare la Signora, che invece vorrebbe precipitarsi per separare i due litiganti, marito e amante. Ci si muove da DO a RE minore, LA minore per tornare a DO maggiore. Le ultime 12 battute strumentali vengono tagliate, per passare direttamente (2h06’01”) alla scena successiva, che ci presenta già il risultato del duello fra i due contendenti: Ernesto ha evidentemente avuto la peggio, visto che i suoi guerrieri gli stanno facendo il funerale... Dopo l’introduzione strumentale, che va dal SOL a DO maggiore, ecco il coro (2h07’16”) cantare l’elogio funebre del Duca. Per un po’ Frizza tiene il tempo maestoso, effettivamente adatto ad un mortorio (pur se in DO maggiore...); poi però a un certo punto accelera vistosamente, e il coro si chiude con passo garibaldino.

Arriva ora Gualtiero (2h09’56”) accolto da improperi dei sudditi di Ernesto; ma lui getta la spada e si offre alla vendetta dei nemici; i quali tuttavia gli vogliono assicurare un giusto processo (!) Lui li sprona a far presto, altrimenti potrebbe pentirsi... E canta, rivolto ad Adele, la sua aria con coro in DO maggiore (Tu vedrai la sventurata, 2h12’00”). Pretti non se la cava poi troppo male, cerca anche di dare un po’ di espressione al canto, sale al DO acuto, e così alla fine, fra gli applausi, spunta anche un bravo! Segue un breve recitativo (2h15’32”) che prepara la sezione finale, sempre in DO, dell’aria di Gualtiero (Ma non fia sempre odiata, 2h16’48”). Anche qui Pretti mostra buona saldezza di voce, si permette anche di chiudere con un DO acuto non scritto, e gli applausi si ripetono.

Soppresso il breve recitativo di Adele e damigelle, che compiangono Gualtiero, ecco arrivare la scena finale (davvero la scena-madre) dell’opera (2h21’18”) aperta da un richiamo di corni in FA maggiore, cui segue un breve preludio caratterizzato da arcane sonorità e chiuso da un cupo accordo dell’orchestra. L’arpa attacca (2h22’35”) la mesta introduzione del corno inglese (in FA minore) all’ingresso in scena di una vaneggiante Imogene (2h25’04”) che canta un breve e straniato recitativo, compianta dalla fida Adele. Poi (2h26’57”, Ascolta) si imbarca nella narrazione di un sogno, un incubo, una visione tragica, il corpo trafitto di un uomo, non Gualtiero, ma Ernesto, che, sulla ripresa della melodia, reclama il figlio... E lei il figlio l’ha salvato e lo trascina verso il padre. Il figlio in carne ed ossa le viene portato e lei (Deh, tu innocente) lo abbraccia e lo bacia, chiedendogli di implorare al padre il perdono per lei.

Attacca ora (2h30’04”) l’aria più famosa dell’opera (Col sorriso d’innocenza): dopo l’introduzione del flauto, ecco Imogene (2h31’00”) rivolgersi al figlio perchè interceda per lei con il genitore. Il suono del gong (2h33’46”) avverte che la sentenza contro Gualtiero è stata emessa. Lo conferma subito (2h34’20”) il coro dei guerrieri e Imogene (2h35’23”, Oh sole, ti vela) vorrebbe scacciare la visione dell’amante decapitato. La Yoncheva regge discretamente lo sforzo, anche se stranamente evita (2h36’16”, D’orrore morrò) il DO acuto, fermandosi al SIb. Dopo il pertichino del coro, si ripete la strofa e la frase Oh sole (2h36’51”) e lo stesso abbassamento da DO a SIb (2h37’49”) già registrato prima. DO che viene passabilmente cantato sulla chiusa, accolta da applausi abbastanza intensi.

Ora, nella registrazione incriminata non ci sono le accoglienze finali, che hanno visto sonore contestazioni ad Alaimo, poi a Frizza e infine al regista Sagi. Per quel che posso giudicare dalla ripresa audio (sempre poco fedele, per definizione) queste contestazioni al baritono e al Direttore mi sono parse quanto meno eccessive, per non dire premeditate, ecco: possibile che durante tutta la serata non si sia udita una sola voce di dissenso, ma esclusivamente (sia pur moderati) applausi e poi soltanto alla fine esplodano contestazioni così vivaci?
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Chiuso l’esame (ormai virtuale, ahimè) della prima, vengo a ieri sera, raccontando subito del citato giallo prima dell’inizio del second’atto: l’intervallo si è protratto per almeno 20 minuti supplementari, il che ha dato la stura alle più svariate congetture (malore di qualche interprete, o magari uno sciopero selvaggio di sezioni dell’orchestra...) finchè Pereira (maleducatamente accolto da improperi dal loggione, subito rintuzzati dal soprintendente) ha annunciato l’indisposizione di Pretti (un calo di pressione, ufficialmente). Ma aggiungendo che il tenore avrebbe comunque proseguito la recita.

In effetti Pretti lo ha fatto, ma cantando quasi sempre da seduto (su sedie, poltrone, persino alla base del sarcofago di Ernesto) a conferma delle sue precarie condizioni. Sulla sua prestazione di ieri nel second’atto sarà doveroso astenersi da giudizi di merito, ma va comunque dato atto al tenore di aver fatto il possibile per garantire un livello dignitoso alla sua performance (sono mancati gli acuti, per comprensibili ragioni).

Per il resto devo dire che ieri l’accoglienza ai singoli numeri e quella finale sono state assai calorose per tutti (per Frizza anche al rientro dopo la pausa) con ovazioni - per Yoncheva e il Coro in testa - che si sono aggiunte agli applausi, sia alle uscite di gruppo che a quelle singole. Per me nel complesso - pur tenendo conto della menomazione di Pretti - si è trattato di una performance musicale più che accettabile, fatte le riserve che ho espresso via via lungo l’esame della prima. In sostanza, una riproposta che personalmente ritengo meriti ampia sufficienza.
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La messinscena è francamente - a mio modesto parere - ingiudicabile, nel senso che pare del tutto estranea al soggetto in questione. È già una fortuna che gli sia semplicemente estranea e non pervicacemente offensiva, ecco. La pagina di Note di regìa pubblicata sul programma di sala (contiene un sunto della posizione di Sagi) è un condensato di banalità e insensatezze: precisamente ciò che si vede in scena.

27 giugno, 2018

Pirati sbarcano al Piermarini


È in arrivo alla Scala l’opera che proprio qui, nel lontano 1827, lanciò un giovane catanese di belle speranze, tale Vincenzo Bellini, nel gran mondo del melodramma: era la sua terza fatica, dopo DiMaioAdelson&Salvini e Bianca&Gernando. Opera che non si rappresenta al Piermarini da più di 60 anni (fu nel maggio 1958 con un cast - per quei tempi - stellare: Corelli, Callas e Bastianini).

Il soggetto, mutuato da un lavoro francese, a sua volta ripreso dall’originale albionico (storie del pirata Bertram) si muove in uno scenario pseudo-storico: la Sicilia del 1200 (quella, per intenderci, dei Vespri...) contesa fra gli Angiò (che avevano scacciato gli Svevi di Manfredi) e gli Aragonesi. Ma questo scenario resta del tutto sullo sfondo, essendo il libretto incentrato sulla vicenda sentimentale che coinvolge il classico triangolo tenore-soprano-baritono. Vicenda della quale l’opera presenta soltanto il tragico epilogo (tutti e tre i vertici del triangolo passano, più o meno, a miglior vita) che matura in soli due giorni separati da una notte. Per meglio orientare lo spettatore, che potrebbe capire ben poco della trama dalla semplice lettura dei versi cantati, il librettista Felice Romani li corredò di un Avvertimento, premesso in calce al testo dell’opera (pag.4) in cui vengono presentati gli antefatti (pseudo-)storici, oltre che sentimentali dell’azione.

Azione che non scarseggia di sicuro, a cominciare da un mezzo-naufragio cui assiste sgomento il coro (si anticipa qui l’incipit di Otello); il puro caso - che determina il 90% di ciò che avviene nei libretti dei melodrammi - fa sì che lo sconfitto Gualtiero approdi precisamente a casa del suo acerrimo rivale, Ernesto. Chissà come, in quella casa c’è anche la sua amata, Imogene. Che lui crede ancora illibata, e invece scopre che si è venduta proprio ad Ernesto (sotto ricatto, per la verità). Così se la prende pure con la poverina, che ancora lo ama, ma il suo assurdo atteggiamento comincia a far maturare in lei i segni della pazzia che la coglierà alla fine. Sbollita l’ira verso la donna, Gualtiero le propone di fuggire con lui, ma Imogene, per amore del figlio e rispetto del (pur non amato) consorte, rifiuta.

Così, dopo la scena del trionfo decretato per il vincitore Ernesto, ecco l’inevitabile scontro fra i due rivali, che vede soccombere il duca padrone di casa e che costa a Gualtiero una condanna a morte. La bella Imogene, perso il marito e in procinto di perdere pure l’amante, dà fuori di matto. E qui finisce, con la sua celebre aria (Col sorriso d’innocenza) l’opera come la si vedrà nei prossimi giorni.

Ma in realtà esiste un finale originario, la scena 13ma ed ultima del second’atto (vedi pag.34 del testo citato). Dopo le prime trionfali esecuzioni scaligere, Bellini si convinse ad espungerla, e così essa sparì dalle successive edizioni del libretto e dello spartito: da allora in poi l’opera termina appunto con la Scena XII e la delirante esternazione di Imogene chiusa dal verso D’orrore morrò (accompagnato dal coro femminile) seguito da 8 battute orchestrali in FA maggiore, a dir poco travolgenti, che invariabilmente portano il pubblico al delirio, lasciandolo però del tutto ignorante di come la vicenda si chiuda.

Ignoranza scongiurata invece nel finale originario, dove alla scena suddetta seguiva quella del suicidio di Gualtiero (che pure i compagni pirati erano arrivati per liberare, aprendogli quindi la prospettiva di godersi finalmente la sua - pur usata - Imogene) e il tracollo di lei fra le braccia delle sue dame. Di certo una conclusione più compiuta del dramma, ma che - dopo la spettacolare aria della protagonista - appare quasi un passo indietro, una debolezza proprio dal punto di vista musicale (e così dovette apparire allo stesso Bellini). Di tanto in tanto il finale originario viene riproposto, come in questa edizione del 2003, protagonisti Nelly Miricioiu e Stefano Secco con l’orchestra del Concertgebouw diretta da Giuliano Carella: eccolo qui, a partire dalla chiusa dell’aria di Imogene (Oh sole! Ti vela di tenebre oscure...) accolta da fragorosi applausi (sui quali normalmente cala il sipario) che tuttavia si devono spegnere per far posto (a 2’28”) ad altri 3 minuti scarsi di musica, francamente discutibili. 

Appuntamento a venerdi 29, ore 20, su Radio3, per la trasmissione in diretta della prima.

09 maggio, 2018

A Bologna Romeo&Juliet secondo Bellini


Ieri pomeriggio il Comunale bolognese ha ospitato la seconda delle 6 recite de I Capuleti e i Montecchi, una produzione che promuove nuove leve di interpreti, emerse dalle selezioni di OperaNext, l’iniziativa mirante a sviluppare talenti per il teatro musicale. Co-produzione italo-spagnola, già presentata a Tenerife a fine 2017. Dopo la prima di domenica scorsa (trasmessa da Radio3) ieri in scena il cosiddetto secondo cast.

Devo però spiegare il titolo del post, che dà la falsa impressione che l’opera di Bellini si rifaccia a Shakespeare. Nulla di più impreciso (ma anche in questo caso c’è un po’ di responsabilità della regìa, come vedremo): chè il libretto (riciclato, oltretutto) di Felice Romani ripesca le radici italiane (del ‘400) della storia, radici utilizzate - con ben altra genialità, si dovrà pur ammettere - dallo stesso bardo da Stratford. Così il testo di Romani, rispetto al dramma shakespeariano (ancora poco conosciuto in Italia, va detto, nei primi decenni dell’800) resta parecchi gradini al di sotto, viaggiando nell’aurea mediocrità dei classici libretti di melodramma italico.

Le figure di entrambi i protagonisti mancano della fortissima personalità dei rispettivi corrispondenti albionici, a partire da Giulietta, che in Shakespeare - a dispetto della giovanissima età - mostra una maturità e una forza d’animo straordinarie, quando invece in Romani la troviamo nei panni di una ragazza piena di ansie, dubbi e rimorsi, succube del padre e indisponibile a compiere gesti estremi, come quando rifiuta di fuggire con l’innamorato. Quanto a Romeo, in Shakespeare è un ragazzo che scopre fulmineamente l’amore e se ne fa condizionare in modo assoluto, arrivando a immaginare il suicidio di fronte alla prospettiva di perderlo, e diventando (quasi a sua insaputa) un omicida per voler difenderlo. In Romani-Bellini lui è invece un capo militare che millanta ferocia guerresca, ma poi evita lo scontro con il rivale Tebaldo, a cui anzi offre il petto pur riconoscendolo colpevole indiretto della morte dell’amata. Della quale è già innamorato, ma non si sa nè come nè da quando... e addirittura nella sua proposta da ambasciatore spunta una motivazione super-politica per giustificare la sua richiesta di matrimonio con la figlia del capo della fazione opposta (!?)

Forse l’unico aspetto che si fa preferire in Romani è la figura di Lorenzo, che non è un frate ma un medico, ergo plausibilmente più credibile come inventore (senza speziali intermediari) di preparati galenici (quale il sonnifero somministrato a Giulietta). Però lui non può certo unire i due amanti in matrimonio, nè promuovere e alla fine benedire la riconciliazione fra le opposte fazioni!

Per il resto si osserverà come lo scenario politico in cui si svolge l’azione di Romani sia uno stato di vera e propria guerra permanente fra Guelfi (Capuleti) e Ghibellini (Montecchi) con tanto di schieramento di eserciti e con ambasciatori in missione... altro che una pura e semplice (per quanto cruenta) faida fra ragazzotti viziati di due famiglie-bene dell’opulenta Verona. Come detto, nell’opera di Bellini Romeo e Giulietta sono già da tempo innamorati (cosa poco plausibile proprio a causa dello scenario di guerra, che rende invece verosimile che Tebaldo, braccio destro armato di Capellio, sia promesso alla figlia di costui): la scena del ballo, che in Shakespeare è drammaticamente fondamentale perchè serve proprio a mostrarci il colpo-di-fulmine che scuote i due giovani, in Romani diventa prosaica occasione per festeggiare il matrimonio di Tebaldo e Giulietta, da questa indesiderato.

Insomma, ancora una volta, ciò che salva un soggetto francamente deboluccio è - manco a dirlo - la musica di Bellini!

Federico Santi, giovanissimo Direttore che sta facendo esperienza al Marinski (!) all’ascolto radiofonico mi aveva dato l’impressione di tenere un approccio eccessivamente focoso e bandistico. E purtroppo non si trattava delle inevitabili distorsioni prodotte dalla ripresa audio, poichè dal vivo la sua direzione mi è parsa assai poco equilibrata e meno ancora rispettosa dell’estetica belliniana. Ne hanno fatto le spese le voci, spesso coperte alla grande. La stessa Orchestra non mi è parsa al meglio, già a partire dalla fanfara di corni della Sinfonia...

Le voci (vedi locandina) sono tutte o quasi di giovani e giovanissimi esordienti: ciò va riconosciuto prima di emettere giudizi sommari. Le cinque udite ieri, a parte la perfettibilità di canto e interpretazione (che verrà, caso mai, con anni di studio e di esperienze) non mi hanno impressionato nemmeno dal punto di vista delle doti naturali: voci mediamente piccole (e infatti Santi le ha proprio strapazzate) e carenti soprattutto nelle note gravi, praticamente inudibili.

Ma - appunto - si tratta di nuove leve che non potranno che migliorare... Sui suoi standard il coro di Faidutti.
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Come accennato, note dolenti, ahinoi, per la regìa. Siamo alle solite: Silvia Paoli, volendo o dovendo strafare per giustificare la sua presenza, si inventa (no, per la verità scopiazza cose viste, riviste, trite e ritrite, mi viene in mente il Martone scaligero dell’Oberto del 2013 e poi della Cena delle beffe del 2016) una storia di mafie e ‘ndranghete nel sud-Italia di tempi recenti che avrà pure una sua interna coerenza, ma che è - piccolo, insignificante dettaglio - agli antipodi rispetto al soggetto originale! (E poi... visto che ormai le mafie sono di casa al nord più che al sud, già che c’era la regista poteva mantenere nella Verona di oggidì l’ambientazione della sua immaginifica storia, invece che spostarla nella Calabria anni ‘70...)

La regista pare mescolare Shakespeare e Romani (già sbagliando, per quanto detto sopra) quando sceglie l’ambientazione moderna: nel primo caso quella più calzante sarebbe uno scontro fra tifoserie o baby-gang. Restando invece fedeli a Romani-Bellini, allora il parallelo non potrebbe che basarsi su uno scenario politico. In entrambi i casi, non certo di criminalità organizzata: eh sì, perchè Guelfi e Ghibellini non erano cosche mafiose, ma partiti politici con precisi riferimenti alle due più alte istituzioni pubbliche del tempo, il Papato e il Sacro Romano Impero (o era mafioso anche un certo Dante?)

Altra idea portante della messinscena è la supposizione che l’uccisione del figlio di Capellio da parte di Romeo sia avvenuta quando i due erano in tenera età (diciamo 10-12 anni): la circostanza viene già mostrata durante l’esecuzione della Sinfonia, poi continuamente ricordata dalle apparizioni in scena di bambini. Com’è venuta in mente alla regista questa idea invero strampalata? Dall’interpretazione gratuita quanto assurda di una frase cantata da Capellio nella seconda scena: poiché fanciul partia vagò Romeo di terra in terra... E così, secondo la regista Romeo doveva avere 12 anni al massimo quando, dopo aver ammazzato durante giochi cruenti un coetaneo (delitto nemmeno perseguibile, per un minorenne di quell’età...) si auto-esiliò da Verona, vivendo per anni da latitante chissà dove? Roba da chiodi! Basta invece ascoltare ciò che canta lo stesso Romeo (finto ambasciatore ghibellino) nella scena successiva per riportare le cose nella giusta prospettiva: se Romeo t'uccise un figlio, in battaglia a lui diè morte... Chiaro abbastanza, no? Romeo (un ragazzo sì, ma pienamente in possesso delle sue facoltà, non un bambinello immaturo) uccise il fratello di Giulietta durante uno scontro armato in piena regola fra i due contrapposti gruppi paramilitari. Ma i registi, si sa, del testo che sono pagati per inscenare fanno ciò che più gli aggrada. (La Paoli viene dalla scuola di Michieletto, quello che si è inventato di sana pianta l’infanzia di Faust - La Damnation, Roma 2017 - e la vecchiaia di Elena e Malcom - La donna del lago, ROF 2016.)

Lorenzo: come detto, in Shakespeare è un frate autorevole, in Romani un medico; per la Paoli è un barista! Che evidentemente - dato l’ambiente in cui vive - traffica in droghe leggere e pesanti, così può rifornire Giulietta di sonnifero e Romeo di veleno (mah...) E non essendo lui un religioso, come si è detto, non può sposare i due amanti. Così la regista si inventa un auto-sposalizio dei due durante il duetto che chiude la prima parte.

Altre piacevolezze indotte dall’ambientazione moderna riguardano le solite incongruenze spicciole fra testo e scena, delle quali mi limito a ricordare il confronto fra Romeo e Tebaldo nella terza parte, dove i due ingaggiano un duello impugnando comicamente due revolver, per poi deporli e proseguirlo con più plausibili serramanico... Ma la ciliegina sulla torta la mette Giulietta, sparandosi un colpo di pistola alla tempia sulla salma di Romeo (!)  

Insomma, il Konzept della regista è proprio sballato del tutto e (inutile dirlo) totalmente irrispettoso dell’originale, di cui snatura completamente il soggetto. Che poi lo spettacolo in sè e per sè sia di discreto livello non basta a cancellare il reato, nè ad estinguere la pena (quella che prova lo spettatore appena-appena... informato dei fatti, guardando ciò che avviene in scena nel mentre risuonano le parole di Romani e le note di Bellini).

Pubblico scarseggiante per quantità, ma anche per calore. 

05 febbraio, 2018

Perle musicali


I geni della musica sono riconosciuti come tali non solo per aver ideato e costruito mirabili architetture sinfoniche o per aver rivestito di note immortali alcuni testi letterari, ma anche, per non dire soprattutto, per aver saputo impiegare con assoluta genialità (appunto) il mezzo musicale a supportare i soggetti musicati.

Spesso e volentieri queste intuizioni geniali riguardano dettagli minimi e apparentemente trascurabili, dettagli che sfuggono all’ascoltatore superficiale, ma spesso anche a quello più attento e preparato. Ma poi, quando si scoprono, ad un’analisi più profonda, si rivelano essere delle vere proprie perle. Che inducono quindi nell’ascoltatore, al di là dell’apprezzamento estetico, anche un piacere squisitamente intellettuale.

Eccone un esempio pratico: riguarda il rapporto fra espressione musicale e genere (inteso qui come essere umano maschio-femmina). Ora, da che mondo è mondo, si associano ai due generi (o sessi, se si preferisce) gli attributi di forte (il maschio) e debole (la femmina). Attributi che non sono stati soppiantati nemmeno da fenomeni di costume (il femminismo) o da teorie filosofiche o antropologiche e che rimangono tuttora radicati nel senso comune.

In un mirabile saggio sul DonGiovanni, comparso su Musica&Dossier del 1987, il grande Roman Vlad ci fa notare un’autentica perla mozartiana (ovviamente c’è lo zampino di DaPonte, sul fronte testo) analizzando il celeberrimo duettino Don-Zerlina del primo atto. È il maschio ad iniziarlo con Là ci darem la mano, là mi dirai di sì, e di seguito la femmina risponde, sulla stessa linea melodica, con Vorrei, e non vorrei, mi trema un poco il cor. Bene, osserviamo i due attacchi (tempo 2/4): quello del Don (sesso-forte) è sul tempo-forte della battuta; quello di Zerlina (sesso-debole) è sul tempo-debole della battuta!

La stessa cosa, mutatis mutandis (questo mi permetto io di osservarlo) succede con Bellini nella Norma, nel celebre duetto del finale (4/4). Qui è la femmina a cantare la prima frase In mia man alfin tu sei; Pollione risponde poi, sulla stessa linea melodica con No, sì vil non sono.

 
Come si vede, anche Bellini (complice Romani) applica la stessa geniale idea del Teofilo!