In
una Rimini tuttora in pieno assetto di guerra (balneare, sia chiaro…) ieri sera
Gianandrea Noseda ha aperto (onore
che si ripete per lui ad un anno di distanza dalla grande Ottava mahleriana) la 63ma edizione della Sagra
musicale malatestiana,
guidando la European Union
Youth Orchestra
in un corposo programma.
Il
concerto – come accadrà per i successivi della Sagra – si è tenuto nel nuovo ed
avveniristico Palazzo dei Congressi di
Rimini, sorto proprio di rimpetto al vecchio nella zona della ex-Fiera. Il Palazzo
è stato finalmente inaugurato solo da poco, dopo che per parecchi mesi, o anni
ormai, era rimasto inagibile, pur completato, a causa di guerre e guerricciole
di campanile geografico - Forlì-Rimini - e politico - left-right. Per la musica
poi cambia poco o nulla, chè la nuova Sala
della Piazza che ospita i concerti non è molto diversa dalla precedente: un
enorme stanzone con sommaria pannellatura periferica, ed una capienza leggermente
aumentata, da 1600 a 1900 posti. Domanda: ma allora a che serve l’Auditorium ad anfiteatro situato al piano
superiore?
Ma veniamo alla musica. Lo yankee Garrick Ohlsson (vincitore del Premio Chopin 10 anni dopo Pollini) ha aperto la serata con l’inflazionato Concerto per pianoforte op. 23 di Ciajkovski. Lui e Noseda hanno tenuto tempi abbastanza comodi, a partire dalla celeberrima Introduzione, dove hanno accentuato assai il Molto maestoso che si accompagna all’Allegro non troppo… Ohlsson sciorina una gran tecnica, ma anche una raffinata sensibilità, soprattutto nei passaggi più intimistici del primo movimento, nelle cadenze e soprattutto nell’Andantino simplice. Poi si scatena nel travolgente Allegro con fuoco. Applausi e ovazioni lo invitano ad un bis: il più famoso dei walzer di Chopin!
Dopo l’intervallo ecco composizioni di due autori del primo o primissimo novecento: Debussy e Respighi. Si tratta sempre di musica a programma (e pure su programmi in buona parte simili, vedi le due Feste) ma la distanza (estetica) fra i due compositori è davvero abissale: laddove il francese si pone l’obiettivo che sempre dovrebbe informare un artista, cioè la poetizzazione dei soggetti-oggetti delle sue composizioni, l’italiano sembra limitarsi alla creazione di effetti a buon mercato, infarcendo la sua musica di enfasi e retorica, come si addice piuttosto a certe colonne sonore cinematografiche.
Ma veniamo alla musica. Lo yankee Garrick Ohlsson (vincitore del Premio Chopin 10 anni dopo Pollini) ha aperto la serata con l’inflazionato Concerto per pianoforte op. 23 di Ciajkovski. Lui e Noseda hanno tenuto tempi abbastanza comodi, a partire dalla celeberrima Introduzione, dove hanno accentuato assai il Molto maestoso che si accompagna all’Allegro non troppo… Ohlsson sciorina una gran tecnica, ma anche una raffinata sensibilità, soprattutto nei passaggi più intimistici del primo movimento, nelle cadenze e soprattutto nell’Andantino simplice. Poi si scatena nel travolgente Allegro con fuoco. Applausi e ovazioni lo invitano ad un bis: il più famoso dei walzer di Chopin!
Dopo l’intervallo ecco composizioni di due autori del primo o primissimo novecento: Debussy e Respighi. Si tratta sempre di musica a programma (e pure su programmi in buona parte simili, vedi le due Feste) ma la distanza (estetica) fra i due compositori è davvero abissale: laddove il francese si pone l’obiettivo che sempre dovrebbe informare un artista, cioè la poetizzazione dei soggetti-oggetti delle sue composizioni, l’italiano sembra limitarsi alla creazione di effetti a buon mercato, infarcendo la sua musica di enfasi e retorica, come si addice piuttosto a certe colonne sonore cinematografiche.
Debussy
si macera nella ricerca continua di nuove sonorità e combinazioni armoniche
(usava dire di restare intere mezze giornate a meditare su un singolo accordo!)
e impiega i mezzi orchestrali – pur corposi - con grande parsimonia e
trasparenza. Respighi invece usa le sue grandi qualità di orchestratore a fini
di pura esteriorità,
e insomma nei suoi poemi sinfonici per me sembra tenere un approccio da
tardo-romanticismo ormai in stato avanzato di decomposizione…
Di Debussy vengono eseguiti Nuages e Fêtes, due dei tre Nocturnes, composti proprio al passaggio del secolo. Il terzo (Sirènes) richiede la presenza irrinunciabile del coro femminile e per questo viene solitamente omesso nei concerti. Anche in occasione della prima assoluta (9/12/1900) vennero eseguiti solo questi due brani.
Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ci dice Debussy; ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso.
L’incipit di clarinetti e fagotti ricorda vagamente il Dies-Irae, mentre subito dopo il corno inglese espone un nuovo tema ricorrente, che sembra quasi una reminiscenza delle prime battute del Tristan. Pur non essendo un seguace dell’atonalismo, Debussy cerca di affrancarsi dai classici e rigidi schemi della tonalità, impiegando accordi imperfetti, o inquinando quelli perfetti con note armonicamente distanti: in questo brano in particolare, ciò concorre in modo estremamente efficace a creare quell’atmosfera indefinita e instabile che lo caratterizza. Nella sezione centrale Debussy fa anche uso di una scala pentatonica, di chiara matrice orientale, che sembra anticipare di 10 anni altre nuvole, quelle del Lied von der Erde di Mahler…
Di Debussy vengono eseguiti Nuages e Fêtes, due dei tre Nocturnes, composti proprio al passaggio del secolo. Il terzo (Sirènes) richiede la presenza irrinunciabile del coro femminile e per questo viene solitamente omesso nei concerti. Anche in occasione della prima assoluta (9/12/1900) vennero eseguiti solo questi due brani.
Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ci dice Debussy; ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso.
L’incipit di clarinetti e fagotti ricorda vagamente il Dies-Irae, mentre subito dopo il corno inglese espone un nuovo tema ricorrente, che sembra quasi una reminiscenza delle prime battute del Tristan. Pur non essendo un seguace dell’atonalismo, Debussy cerca di affrancarsi dai classici e rigidi schemi della tonalità, impiegando accordi imperfetti, o inquinando quelli perfetti con note armonicamente distanti: in questo brano in particolare, ciò concorre in modo estremamente efficace a creare quell’atmosfera indefinita e instabile che lo caratterizza. Nella sezione centrale Debussy fa anche uso di una scala pentatonica, di chiara matrice orientale, che sembra anticipare di 10 anni altre nuvole, quelle del Lied von der Erde di Mahler…
In Fêtes Debussy
si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone
però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia
repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le
sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e
sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni. Si osservi
la pulizia della scrittura orchestrale anche nel momento di massimo impatto
sonoro:
Impeccabile
l’esecuzione della EUYO (le tante ragazze hanno sulla spalla una stola blu
recante il cerchio stellato dell’Unione) che mette in mostra grandi
individualità accanto ad una solida compattezza degli insiemi. Noseda ha
guidato tutti con grande cura e con ricerca dei mille dettagli che costellano
questa partitura.
Eccoci infine al respighiano Feste romane. Che principia con musica adatta a film-colossal tipo Ursus o Maciste (o magari a Totò e i gladiatori, smile!) per finire con… Lassàtece passà, semo romani (insomma, se non siamo proprio alla vispa teresa, poco ci manca). Questa pagina della partitura testimonia dell’ipertrofia dell’orchestra e degli… eccessi della scrittura respighiana:
Eccoci infine al respighiano Feste romane. Che principia con musica adatta a film-colossal tipo Ursus o Maciste (o magari a Totò e i gladiatori, smile!) per finire con… Lassàtece passà, semo romani (insomma, se non siamo proprio alla vispa teresa, poco ci manca). Questa pagina della partitura testimonia dell’ipertrofia dell’orchestra e degli… eccessi della scrittura respighiana:
Nel secondo
e terzo quadro (pellegrini e ottobrata) ci sono anche momenti di intimismo,
che però paiono a me francamente poveri di ispirazione. Ed anche i frammenti di
musica popolare ci vengono proposti in modo fin troppo verista e al limite della sguaiatezza, insomma con poca o punta poetizzazione…
Un pezzo che comunque dà modo ai ragazzi della EUYO di mettere in mostra il loro grande talento tecnico, e a Noseda… di irrorare di abbondante sudore il suo nero camicione! Ad una delle chiamate di applausi, il Maestro si porta con sé anche i tre bravissimi suonatori-suonatrici di buccine.
Per la Sagra, davvero un ottimo inizio.
Un pezzo che comunque dà modo ai ragazzi della EUYO di mettere in mostra il loro grande talento tecnico, e a Noseda… di irrorare di abbondante sudore il suo nero camicione! Ad una delle chiamate di applausi, il Maestro si porta con sé anche i tre bravissimi suonatori-suonatrici di buccine.
Bello
lo spettacolo dei giovani strumentisti che si baciano ed abbracciano lungamente
prima di abbandonare il palco.
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