XIV

da prevosto a leone
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23 agosto, 2014

ROF XXXV live: Aureliano in Palmira

 

Il ROF-35 ha chiuso ieri sera i battenti con la quarta ed ultima replica di Aureliano in Palmira al Teatro Rossini. Dico subito che questa proposta (si tratta dell’ultima opera importante che mancava al carnet del Festival) merita comunque un encomio: probabilmente per la prima volta da… 200 anni si è ascoltato questo prodotto del 21enne Rossini in tutta la sua interezza. Grazie alla Fondazione e a Will Crutchfield che hanno reso possibile l’impresa.

L’ascolto integrale dell’opera lascia peraltro intuire le ragioni del suo scarso successo lungo gli anni, e degli innumerevoli tagli cui è stata regolarmente sottoposta: a dispetto del grande spessore della musica, incredibilmente innovativa se pensiamo al 1813, la sua lunghezza smisurata e la scarsa consistenza del soggetto la rendono difficilmente digeribile. Soprattutto – e vengo a questa proposta del ROF – se la messinscena (di Mario Martone, mi spiace per lui) è di sconsolante banalità, tanto che si può star certi che meglio sarebbe stato affidare la realizzazione dello spettacolo ai ragazzi e ai docenti dell’Accademia di Belle Arti di Urbino (Barbiere docet!)

Ecco, parto subito da Martone. Veramente censurabile la sua proposta, priva di una qualunque cifra interpretativa: sembra il compitino in classe di un ragazzino cui si è fatta leggere la favola della regina Zenobia. Una cosa fra la scimmiottatura di Zeffirelli e la parodia di un filmaccio di Maciste. La scena dei pastori è di un deprimente… realismo: quattro caprette che entrano sul palco a brucare stoppie! Velleitaria l’idea di mettere in scena i due strumentisti al continuo (Lucy Tucker Yates e David Ethève). Ma davvero insopportabile è la trovata finale: per mostrare a tutti che la sua è una regìa impegnata, Martone che ti inventa? Mentre i protagonisti stanno cantando il concertato conclusivo, lui fa scendere il velario trasparente e vi proietta sopra la storia vera (!?) di Zenobia. Così il pubblico si impegna per leggere il pistolotto e si perde tutto il finale! Pistolotto che si conclude con un riferimento di tutta attualità: ciò che accade oggi in medioriente altro non è se non uno strascico di quelle vicende di 2000 anni fa; insomma, i criminali dell’ISIS sono i nipotini di Zenobia! Ma bravo!
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Ma torniamo alla musica. Dicevo: opera altamente innovativa, e non a caso Rossini dedicò alla composizione di Aureliano tempo e fatica insoliti per lui, in quei primi e vorticosi anni della sua produzione. Un chiaro indizio di ciò è il trattamento riservato alla Sinfonia: a differenza dei suoi successivi imprestiti (ad Elisabetta e Barbiere, opere dove non ha alcun riferimento ai contenuti)  motivati quasi esclusivamente da fretta e mancanza di tempo, qui la Sinfonia è parte integrante dell’opera, anticipandone alcuni motivi peculiari: l’introduzione lenta in MI maggiore, che udremo nel second’atto, allorquando Arsace si inoltra nei boschi dopo essere fuggito dalla prigione di Aureliano; la sezione finale del primo tema (in MI minore); il cantabile in SOL maggiore (seconda sezione del secondo tema) e il successivo famoso crescendo e cadenza conclusiva che chiudono il primo atto.

Insomma, Rossini qui fece le cose con il massimo impegno e la massima cura, e i risultati si sentono! E se ne rese conto lo stesso Rossini che, a dispetto dello scarso successo delle prime rappresentazioni alla Scala, pescò abbondantemente nell’Aureliano per successive opere; a parte la sinfonia, ne riutilizzò, rielaborandole ma senza renderle irriconoscibili, alcune melodie: il coro iniziale (Sposa del grande Osiride) fu impiegato nel Barbiere per la cavatina d’esordio di Lindoro (Ecco ridente); la cabaletta di Arsace (Non lasciarmi in tal momento) divenne parte dell’aria di Rosina (sempre nel Barbiere); e di lì a poco anche il Sigismondo mutuerà più di uno spunto dall’Aureliano.
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Il pubblico (teatro quasi esaurito) ha avuto solo apprezzamenti per tutti, ma Jessica Pratt è stata l’autentica trionfatrice della serata: dopo il suo MIb sovracuto (Per donarvi libertà) gli applausi e le urla si sono prolungati per minuti e minuti (forse sperando che la cantante australiana tornasse in scena a rispondere all’omaggio)! In effetti la giunonica Jesica ha sfoderato tutta la sua splendida voce, e solo qualche appunto mi sentirei di muoverle alla scarsa penetrazione nelle note più gravi.

Acclamato anche Michael Spyres, che pure non mi è parso al 100% delle sue possibilità: acuti non perfetti e gravi piuttosto sforzati.

Lena Belkina non mi ha convinto del tutto (rispetto all’ascolto radiofonico): voce poco… contraltile e con timbro che nelle note acute tende a metallizzarsi. Mi verrebbe da dire che al suo posto, come Arsace, avrei visto (sentito) meglio la Raffaella Lupinacci, che invece è stata una più che apprezzabile Publia.

Degli altri, bene il Licinio di Sergio Vitale, mentre non esaltanti mi son parsi Dempsey Rivera (Oraspe) e Dimitri Pkhaladze (Gran Sacerdote). Raffaele Costantini si è dignitosamente comportato nella piccola parte del pastore. Su buoni standard il coro di Andrea Faidutti.

Will Crutchfield ha tenuto un approccio veramente (e direi doverosamente) serioso a questa partitura che lui ha personalmente riportato all’originale splendore, e della quale non ci ha risparmiato nulla (in ciò, come dicevo più sopra, può anche risiedere il limite della sua proposta, che mette a dura prova la… resistenza fisica del pubblico): la sua è una direzione sempre sostenuta, con tempi mediamente dilatati e accenti ieratici; in sostanza, una lettura coerente con l’intera operazione… filologica. L’orchestra Rossini lo asseconda dignitosamente e perdoneremo qualche piccolo inciampo dei fiati.

Tutto sommato direi che si è trattato della più riuscita, musicalmente parlando, delle tre opere del cartellone principale.        
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Ma ecco che, chiuso il 35, già si profila all’orizzonte il 36:


Come si usa precisare in simili circostanze: la Direzione si riserva la facoltà di apportare in qualunque momento modifiche al programma… etc. etc.

14 agosto, 2012

ROF-33 – Ciro in Babilonia


Ieri sera seconda recita, al Teatro Rossini, del Ciro, sbarcato a Pesaro dopo l’esperienza sulla east-coast americana. La ripresa televisiva della prima (RAI5) ci aveva già dato una consistente idea dell’allestimento e una più o meno vaga sensazione sull’interpretazione musicale: originale (o bizzarra?) la regìa; di buon livello il lato sono-canoro.

Rossini, nelle lettere alla mammina, parlava di quest’opera (la sua seconda seria, dopo il giovanilissimo Demetrio) chiamandola oratorio, forse perché doveva rappresentarsi (1812, a Ferrara) durante la Quaresima (quindi in forma magari semi-scenica?) In realtà, a parte un labile riferimento biblico, poco o nulla ha delle caratteristiche strutturali degli oratori.

Secondo il costume del tempo, oltre ad auto-imprestarsi musica da un’opera all’altra (la Sinfonia, per dire, è quella della farsa (!) L’inganno felice, composta poche settimane prima del Ciro) Rossini era solito adattare le sue opere alle possibilità tecniche dei cantanti chiamati ad interpretarle (quando addirittura non le avevano direttamente ispirate). Così, saputo che il personaggio di Argene sarebbe stato affidato a tale Anna Savinelli, che secondo lui cantava ancor peggio di quanto fosse brutta (smile!) e aveva di passabile solo il SIb centrale, il ventenne Rossini (che doveva avere già il pelo sullo stomaco e la simpatica perfidia di un uomo navigato) per sfruttare al meglio quella peculiare qualità ed evitarle figuracce le affidò per tutta l’opera soltanto dei recitativi secchi e poi le scrisse un’aria (Chi disprezza gl’infelici, prima del finale dell’opera) poggiante esclusivamente su quella nota: 


(Va da sé che il pregio dell’aria sta tutto nell’accompagnamento orchestrale, smile!

Si suol dire che il libretto di Francesco Aventi sia debole e farraginoso ed abbia quindi condizionato negativamente anche la parte musicale: può darsi, e certo non mancano lungaggini e zone d’ombra, come ad esempio tanti recitativi secchi francamente snervanti  e forse giustificati proprio da quel preteso quanto spurio carattere oratoriale dell’opera. Ma la musica, signori, è proprio all’altezza del Rossini più grande e non per nulla ne ritroveremo parecchia altrove, in opere della maturità!  

Già la Sinfonia – per quanto presa di peso, come detto, da altra opera di tutt’altro genere – è un bell’esempio di struttura, pur embrionale, di forma-sonata: vi troviamo un’introduzione lenta (Andantino) dal carattere religioso, in RE maggiore virante ad un cupo e quasi tragico minore, che conduce all’esposizione dei due temi, entrambi veloci (Allegro spiritoso): il primo in RE e il secondo (che sembra anticipare certo Schubert) nella dominante LA maggiore; segue la riesposizione del primo tema, in RE, di cui è variata la cadenza conclusiva, in modo da portare alla ripresentazione del secondo tema adeguato alla tonalità di impianto. Rossini gioca abilmente con i timbri orchestrali, affidando a strumenti diversi (soprattutto i fiati) le riproposizioni dei temi; e fa già uso sapiente di quelli che diventeranno i suoi famosi crescendo, a concludere temi e brano. 

A dispetto dello sfondo pseudo-storico, l’opera poggia sulle vicende legate ai rapporti umani fra i protagonisti e sullo scavo psicologico delle rispettive personalità. Abbiamo un triangolo piuttosto anomalo (o originale, se si preferisce) col tenore incapricciato del soprano, che però è sposa fedele del… contralto! (Esiste anche una vicenda sentimentale parallela, fra Argene e Arbace, che resta però a livello di recitativi.) Il (lieto) fine è dovuto al provvidenziale intervento di due agenti esterni: il primo di natura soprannaturale (la mano che verga sul muro il famoso mane, thecel, phares) che fa dar di volta il cervello a Baldassare, e a Rossini fa scrivere un’aria stupefacente (Qual crudel, qual trista sorte); e il secondo più prosaicamente incarnantesi nell’arrivano i nostri guidati da Dario. Così trionfano onestà e fedeltà (di soprano e contralto) sulla cieca protervia ricattarice (del tenore).

Di azione quasi non esiste ombra, e anche l’unico (e classico) espediente dell’arrivo a Babilonia di Ciro sotto le mentite spoglie di un suo portavoce non crea alcuna suspence né ha sostanziali effetti, venendo presto smascherato e trasformandosi, come un boomerang, in un nuovo strumento di ricatto di Baldassare nei confronti di Amira. Ancora: la scena all’inizio del second’atto – che sembra mutuata da Fidelio, compresa la mirabile introduzione orchestrale – dell’incontro fra Amira e Ciro nella prigione in cui questi è segregato e dove arriva a sorprenderli Baldassare, si conclude senza colpi di teatro (nessuno squillo di trombetta che metta in allarme il despota babilonese…) e rimane un puro pretesto per farci ascoltare due grandi pagine di musica: il duetto Ciro-Amira (Nello stingerti al mio petto) e il successivo terzetto con Baldassare (Fiero nell’anima terror si desta).

In sostanza: l’intera vicenda si riduce al lungo braccio di ferro psicologico fra Baldassare e Amira, con Ciro a recitare la parte di un marito e padre tanto amorevole quanto impotente, cui non resta che affidarsi alla provvidenza. E tutta la musica (arie e cabalette) non fa che supportare questo scenario, con il contorno di qualche coro e di pochi numeri (tra cui la citata aria del SI bemolle…) riservati ai comprimari.   

Sul lato puramente strumentale, oltre ad alcune splendide introduzioni ad arie, sono da incorniciare alcuni brani di obbligato: primo fra tutti quello in LA maggiore del violino sull’aria di Amira (Deh! per me non v’affliggete) veramente degno di quello che Beethoven scriverà per accompagnare il Benedictus della sua Missa! Ma anche fagotto e corno hanno modo di mettersi in bella mostra in più di un’occasione.

Insomma, non sarà proprio un capolavoro, ma adesso che ne esiste una versione sufficientemente stabilizzata (grazie al lavoro sulle fonti compiuto dagli esperti della Fondazione Rossini, Ilaria Narici e Daniele Carnini) il Ciro è opera che merita senz’altro di entrare nel repertorio dei teatri (meglio se con parecchie sforbiciate ai recitativi secchi…)
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Vengo ora a questa nuova produzione del ROF. Intervistato da Radio3, il patron Gianfranco Mariotti ha ribadito che il ROF è un Festival e come tale è tenuto a fare allestimenti che portino novità e che facciano discutere; la routine viene lasciata ai teatri di repertorio. (Deduco che Mariotti non frequenta quei teatri da qualche decennio, smile!) Quanto a Davide Livermore, nelle sue apparizioni in radio e tv, durante le dirette, non ha mancato di ribadire il suo personale approccio alla regìa operistica: attualizzare i soggetti da mettere in scena, pur preservandone (bontà sua) la trama originale (!) E ha ovviamente citato a supporto di ciò la sua (censurabile, per me) interpretazione dei Vespri verdiani, da lui ambientati attorno alla strage di Capaci.

Ora bisognerebbe chiedergli dove stia, nel suo Ciro qui al ROF, l’attualizzazione… Perché cosa vediamo noi in scena? Ambientazioni e costumi pseudo-storici, tanto belli quanto inverosimili. La prima reazione che viene spontanea è: vuoi vedere che Livermore è stato colpito da improvvisa zeffirellite acuta? (smile!) E ha deciso di smentire clamorosamente il patron Mariotti, con un allestimento più tradizionalista di quelli dei teatri di repertorio (di 50 anni fa)? Ovviamente non può essere, e quindi ci dev’essere sotto qualcosa d’altro…

E questo qualcosa pian piano viene alla luce (lo si era del resto intuito da alcuni fuori-scena durante l’esecuzione della Sinfonia): acconciature, trucco e movenze degli interpreti sono tipiche da cinema muto (!) e noi del pubblico stiamo assistendo appunto alla proiezione di un film di un secolo fa, più o meno, come testimoniano tutte quelle classiche striature che scorrono verticalmente davanti ai nostri occhi, così tipiche delle pellicole di quei tempi (già, stiamo attualizzando, smile!)

Quindi ecco la trovata: dato che il-teatro-nel teatro, ed anche il-cinema-nel-cinema sono già stati da tempo inventati, usati ed abusati, il buon Livermore si spinge fino ad inventare il-cinema-nel-teatro.

Ma non è ancora tutto: ci accorgiamo che sulla scena, oltre ai protagonisti principali del dramma rossiniano, bardati nei loro costumi zeffirelliani, ci sono anche componenti del coro (e forse alcune comparse) che vestono invece abiti borghesi di un secolo fa, e assistono al film (muto, ma… cantato!) accomodati su scomode seggiole. Dopodichè questi particolari spettatori cominciano ad alzarsi, a muoversi e a… mescolarsi con i protagonisti del film, diventandone a loro volta interpreti (ma il pubblico che diventa protagonista dell’opera è un… copyright che da anni è stato registrato da tale Robert Carsen, o sbaglio?) In alcuni momenti sullo sfondo compare proprio l’immagine dei palchi di un teatro, ottenuta con semplici proiezioni, invece che facendo scendere giganteschi specchi che riflettano la sala vera, dove stiamo noi spettatori (ma al ROF non ne avevano uno di specchi, già impiegato anni fa per Zelmira? Forse era stato solo noleggiato… smile!) Insomma, oltre al cinema-nel-teatro abbiamo adesso anche il teatro-nel-cinema!

Mah: viene il sospetto che Livermore con questo allestimento si sia proposto (anche) di mettere alla berlina le regìe cosiddette tradizionali, e per far ciò abbia usato uno strumento ben preciso: la parodia. L’idea sarà anche brillante, ma il rischio che il regista corre è di parodiare, insieme al concetto di regìa tradizionale, anche l’oggetto medesimo della rappresentazione. In sostanza, quello cui assistiamo è un Ciro in Babilonia che assomiglierà pure a grandi e secolari pellicole, quali Cabiria o Intolerance, ma a volte finisce per scadere al livello di Ridolini o di Stanlio&Ollio! Beh, come risultato del principio di attualizzazione non mi sembra male davvero (!) In ogni caso e dati i precedenti, ci consoliamo pensando che ci poteva capitare di molto peggio: Ciro trasformato in Khomeini e Baldassare in Saddam, ai tempi della guerra Iran-Iraq (ma evidentemente questo soggetto è stato ritenuto di scarsa attualità, smile!)

Quello che ha lasciato pochi dubbi è invece il lato-suoni, di livello davvero ragguardevole (accade raramente che l’ascolto dal vivo appaia migliore di quello microfonato delle riprese audio-tv): a partire dall’inossidabile 60enne Ewa Podleś, un Ciro eccezionale che ha letteralmente stregato il pubblico. Voce da vero contralto, che si spinge giù fino al MIb centrale della chiave di… basso (!)

Per continuare con Michael Spyres, perfettamente a suo agio nei panni di Baldassare: gran voce da bari-tenore, canto aperto, con ampia estensione (qui, dal SIb sotto il rigo al DO sovracuto). Interminabile l’applauso che ha accolto la sua Abbian morte e Ciro e figlio.

Ma su tutti ha brillato, secondo me, Jessica Pratt (Amira): voce sempre calda e intonata, ottimo legato e mai una sbavatura o un urlo.

All’altezza gli altri interpreti: Mirco Palazzi, autorevole Zambria, Robert McPherson come Arbace e Raffaele Costantini, nella parte piccola ma importante di Daniello. Carmen Romeu (Argene) ha sciorinato assai bene il suo SI bemolle: si spera che non abbia solo quello (smile!) Compatto e preciso il coro bolognese di Lorenzo Fratini.

Will Crutchfield – oltre che accompagnare personalmente i recitativi al fortepiano - ha guidato con autorità l’Orchestra del Comunale di Bologna, sempre più di casa al ROF, con un’interpretazione rigorosa, forse a volte un filino troppo… compassata (ma siamo quasi a cercare il pelo nell’uovo).

Si potrebbero invece criticare i pochi (!) tagli ai recitativi secchi (tagli limitati più che altro al finale) il che ha comportato inevitabili rallentamenti del flusso musicale (oltre ad una durata della recita che ha sfiorato le tre ore nette!) senza peraltro aggiungere gran valore allo spettacolo. Ma in complesso si è trattato di un’esecuzione che ha reso giustizia a questo Rossini giovane ma ormai avviato sulla strada che lo porterà lontano.

Grandissimo – e assolutamente meritato - successo per tutti.