affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

28 giugno, 2025

Norma carbonara alla Scala.

Ieri sera alla Scala – dopo il reiterato messaggio NO-WAR proiettato a luci spente - è finalmente ricomparsa la belliniana sacerdotessa di Irminsul, che vi mancava da 48 anni, cioè da quel 1977 quando Gianandrea Gavazzeni ne diresse per l’ultima volta i suoni sulle scene avveniristiche (per allora… veramente un po’ alla Wieland Wagner) di Mauro Bolognini e con protagonista la somma Montserrat Caballè.

Oggi i protagonisti sono Fabio Luisi sul podio, Olivier Py alla regìa e Marina Rebeka negli scomodi quanto impegnativi panni della protagonista. 

E, a proposito, la Rebeka, ormai consolidata interprete del title-role (qui ascoltabile in una recente incisione, con Casta Diva in SOL… ma qui tornata al FA) mi è parsa appena-appena all’altezza delle aspettative: la salita agli acuti pare sempre problematica. I sonori buh incassati alla fine (ma anche dopo il Casta Diva) misti ad applausi sono forse immeritati, ma… l’eccellenza è un’altra cosa.

L’italo-albionico Freddie De Tommaso è un mediocre Pollione: la voce ci sarebbe anche, ma necessiterà di sudore per essere gestita come si deve. Per lui misto di approvazioni e brontolii di contestazione.

Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa) è la migliore del gruppo, giustamente osannata alla fine.

Michele Pertusi impersona Federico Confalonieri Oroveso e se la cava al meglio delle sue sempre notevoli possibilità.

Flavio è Paolo Antognetti, diciamo senza infamia. Merita un incoraggiamento l’accademica Laura Lolita Perešivana per la sua discreta prestazione come Clotilde.

Una sicurezza, come sempre, il Coro di Alberto Maletti.

Da Fabio Luisi forse ci si poteva aspettare di più: una direzione senza pecche, ma con pochi momenti davvero memorabili (uno: l’introduzione del second’atto, con la gran cavata dei celli). I buh non proprio isolati, rimediati all’uscita finale, forse erano eccessivi, ma non del tutto pretestuosi.

Insomma, sul fronte dei suoni ci si può appena accontentare, ecco.

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Difficile invece accontentarsi della regìa di Py (scene-costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy e coreografie di Ivo Bauchiero) che è di una banalità disarmante. Ci troviamo nella Milano del 1831, davanti alla Scala, ai tempi della prima dell’Opera. Già durante la Sinfonia assistiamo a moti rivoluzionari supportati da coreografie da avanspettacolo.

C’è la fucilazione di un rivoltoso da parte dei viennesi, seguita da un rito che si vede ogni giorno a Gaza: cadavere trascinato via in un lenzuolo bianco, poi ricoperto dal tricolore, compianto da compagne e compagni. Arriva, appunto, Federico Confalonieri, l’Oroveso capo dei carbonari ad aizzare i milanesi contro l’aguzzino occupante: Norma o Tell, tutto fa brodo, il Risorgimento è salvo.

La scena è posta sull’immancabile piattaforma girevole, che ci presenta la facciata della Scala e, sul retro… scale e scaloni che ospiteranno le vicende del dramma. Costumi dell’epoca, con i notabili carbonari vestiti da becchini e i militari occupanti in luminose divise immacolate.   

Simboli necrofili in abbondanza: teschi dorati, tre figuranti a creare l’atmosfera da tragedia greca, una toilette da teatro per Norma con la scritta MEDEA, chè non sfugga a nessuno il legame con l’abusato soggetto. Due candidi pupazzi-bambinelli fanno intuire l’insana attitudine di Norma-Medea nei loro confronti. E Norma, appunto, è una veggente, quindi scruta una sfera di cristallo scuro per… schiarirsi le idee.

Poi vedremo anche i bambinelli veri che sembrano il paparino in persona, con tanto di bianche uniformi e berretti in tinta (insomma, l’imperialismo austro-ungarico detta legge anche sui cromosomi…) giocare con i rispettivi pupazzetti mentre la mamma sta pensando a come farli secchi.

Alla fine del primo atto la Scala è quella ridotta a macerie dai bombardamenti americani viennesi (a futura memoria?)

L’epilogo non è un rogo (in effetti par di vedere una barricata incendiata): no, è una nuova fucilazione, operata dai patrioti milanesi per punire l’occupante e l’indegna traditrice della patria.

Allo spettacolo però – un vero peccato - è mancato lo spontaneo aggiungersi dell’intero pubblico al coro guerra! guerra!, come avveniva a quei tempi.

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Ecco perché, all’uscita finale, Py e Weitz hanno innescato nel secondo loggione… le 5 giornate di Milano. Che dire? Con normativa misericordia potremmo implorare per loro: Deh, non volerli vittime…

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