Ieri sera seconda recita, al Teatro
Rossini, del Ciro, sbarcato a Pesaro dopo l’esperienza sulla east-coast americana. La ripresa
televisiva della prima (RAI5) ci aveva già dato una consistente idea dell’allestimento
e una più o meno vaga sensazione sull’interpretazione musicale: originale (o bizzarra?) la regìa; di buon livello il lato sono-canoro.
Rossini, nelle lettere alla mammina,
parlava di quest’opera (la sua seconda seria,
dopo il giovanilissimo Demetrio)
chiamandola oratorio, forse perché
doveva rappresentarsi (1812, a Ferrara) durante la Quaresima (quindi in forma magari semi-scenica?) In realtà, a parte
un labile riferimento biblico, poco o nulla ha delle caratteristiche strutturali degli
oratori.
Secondo il costume del tempo, oltre ad
auto-imprestarsi musica da un’opera
all’altra (la Sinfonia,
per dire, è quella della farsa (!) L’inganno
felice, composta poche settimane prima del Ciro) Rossini era solito adattare le sue opere alle possibilità tecniche
dei cantanti chiamati ad interpretarle (quando addirittura non le avevano
direttamente ispirate). Così, saputo che il personaggio di Argene sarebbe stato
affidato a tale Anna Savinelli, che
secondo lui cantava ancor peggio di quanto fosse brutta (smile!) e aveva di passabile solo il SIb centrale, il ventenne
Rossini (che
doveva avere già il pelo sullo stomaco e la simpatica perfidia di un uomo
navigato) per sfruttare al meglio quella peculiare qualità ed evitarle
figuracce le affidò
per tutta l’opera soltanto dei recitativi secchi e poi le scrisse un’aria
(Chi disprezza gl’infelici, prima del finale dell’opera) poggiante esclusivamente su quella nota:
(Va da sé che il pregio dell’aria sta
tutto nell’accompagnamento
orchestrale, smile!)
Si suol dire che il libretto di Francesco Aventi sia debole e farraginoso ed abbia quindi condizionato negativamente anche la parte musicale: può darsi, e certo non mancano lungaggini e zone d’ombra, come ad esempio tanti recitativi secchi francamente snervanti e forse giustificati proprio da quel preteso quanto spurio carattere oratoriale dell’opera. Ma la musica, signori, è proprio all’altezza del Rossini più grande e non per nulla ne ritroveremo parecchia altrove, in opere della maturità!
Già la Sinfonia – per quanto presa di peso, come detto, da altra opera di tutt’altro genere – è un bell’esempio di struttura, pur embrionale, di forma-sonata: vi troviamo un’introduzione lenta (Andantino) dal carattere religioso, in RE maggiore virante ad un cupo e quasi tragico minore, che conduce all’esposizione dei due temi, entrambi veloci (Allegro spiritoso): il primo in RE e il secondo (che sembra anticipare certo Schubert) nella dominante LA maggiore; segue la riesposizione del primo tema, in RE, di cui è variata la cadenza conclusiva, in modo da portare alla ripresentazione del secondo tema adeguato alla tonalità di impianto. Rossini gioca abilmente con i timbri orchestrali, affidando a strumenti diversi (soprattutto i fiati) le riproposizioni dei temi; e fa già uso sapiente di quelli che diventeranno i suoi famosi crescendo, a concludere temi e brano.
A dispetto dello sfondo pseudo-storico, l’opera poggia sulle vicende legate ai rapporti umani fra i protagonisti e sullo scavo psicologico delle rispettive personalità. Abbiamo un triangolo piuttosto anomalo (o originale, se si preferisce) col tenore incapricciato del soprano, che però è sposa fedele del… contralto! (Esiste anche una vicenda sentimentale parallela, fra Argene e Arbace, che resta però a livello di recitativi.) Il (lieto) fine è dovuto al provvidenziale intervento di due agenti esterni: il primo di natura soprannaturale (la mano che verga sul muro il famoso mane, thecel, phares) che fa dar di volta il cervello a Baldassare, e a Rossini fa scrivere un’aria stupefacente (Qual crudel, qual trista sorte); e il secondo più prosaicamente incarnantesi nell’arrivano i nostri guidati da Dario. Così trionfano onestà e fedeltà (di soprano e contralto) sulla cieca protervia ricattarice (del tenore).
Si suol dire che il libretto di Francesco Aventi sia debole e farraginoso ed abbia quindi condizionato negativamente anche la parte musicale: può darsi, e certo non mancano lungaggini e zone d’ombra, come ad esempio tanti recitativi secchi francamente snervanti e forse giustificati proprio da quel preteso quanto spurio carattere oratoriale dell’opera. Ma la musica, signori, è proprio all’altezza del Rossini più grande e non per nulla ne ritroveremo parecchia altrove, in opere della maturità!
Già la Sinfonia – per quanto presa di peso, come detto, da altra opera di tutt’altro genere – è un bell’esempio di struttura, pur embrionale, di forma-sonata: vi troviamo un’introduzione lenta (Andantino) dal carattere religioso, in RE maggiore virante ad un cupo e quasi tragico minore, che conduce all’esposizione dei due temi, entrambi veloci (Allegro spiritoso): il primo in RE e il secondo (che sembra anticipare certo Schubert) nella dominante LA maggiore; segue la riesposizione del primo tema, in RE, di cui è variata la cadenza conclusiva, in modo da portare alla ripresentazione del secondo tema adeguato alla tonalità di impianto. Rossini gioca abilmente con i timbri orchestrali, affidando a strumenti diversi (soprattutto i fiati) le riproposizioni dei temi; e fa già uso sapiente di quelli che diventeranno i suoi famosi crescendo, a concludere temi e brano.
A dispetto dello sfondo pseudo-storico, l’opera poggia sulle vicende legate ai rapporti umani fra i protagonisti e sullo scavo psicologico delle rispettive personalità. Abbiamo un triangolo piuttosto anomalo (o originale, se si preferisce) col tenore incapricciato del soprano, che però è sposa fedele del… contralto! (Esiste anche una vicenda sentimentale parallela, fra Argene e Arbace, che resta però a livello di recitativi.) Il (lieto) fine è dovuto al provvidenziale intervento di due agenti esterni: il primo di natura soprannaturale (la mano che verga sul muro il famoso mane, thecel, phares) che fa dar di volta il cervello a Baldassare, e a Rossini fa scrivere un’aria stupefacente (Qual crudel, qual trista sorte); e il secondo più prosaicamente incarnantesi nell’arrivano i nostri guidati da Dario. Così trionfano onestà e fedeltà (di soprano e contralto) sulla cieca protervia ricattarice (del tenore).
Di azione quasi non esiste ombra,
e anche l’unico (e classico) espediente dell’arrivo a Babilonia di Ciro sotto
le mentite spoglie di un suo portavoce non crea alcuna suspence né ha sostanziali effetti, venendo presto smascherato e
trasformandosi, come un boomerang, in un nuovo strumento di ricatto di
Baldassare nei confronti di Amira. Ancora: la scena all’inizio del second’atto
– che sembra mutuata da Fidelio,
compresa la mirabile introduzione orchestrale – dell’incontro fra Amira e Ciro
nella prigione in cui questi è segregato e dove arriva a sorprenderli
Baldassare, si conclude senza colpi di teatro (nessuno squillo di trombetta che
metta in allarme il despota babilonese…) e rimane un puro pretesto per farci ascoltare
due grandi pagine di musica: il duetto Ciro-Amira (Nello stingerti al mio petto) e il successivo
terzetto con Baldassare (Fiero nell’anima
terror si desta).
In sostanza: l’intera vicenda si
riduce al lungo braccio di ferro psicologico fra Baldassare e Amira, con Ciro a
recitare la parte di un marito e padre tanto amorevole quanto impotente, cui
non resta che affidarsi alla provvidenza. E tutta la musica (arie e cabalette) non
fa che supportare questo scenario, con il contorno di qualche coro e di pochi numeri (tra cui la citata aria
del SI bemolle…) riservati ai comprimari.
Sul
lato puramente strumentale, oltre ad alcune splendide introduzioni ad arie,
sono da incorniciare alcuni brani di obbligato:
primo fra tutti quello in LA maggiore del violino sull’aria di Amira (Deh! per me non v’affliggete) veramente
degno di quello che Beethoven scriverà per accompagnare il Benedictus della sua Missa!
Ma anche fagotto e corno hanno modo di mettersi in bella mostra in più di
un’occasione.
Insomma,
non sarà proprio un capolavoro, ma adesso che ne esiste una versione sufficientemente
stabilizzata (grazie al lavoro sulle fonti compiuto dagli esperti della
Fondazione Rossini, Ilaria Narici e Daniele Carnini) il Ciro è opera che
merita senz’altro di entrare nel repertorio dei teatri (meglio se con parecchie
sforbiciate ai recitativi secchi…)
___
Vengo
ora a questa nuova produzione del ROF. Intervistato da Radio3, il patron Gianfranco Mariotti ha ribadito
che il ROF è un Festival e come tale è tenuto a fare allestimenti che portino
novità e che facciano discutere; la routine
viene lasciata ai teatri di repertorio.
(Deduco che Mariotti non frequenta quei teatri da qualche decennio, smile!) Quanto a Davide Livermore, nelle sue apparizioni in radio e tv, durante le
dirette, non ha mancato di ribadire il suo personale approccio alla regìa
operistica: attualizzare i soggetti
da mettere in scena, pur preservandone (bontà sua) la trama originale (!) E ha
ovviamente citato a supporto di ciò la sua (censurabile, per me)
interpretazione dei Vespri verdiani, da
lui ambientati attorno alla strage di Capaci.
Ora
bisognerebbe chiedergli dove stia, nel suo Ciro qui al ROF, l’attualizzazione… Perché cosa vediamo noi
in scena? Ambientazioni e costumi pseudo-storici, tanto belli quanto inverosimili. La
prima reazione che viene spontanea è: vuoi vedere che Livermore è stato colpito
da improvvisa zeffirellite acuta? (smile!) E ha deciso di smentire
clamorosamente il patron Mariotti, con un allestimento più tradizionalista di
quelli dei teatri di repertorio (di 50 anni fa)? Ovviamente non può essere, e
quindi ci dev’essere sotto qualcosa d’altro…
E
questo qualcosa pian piano viene alla luce (lo si era del resto intuito da
alcuni fuori-scena durante l’esecuzione della Sinfonia): acconciature, trucco e
movenze degli interpreti sono tipiche da cinema
muto (!) e noi del pubblico stiamo assistendo appunto alla proiezione di un
film di un secolo fa, più o meno, come testimoniano tutte quelle classiche
striature che scorrono verticalmente davanti ai nostri occhi, così tipiche
delle pellicole di quei tempi (già, stiamo attualizzando,
smile!)
Quindi
ecco la trovata: dato che il-teatro-nel
teatro, ed anche il-cinema-nel-cinema
sono già stati da tempo inventati, usati ed abusati, il buon Livermore si
spinge fino ad inventare il-cinema-nel-teatro.
Ma
non è ancora tutto: ci accorgiamo che sulla scena, oltre ai protagonisti principali
del dramma rossiniano, bardati nei loro costumi zeffirelliani, ci sono anche
componenti del coro (e forse alcune comparse) che vestono invece abiti borghesi
di un secolo fa, e assistono al film (muto, ma… cantato!) accomodati su scomode
seggiole. Dopodichè questi particolari spettatori cominciano ad alzarsi, a
muoversi e a… mescolarsi con i protagonisti del film, diventandone a loro volta
interpreti (ma il pubblico che diventa protagonista dell’opera è un… copyright che da anni è stato registrato
da tale Robert Carsen, o sbaglio?) In
alcuni momenti sullo sfondo compare proprio l’immagine dei palchi di un teatro,
ottenuta con semplici proiezioni, invece che facendo scendere giganteschi
specchi che riflettano la sala vera, dove stiamo noi spettatori (ma al ROF non
ne avevano uno di specchi, già impiegato anni fa per Zelmira? Forse era stato
solo noleggiato… smile!) Insomma,
oltre al cinema-nel-teatro abbiamo
adesso anche il teatro-nel-cinema!
Mah:
viene il sospetto che Livermore con questo allestimento si sia proposto (anche)
di mettere alla berlina le regìe cosiddette tradizionali,
e per far ciò abbia usato uno strumento ben preciso: la parodia. L’idea sarà anche brillante, ma il rischio che il regista
corre è di parodiare, insieme al concetto di regìa tradizionale, anche l’oggetto medesimo della rappresentazione.
In sostanza, quello cui assistiamo è un Ciro in Babilonia che assomiglierà pure
a grandi e secolari pellicole, quali Cabiria
o Intolerance, ma a volte finisce per
scadere al livello di Ridolini o di Stanlio&Ollio! Beh, come risultato
del principio di attualizzazione non mi sembra male davvero (!) In ogni caso e dati
i precedenti, ci consoliamo pensando che ci poteva capitare di molto peggio:
Ciro trasformato in Khomeini e
Baldassare in Saddam, ai tempi della
guerra Iran-Iraq (ma evidentemente questo soggetto è stato ritenuto di scarsa attualità,
smile!)
Quello
che ha lasciato pochi dubbi è invece il lato-suoni,
di livello davvero ragguardevole (accade raramente che l’ascolto dal vivo appaia
migliore di quello microfonato delle
riprese audio-tv): a partire dall’inossidabile 60enne Ewa Podleś, un Ciro eccezionale che ha letteralmente
stregato il pubblico. Voce da vero contralto, che si spinge giù fino al MIb
centrale della chiave di… basso (!)
Per continuare con Michael Spyres,
perfettamente a suo agio nei panni di Baldassare: gran voce da bari-tenore,
canto aperto, con ampia estensione (qui, dal SIb sotto il rigo al DO sovracuto).
Interminabile l’applauso che ha accolto la sua Abbian morte e Ciro e figlio.
Ma su tutti ha brillato, secondo me, Jessica
Pratt (Amira): voce sempre calda e intonata, ottimo legato e mai una sbavatura o un urlo.
All’altezza gli altri interpreti: Mirco
Palazzi, autorevole Zambria, Robert
McPherson come Arbace e Raffaele
Costantini, nella parte piccola ma importante di Daniello. Carmen Romeu (Argene) ha sciorinato
assai bene il suo SI bemolle: si spera che non abbia solo quello (smile!) Compatto
e preciso il coro bolognese di Lorenzo
Fratini.
Will Crutchfield –
oltre che accompagnare personalmente i recitativi al fortepiano - ha guidato con
autorità l’Orchestra del Comunale di
Bologna, sempre più di casa al ROF, con un’interpretazione rigorosa, forse
a volte un filino troppo… compassata (ma siamo quasi a cercare il pelo nell’uovo).
Si potrebbero
invece criticare i pochi (!) tagli ai
recitativi secchi (tagli limitati più che altro al finale) il che ha comportato
inevitabili rallentamenti del flusso musicale (oltre ad una durata della recita
che ha sfiorato le tre ore nette!)
senza peraltro aggiungere gran valore allo spettacolo. Ma in complesso si è
trattato di un’esecuzione che ha reso giustizia a questo Rossini giovane ma ormai
avviato sulla strada che lo porterà lontano.
Grandissimo – e
assolutamente meritato - successo per tutti.
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